Il viaggio: Spazi e tempi di una trasformazione
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Testi di: Massimo Campanini, Gabrio Forti, Christine Kontler, Davide Lampugnani, Luciano Manicardi, Monica Martinelli, David Meyer, Paolo Pagani, Francesca Peruzzotti, Silvano Petrosino, Julien Ries, Arpad Szakolczai, Chiara O. Tommasi, Sergio Ubbiali.
Silvano Petrosino
Professore ordinario presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore, dove insegna Teorie della Comunicazione e Antropologia religiosa e media. Dal 2010 è direttore dell’«Archivio “Julien Ries” per l’antropologia simbolica». I suoi studi si concentrano sull’antropologia dello sguardo, della parola e dell’abitare, nonché sull’interpretazione dei tratti distintivi del logos biblico.
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Il viaggio - Silvano Petrosino
IL VIAGGIO
SPAZI E TEMPI
DI UNA
TRASFORMAZIONE
Massimo Campanini, Gabrio Forti, Christine Kontler,
Davide Lampugnani, Luciano Manicardi, Monica Martinelli,
David Meyer, Paolo Pagani, Francesca Peruzzotti,
Silvano Petrosino, Julien Ries, Arpad Szakolczai,
Chiara O. Tommasi, Sergio Ubbiali
A cura di
Silvano Petrosino
© 2021
Editoriale Jaca Book Srl, Milano
per l’edizione italiana
Prima edizione italiana
gennaio 2021
Il presente volume è pubblicato
con il contributo dell’Archivio Julien Ries
per l’Antropologia simbolica,
Università Cattolica del Sacro Cuore, Milano
Redazione Jaca Book
Impaginazione Elisabetta Gioanola
eISBN 978-88-16-80266-7
Editoriale Jaca Book
via Frua 11, 20146 Milano, tel. 02/48561520
libreria@jacabook.it; www.jacabook.it
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INDICE
Introduzione, di Silvano Petrosino
L’universo del pellegrinaggio. Aspetti religiosi e culturali, di Julien Ries
L’esodo dall’interno: viaggio nell’immobilità di una tradizione, di David Meyer
Il viaggio in compagnia del sacro. Le lettere di Ambrogio, vescovo a Milano, di Sergio Ubbiali
La difficoltà e il piacere di viaggiare: l’importanza cruciale del pellegrinaggio, di Arpad Szakolczai
«Va’ verso te stesso» (Gen 12,1): il viaggio più difficile, di Luciano Manicardi
La giustizia dell’andare e dello stare. Significati dell’«erranza» nell’Ewige Jude e nel Philemon-und-Baucis-episode del Faust parte II di J.W. Goethe, di Gabrio Forti
Il viaggio dell’anima attraverso le stelle nella religiosità tardoantica, di Chiara O. Tommasi
Esili e peregrinazioni nelle sapienze dell’antichità cinese. Una panoramica, di Christine Kontler
Il viaggio migrante. Dinamiche trasformative in atto, di Monica Martinelli
Passi, memorie e racconti. Il viaggio quotidiano in Michel de Certeau, di Davide Lampugnani
Nel tempo, con altri: il rilievo escatologico del viaggio a partire da alcune suggestioni della teologia balthasariana, di Francesca Peruzzotti
Il viaggio e la simbologia del tempo e del ritorno. Ancora su Dante e Iqbal, di Massimo Campanini
La velleitas. Il viaggio di Ulisse, di Paolo Pagani
Gli Autori
INTRODUZIONE
Questo volume raccoglie gli interventi e altri saggi relativi al decimo Seminario Internazionale organizzato nel novembre 2019 dall’«Archivio Julien Ries
per l’antropologia simbolica» istituito nel 2009 dall’Università Cattolica del Sacro Cuore, presso il Centro di Ateneo per la Dottrina sociale della Chiesa.
Il «viaggio» e il «teatro» sono le due grandi figure attraverso le quali l’Occidente ha cercato di leggere e interpretare lo svolgersi della vita dell’uomo. Essere in scena significa giocare di volta in volta parti diverse che tuttavia rinviano a pochi ruoli essenziali. Questi ruoli rivelano l’unicità del soggetto in scena ma al tempo stesso possono anche velarla, nasconderla, celarla: il soggetto, infatti, può sempre dissolvere l’unicità della propria persona celandola dietro l’universalità del personaggio. Ma la persona non è il personaggio, così come il volto non è una maschera; soffermarsi sulla figura del «teatro» significa interrogarsi su come sia possibile da una parte «interpretare» con verità il proprio ruolo sulla scena del mondo, e dall’altra parte «rivelare» il proprio volto più autentico senza tuttavia perdersi nel personaggio e nascondersi dietro a una maschera.
A differenza di quella «teatro», la figura del «viaggio» sottolinea con maggior forza la dimensione spaziale della vita dell’uomo (l’andare da un «qui» a un «là» particolari, del tutto diversi da quelli che caratterizzano un semplice spostamento) e la dimensione temporale: l’andare da «qui» a «là» del «viaggio» esige un tempo diverso da quello che accompagna il semplice scorrere della «nuda vita». È proprio questa esclusività del «viaggio» che il Seminario ha inteso interrogare soffermandosi in particolare sui seguenti punti:
A. Tratto costante della riflessione sapienziale, religiosa e filosofica sull’uomo è che non si nasce uomini ma lo si diventa, e spesso non si riesce a diventarlo. Vi è dunque l’attesa di una rinascita, di una seconda nascita: si nasce come gli altri esseri viventi ma per diventare uomini bisogna rinascere, bisogna nascere all’umanità. Il «qui», dunque, è la semplice vita, mentre il «là» è la vita abitata dall’uomo; la vita deve diventare umana, deve rinascere all’umanità. In tal senso l’uomo è sempre in viaggio verso il compimento della propria umanità. Si tratta di quella che si potrebbe definire la «legge della doppia nascita»: l’uomo, come ogni altro esistente e ogni altro vivente, non decide di venire all’esistenza e alla vita, ma non può diventare pienamente uomo senza deciderlo, vale a dire senza impegnarsi per esserlo. Il decidere rinvia all’impegno e al dramma della libertà e della responsabilità: il viaggio che porta alla pienezza dell’essere umano non è dunque un processo necessario, l’espressione di un’evoluzione inevitabile e certa. Il viaggio, a differenza di un semplice spostamento, è quel tempo/spazio abitato dall’impegno e dal dramma della libertà/responsabilità relativa al diventare se stessi. L’uomo si mette in viaggio o viene sollecitato a mettersi in viaggio per diventare se stesso, ma anche: per diventare se stessi, per diventare l’uomo che si è, bisogna sempre mettersi in viaggio. Appartiene dunque alla «natura» dell’uomo il fatto che l’umanità sia sempre qualcosa da guadagnare, da raggiungere e guadagnare. L’uomo è in cammino verso la sua umanità; l’uomo è in viaggio verso il suo essere se stesso in quanto uomo; egli è essenzialmente Homo viator.
B. Il viaggio può assumere la forma del fuggire-da o dell’essere attratti-da, e non raramente esso si sviluppa intrecciando queste due modalità. In entrambi i casi si tratta non solo di un mettersi in movimento, ma soprattutto dell’urgenza di un uscire/lasciare per aprirsi-a. Anche per questa ragione l’esperienza del viaggio è inevitabilmente drammatica (ecco un interessante intreccio tra il «teatro» e il «viaggio»). I due grandi viaggi dell’Occidente, quello di Abramo e quello di Ulisse, pur in presenza di differenze essenziali, sono tuttavia accumunati proprio dal fatto di svolgersi all’interno di uno spazio/tempo drammatico. Il senso dei viaggi di Abramo e Ulisse è chiaro (né Ulisse né Abramo procedono a caso: il primo è determinato a tornare a casa, il secondo è determinato a raggiungere la terra promessa), ma tale senso è sempre incerto, precario, non è mai garantito una volta per tutte, ma sempre si configura come la scena (unione di spazio e tempo) dello svolgersi di un’avventura. Ogni volta il senso deve essere riguadagnato, ogni volta il soggetto deve di nuovo scegliere di mettersi in cammino e proseguire lungo la via. Questo cammino è un attraversare proprio perché non c’è alcuna garanzia che vi sia l’altra sponda, che la via sia quella giusta, che il senso sia quello adeguato. Un viaggio totalmente garantito non sarebbe un viaggio ma un mero spostamento da un «qui» a un «là»; un’esperienza totalmente garantita non sarebbe un’esperienza ma un mero susseguirsi di sensazioni. L’esperienza del viaggio è dramma perché è abitata da imprevisti, incertezze, paure, inganni, debolezze, rinunce, passi indietro, deviazioni, errori, ecc. Non c’è esperienza e viaggio, non c’è esperienza del viaggio ed esperienza in quanto viaggio, senza imprevisto e sorpresa, cioè senza incontro/scontro con l’altro.
C. Il viaggio è ciò che non si può organizzare, o meglio: ciò che si pianifica e progetta non è mai propriamente un viaggio. Certo, un viaggio può essere organizzato, ma se tutto rispetta il programma prefissato allora non si è compiuto propriamente un viaggio. In effetti, nell’organizzare e progettare il soggetto non può che riprodurre se stesso; l’organizzazione e il progetto appartengono per loro natura allo stesso, sono sempre proiezioni del medesimo: il progetto getta nel futuro un’immagine del presente dello stesso. Viceversa, appartiene al viaggio l’incontro/scontro con l’altro, e l’altro è sempre ciò che non si progetta, non si inventa, non si immagina. Quando il soggetto organizza e progetta, egli non può fare altro che imporre, anche se spesso inavvertitamente, la legge del «qui» al «là»; viceversa quando viaggia/esperisce, egli incontra il «là» anche nel «qui». Di conseguenza si può viaggiare anche stando fermi nel «qui», così come si può riprodurre insistentemente il «qui» anche spostandosi verso il «là». Ciò che dunque si può organizzare è in realtà un «tour», un giro, ma non un viaggio. Il «tour» è il girare intorno allo stesso, è il non allontanarsi mai realmente dal «qui» dello stesso; il viaggio è invece la rottura del «tour», è l’impossibilità stesso del cerchio. In un viaggio non si ritorna mai al punto di partenza: certo, Ulisse ritorna a casa, ma poiché il suo è stato un autentico viaggio, l’Ulisse ritornato non è lo stesso di quello che è partito. Un «tour turistico» non ha nulla a che fare con un vero viaggio, esso gira intorno ma non attraversa mai, non esce e non incontra; scrive al riguardo Augé:
(…) il viaggio turistico è costitutivo di non luoghi: chi viaggia non fa che passare da un luogo ad un altro; questa pluralità si ritrova più tardi nelle diapositive o nei filmini che il turista presenterà ai suoi amici, una volta ritornato a casa, imponendo loro il racconto del suo
viaggio. Si potrebbe essere tentati di pensare che le guide di ogni tipo (quelle che l’abitante del luogo non legge mai) compensino in qualche modo la rapidità del passaggio, fornendo a chi le utilizza informazioni mancanti. Ma queste guide, appunto, non vengono mai lette quando si è nel proprio paese (…) Il non-luogo è lo spazio degli altri senza la presenza degli altri, lo spazio reso spettacolo, spettacolo esso stesso già imbrigliato nelle parole e negli stereotipi che lo commentano anticipatamente nel linguaggio convenzionale del folclore, del pittoresco, dell’erudizione. Il viaggio, qui, non è preso che come un particolare esempio (ma un esempio pregnante, perché combina un movimento e uno sguardo) di ciò che tende a diventare il nostro rapporto con l’altro nel mondo contemporaneo: un rapporto astratto nella misura in cui passa per una spettacolarizzazione dell’altro (…). Le rotonde che si sostituiscono agli incroci nel sistema stradale evitano sicuramente alcuni incidenti, ma potrebbero passare per il simbolo di uno spazio da cui è esclusa ogni possibilità di incontro¹.
D. Un altro aspetto dell’incrocio tra «viaggio» e «teatro» è il seguente: il viaggio è teatro ma non spettacolo, è teatro senza spettacolo; in un «tour» si è spettatori di uno spettacolo (il paesaggio, i monumenti, il folklore, ecc.), in un viaggio si è attori di un dramma. Da questo punto di vista un «tour», fosse anche dall’altra parte del mondo, resta incatenato al «qui» della quotidianità, mentre il viaggio rompe il cerchio del quotidiano essendo investito dal «là» dell’inatteso. In tal senso la vera posta in gioco in un viaggio non è mai costituita dagli oggetti e dai luoghi che si incontrano ma dal soggetto che li incontra. Il contenuto ultimo del viaggio è il viaggiatore stesso: da un «tour» si ritorna gli stessi, da un viaggio si torna inevitabilmente cambiati e quindi, in un certo senso, non si ritorna affatto. Questo non vuol dire che gli oggetti e i luoghi incontrati durante un viaggio non siano essenziali, ma essi si dimostrano tali proprio perché interrogano, coinvolgono e trasformano il soggetto che li incontra. Una esperienza/viaggio che non produca un cambiamento nel soggetto in essa coinvolto non è propriamente una esperienza/viaggio; o anche, come già sottolineato, al termine di un vero viaggio ci si trova sempre trasformati; o ancora: uno spostamento si rivela essere un viaggio quando il passaggio da «qui» a «là» si accompagna con l’inevitabile mutamento del soggetto in esso coinvolto. Si può forse affermare che è come se durante un viaggio tutto ciò che si incontra, persone e cose, animali e paesaggi, tradizioni e monumenti, ci interpellasse e ci sollecitasse a rispondere, trasformando così lo spettatore in attore:
Così fui l’ultima persona a rendersi conto che stavo andando via. Quando ripenso ai miei ultimi mesi in Africa, mi sembra che le cose inanimate fossero consapevoli della mia partenza molto prima di me. Le colline, le foreste, le pianure e i fiumi, tutta sapeva che ci dovevamo separare. Allorché cominciai a venire a patti col destino iniziando le trattative per la vendita della fattoria, l’atteggiamento del paesaggio verso di me cambiò. Fino a quel momento io ne avevo fatto parte, la siccità era stata come una febbre, per me, la pianura in fiore come un abito nuovo. Ora la terra si staccava da me, si allontanava un poco perché potessi vederla con chiarezza, tutta intera. Non molto diversamente si comportavano le colline, nella settimana che precedeva le grandi piogge. Una sera, all’improvviso, mentre le guadavo, compivano un ampio movimento e si rivelavano, si manifestavano, divennero distinte e vivide nella forma e nel colore, quasi volendo consegnarsi a me con tutto quello che contenevano, quasi aprendosi per lasciarmi camminare sul loro verde pendio, direttamente, da dov’ero seduta. Se ora un daino sbuca da un cespuglio, pensavo, vedrò i suoi occhi mentre volge la testa, vedrò come muove le orecchie: se un uccello si posa su un ramo, lo sentirò cantare. Nelle colline, di marzo, quel gesto di abbandono annuncia l’approssimarsi delle piogge: adesso, per me, annuncia la separazione².
E. Un «tour» è per tutti e per chiunque (un identico programma del «tour» viene comunicato a tutti, indistintamente, tramite una mailing list), un viaggio è solo per me. In un vero viaggio sono sempre coinvolto personalmente: esso mi riguarda, guarda me e unicamente me:
A molti pare assurdo, andare in cerca di un segno. Forse perché per riuscire a trovarlo occorre uno stato d’animo speciale, non comune. Ma se si chiede un segno in quello stato di grazia la risposta non può mancare: è la conseguenza naturale della domanda. Non diversamente, nel momento dell’ispirazione, il giocatore raccoglie tredici carte, prende quella che si chiama una mano – un’unità. Dove gli altri non vedono nessuna possibilità, lui vede un grande slam che lo fissa in faccia. Ma c’è, nelle carte, il grande slam? Sì, per quel solo giocatore, in quel momento³.
Ecco delineati, in estrema sintesi, i confini all’interno dei quali si sono mossi gli interventi del Seminario e gli altri saggi raccolti nel presente volume. Essi, in un certo senso, non hanno voluto far altro che mettere alla prova l’ipotesi che Ries formula a proposito di quel viaggio particolare che è il pellegrinaggio: «Il pellegrino è un viaggiatore che ha lasciato la casa per andare alla ricerca del mistero, cioè verso un al di là
capace di cambiare qualcosa in questa vita
. Il movente del pellegrino non sono gli affari, non è la famiglia, non è la curiosità artistica o intellettuale. Il viaggio dell’erudito non è un vero pellegrinaggio».
Silvano Petrosino
BIBLIOGRAFIA
Augé M., Tra i confini. Città, luoghi, integrazioni, tr. it. di X.B. Rodriguez, Bruno Mondadori, Milano 2007.
Blixen K., La mia Africa, tr. it. di L. Drudi Demby, Feltrinelli, Milano 1986¹⁰.
¹ Augé 2007, pp. 57-59.
² Blixen 1986, p. 257.
³ Ivi, pp. 283-284.
L’UNIVERSO DEL PELLEGRINAGGIO ASPETTI RELIGIOSI E CULTURALI
di
Julien Ries
Il nostro termine pellegrino, da cui deriva pellegrinaggio, viene dal latino classico peregrinus, diventato nel Medioevo pelegrinus. Per ager, «attraverso il campo» e per eger, «d’oltre frontiera», fanno pensare a qualcuno che è straniero. Questo significato fu in uso fino al secolo XI: il pelegrinus era colui che non aveva «diritto di cittadinanza». All’epoca delle crociate e delle cattedrali, il significato subì una profonda evoluzione: il pelegrinus divenne il cristiano che si mette in cammino alla ricerca del sacro. Tuttavia questo significato tardivo esprime una realtà molto antica che non solo risale alle origini cristiane e le precede, ma va oltre i confini delle religioni monoteiste abramitiche. Con termini diversi, il pellegrinaggio nelle religioni e nelle culture antiche costituisce uno dei tempi forti della vita religiosa collettiva e individuale.
L’universo dei pellegrinaggi
Nelle grotte di Lascaux, di Rouffignac e in altri siti famosi di circa trecento grotte dipinte, vere e proprie «cattedrali del paleolitico superiore» scoperte recentemente, le tracce di passi di adolescenti, segni di cerimonie di iniziazione, sono i primi indizi di pellegrinaggi. Tracce analoghe sono evidenti in reperti delle culture mesolitiche e neolitiche giunti fino a noi. Citiamo, tra gli altri, i santuari di Çatal Hüyük in Anatolia, quelli del Sahara e di Mont Bego. Numerosi racconti dell’antica Mesopotamia parlano di processioni e pellegrinaggi e ci sono pervenuti frammenti dei relativi rituali. Nell’Egitto dei faraoni, fin dagli inizi i pellegrini si recavano nelle città sante di Eliopoli, Bousiris, Abydos, Menfi e Tebe: viaggi degli dei e anche dei morti. In Medio Oriente, nell’impero ittita, ogni anno la coppia regale compiva un periplo religioso verso i santuari. Folle di pellegrini convergevano verso i grandi santuari della Grecia antica: Delfi, Delo, Epidauro, Eleusi. Fin dall’antichità l’India diventò una terra sacra con migliaia di luoghi di pellegrinaggio. I più famosi furono quelli delle città sante indù come Benares, Puri, Mathura, i siti buddisti di Sanchi, Bodh Cayâ, Sârnâth, Lumbini, Anritsar, la città santa dei siks e il monte Abu, grande centro della vita religiosa jainitica. Troviamo una forte tradizione di pellegrinaggi buddhisti nello Sri-Lanka, nel Tibet, in Cina e in Giappone, un paese dove scintoismo e buddhismo rivaleggiano per zelo. Dal III millennio a.C. fino al secolo XVI d.C. l’America Centrale fu anch’essa una terra di pellegrinaggi, dove le folle accorrevano ai templi, ai santuari, ai luoghi di preghiera sulle vette dei monti, come in Messico e nelle Ande. Queste indicazioni costituiscono solo una panoramica sommaria di un’impressionante documentazione storica che attesta un aspetto del comportamento dell’homo religiosus nel corso dei millenni.
Non possiamo dimenticare i figli di Abramo perché nella storia dei pellegrinaggi occupano un posto peculiare. Occorre anzitutto parlare delle tombe dei patriarchi, la più famosa delle quali è la grotta di Macpela a Hebron. Seguono i luoghi religiosi di assemblea del popolo: Silo custode dell’arca; Sichem e Betel, collegate con la vita religiosa dei patriarchi e infine Gerusalemme, che sostituisce Silo e la Tenda del deserto. Con la costruzione del Tempio, il pellegrinaggio acquista il suo significato definitivo nella storia del popolo eletto. Per i cristiani, Gesù Cristo è l’incarnazione di Dio nella storia umana che ne rimane segnata in maniera definitiva. Così, i luoghi santi sono come sigillati dalla memoria degli avvenimenti storici della vita di Gesù: la grotta di Betlemme, Nazaret, Cafarnao, Betania, il cenacolo di Gerusalemme, il Monte degli Olivi, il Golgota. Nella storia della Chiesa, i luoghi santi che ricordano eventi particolari si moltiplicano e diventano i grandi centri di pellegrinaggio: Roma, Gerusalemme, Compostela, Assisi, Lourdes. Nell’Islam, alla Mecca, il pellegrinaggio preislamico alla Ka’aba verrà dichiarato istituito da Abramo e il profeta Maometto farà dell’haji un obbligo, il quinto pilastro dell’Islam. Si aggiungerà poi il culto sciita delle tombe dei dodici Iman con le città sante dell’Iran e dell’Iraq, oltre alle tombe venerate dei marabutti famosi nei diversi paesi conquistati dai musulmani.
A questo breve elenco occorre aggiungere le migliaia di pellegrinaggi in tutto il mondo verso i centri culturali e religiosi più diversi, in particolare i pellegrinaggi esistenti nella tradizione dei popoli dell’Africa nera, del Madagascar, dell’Oceania, del Messico, dell’America boreale e della Siberia. Dobbiamo riconoscere che ci troviamo di fronte a un vero e proprio universo dei pellegrinaggi¹.
Il pellegrinaggio, rotta del sacro
Ogni pellegrinaggio è un viaggio degli uomini o delle donne verso un centro. Ma il pellegrino ha una motivazione specifica, molto diversa da quella del viaggiatore in cammino per concludere affari commerciali, politici o familiari o per una semplice visita a un amico o per un viaggio di studio. Il pellegrino è un viaggiatore in cerca di un «Totalmente Altro», di una «Realtà che supera l’orizzonte di questo mondo». La motivazione del suo andare è sottintesa da un orizzonte ierofanico, cioè da una visione del sacro e dall’attesa di un incontro e di un invisibile che influisce sul suo comportamento e dal quale si aspetta un cambiamento della sua situazione attuale.
Tale ricerca traspare attraverso alcuni indizi. I mitogrammi di alcune volte dipinte di grotte franco-cantabriche, decifrate da A. Leroi-Gourhan, suggeriscono le cerimonie di iniziazione dei Magdaleniani. Durante il neolitico, l’erezione di menhir e l’allineamento di pietre come quelle di Carnac in Francia ci invitano a un’ermeneutica orientata verso il sacro. A Babilonia, in occasione della festa dell’Akitu, i fedeli si recavano in processione ai santuari del dio Marduk, dove i sacerdoti recitavano il poema della creazione, Enuma Elish, per impetrare la rinascita della natura e della vita. Nell’Egitto dei faraoni, non solo i calendari regolavano il rituale delle processioni degli dei in mezzo alla folla dei fedeli, ma alcuni racconti di pellegrinaggi parlano di egiziani che partivano dalle città più lontane per andare a vedere «il dio» e chiederne il favore. Questo cammino del credente, cioè dell’homo religiosus, assumerà un nuovo risalto nei tre monoteismi abramitici dove, per il fedele, il Totalmente Altro è il Dio unico².
Per capire bene il significato della via del sacro nella vita del pellegrino, occorre rifarsi al simbolismo del centro della vita dell’homo religiosus. Mircea Eliade ha dimostrato che la contemplazione della volta celeste ha condotto l’uomo alla scoperta della categoria trascendentale dell’altezza e dell’infinito. Il simbolismo della volta celeste e quello dell’ascensione portano a quello della montagna cosmica, punto di incontro tra il Cielo e la Terra. Questa montagna diventa un centro che consente all’uomo di salire verso il cielo. Le montagne sacre abbondano e sono il punto di arrivo, talvolta mitico, dei pellegrinaggi: Monte Meru in India; Haraberezaiti in Iran; Himingbjörg degli antichi Germani e Scandinavi; la ziggurat, montagna artificiale in Mesopotamia; il Sinai, il Tabor, il Golgota, Sion³.
Il pellegrinaggio è un viaggio verso un centro nel quale si realizzerà l’incontro atteso e preparato dall’homo religiosus. Questo centro costituisce in maniera simbolica lo spazio della salvezza. L’uomo ha lasciato lo spazio nel quale si svolge la vita di tutti i giorni, «lo spazio profano», cammina verso un’altra realtà spaziale perché, per l’homo religiosus, lo spazio non è omogeneo.
Lo spazio sacro del pellegrinaggio
Ogni pellegrinaggio implica uno «spazio pellegrino» separato dallo spazio profano, preferibilmente da un indispensabile recinto; è la logica ierofanica messa in evidenza dall’architettura dei templi della Mesopotamia, dell’Egitto, del Tempio di Gerusalemme, degli Stupa buddisti, di migliaia di santuari delle diverse religioni del mondo. Oggi, grazie agli storici delle religioni, disponiamo di un ricco simbolismo dei luoghi sacri, dei templi e dei santuari. La prima occupazione di un luogo e la sua consacrazione lo trasformavano ritualmente in una «terra degli dei». Questo fu il caso di Roma, dove il solco, il mundus di Romolo, era al centro della città, Urbs, che diventava così Orbis terrarum. La teologia del Tempio di Gerusalemme fa riferimento alla Gerusalemme celeste (Es 25,8-9). Le basiliche e le cattedrali cristiane riprendono, prolungano, adattano e precisano questi simbolismi⁴.
La determinazione di un luogo di pellegrinaggio non era mai arbitraria. Nelle antiche religioni i miti costituiscono la forma di riferimento a un evento primordiale che si è realizzato in quel luogo e gli ha conferito sacralità. Ogni mito è in realtà una storia sacra che descrive l’irruzione del sacro nel mondo e diventa così un modello per il comportamento dell’uomo.
In Israele, le cose sono diverse perché Jahvè è un Dio personale, onnipotente e onnisciente, che è intervenuto direttamente nella storia del suo popolo al quale ha dato l’alleanza sulla montagna del Sinai. Ha seguito il suo popolo nel cammino verso la Terra promessa. Abita con il suo popolo sulla collina santa di Sion dove si trovano il Tempio e l’arca dell’alleanza. Nel cristianesimo, Gesù Cristo è l’incarnazione di Dio nella storia degli uomini. I luoghi santi sono segnati dalla memoria di un evento della vita di Gesù: Betlemme, Nazaret, Cafarnao, Betania, il cenacolo di Gerusalemme, il Monte degli Olivi, il Golgota. Nella storia della Chiesa, i luoghi santi che