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La Notte delle anime perdute
La Notte delle anime perdute
La Notte delle anime perdute
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La Notte delle anime perdute

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About this ebook

Avete mai sentito parlare di Valpelù?

Se la risposta è no, vi do un consiglio. In caso capitaste a tarda notte in qualche sperduto bar della provincia padana, prestate ascolto ai sussurri degli anziani avventori, mentre raccontano la storia del "paese delle anime perdute" a quei pochi sprovveduti che ancora non la conoscono.

Quando ci si mette in viaggio sulle strade della pianura, immerse nella nebbia, è bene sapere ciò che può accadere se ci si dovesse perdere. Perché la leggenda vuole che a Valpelù si svolga un gioco molto particolare, dove la posta in palio è la sopravvivenza. Un gioco inventato dal diavolo in persona.

E una volta smarriti nel paese delle anime perdute, non è facile ritrovare la via di casa.

Paolo Prevedoni torna con una nuova storia, che mescola abilmente lo spaghetti western di Sergio Leone con il survival horror di George A. Romero e John Carpenter.

Un viaggio allucinato nel cuore di una notte senza luna, dove le tenebre celano gli incubi più terribili, i mostri più terrificanti, e dove il sorgere del sole sembra essere l'unica speranza.

LanguageItaliano
Release dateOct 31, 2019
ISBN9788869346262
La Notte delle anime perdute
Author

Paolo Prevedoni

Paolo Prevedoni nasce ad Alessandria, nel 1981. È un grande appassionato di cinema horror, di Stephen King, di Dylan Dog e dei Nirvana. Per Bibliotheka Edizioni ha pubblicato il fortunato esordio Una storia dell'orrore italiana, seguito da Le streghe e La notte delle anime perdute. Vive e lavora in una cittadina della provincia padana, fuma Chesterfield e non mangia carne.

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    La Notte delle anime perdute - Paolo Prevedoni

    © Bibliotheka Edizioni

    Via Val d’Aosta 18, 00141 Roma

    tel: +39 06.86390279

    info@bibliotheka.it

    www.bibliotheka.it

    I edizione, ottobre 2019

    e-Isbn 9788869346262

    Isbn 9788869346255

    È vietata la copia e la pubblicazione, totale o parziale,

    del materiale se non a fronte di esplicita autorizzazione scritta

    dell’editore e con citazione esplicita della fonte.

    Disegno di copertina: Paolo Niutta

    www.capselling.it

    Progetto grafico:

    Brozzolo Riccardo per Eureka3 S.r.l.

    www.eureka3.it

    Paolo Prevedoni

    Paolo Prevedoni nasce ad Alessandria, nel 1981.

    È un grande appassionato di cinema horror, di Stephen King, di Dylan Dog e dei Nirvana.

    Per Bibliotheka Edizioni ha pubblicato il fortunato esordio Una storia dell’orrore italiana e Le streghe.

    Vive e lavora in una cittadina della provincia padana, fuma Chesterfield e non mangia carne.

    La strada era sempre dritta, era impossibile sbagliare. Tuttavia ora non poteva far altro che arrendersi all’evidenza.

    Si era perso.

    In quell’oceano di nebbia densa come zucchero filato, circondato dai campi incolti, dalle risaie addormentate e dal niente.

    Si era perso nel niente.

    A mia sorella Carlotta

    che è elettrica

    in una famiglia piena di eccentrici

    La notte delle anime perdute è un’opera di fantasia.

    Ogni riferimento a persone esistenti o esistite è assolutamente casuale. Alcuni dei luoghi citati nel racconto sono reali, e inseriti in un contesto geografico verosimile, mentre altri (come Miraniente e Gravavilla, che a qualche mio lettore suoneranno familiari) sono frutto dell’immaginazione dell’autore. Non esistono. Valpelù non esiste.

    O almeno spero.

    In caso contrario, vi auguro di non trovarla mai. Sareste davvero nei pasticci.

    P.P.

    We’re taking over this fucking town!

    Pantera

    Prologo

    Denti

    A volte, semplicemente, le cose accadono.

    Qualcuno lo chiama destino. Qualcun altro preferisce la parola caso.

    Suppongo suoni un po’ meno mistico, e ci si toglie comunque il pensiero di dover dare a tutti i costi una spiegazione.

    Diversamente, c’è chi è invece convinto di far parte di un piano ben più ambizioso, orchestrato in maniera impeccabile (seppur spesso incomprensibile) da un’entità invisibile che tira le fila del mondo e a cui in modi sempre diversi attribuiamo il nome di DIO.

    Punti di vista.

    Le cose accadono. Tutto qui. Il massimo che ci è concesso, per quel che mi è dato di sapere (e sempre che ne valga la pena), è di trasformarle in storie. Belle, brutte, tristi o divertenti che siano.

    In alcuni casi, storie un po’ strane.

    Come questa, per esempio, che comincia qui. Su una strada nascosta nella nebbia, da qualche parte in giro per la pianura padana.

    È un giorno di novembre grigio come il manto di un lupo, e c’è una macchina che avanza incerta, come se il conducente fosse indeciso se proseguire o tornare indietro. È comprensibile: l’uomo alla guida si è perso, e né lui né la ragazza che gli siede accanto raggiungeranno quella che avrebbe dovuto essere la loro destinazione.

    Destino, appunto. O il caso, se preferite.

    A volte, molto più semplicemente, le cose accadono.

    * * *

    Un cimitero. Merda.

    Più di trecento chilometri solo per deporre un mazzo di fiori su una tomba. Poteva forse esistere un motivo più stupido per fare tutta quella strada? No di certo.

    Se c’era, Giovanni non riusciva proprio a immaginarlo.

    Di sicuro era la maniera perfetta per sputtanarsi il sabato pomeriggio, che aveva programmato di trascorrere davanti alla televisione a rincoglionirsi con una dose letale di Netflix. I suoi piani erano andati storti, decisamente, ma che la situazione potesse addirittura peggiorare, porca puttana, era inaccettabile.

    Eppure, era quello che stava succedendo.

    Giovanni picchiettò il dito sullo smartphone, imprecando sottovoce. Il navigatore aveva smesso di dargli indicazioni da un pezzo. Il puntino blu – il puntino blu era la stramaledetta macchina – viaggiava solitario nel bianco dello schermo del telefonino, come un aquilone nello spazio.

    Quando il GPS si era zittito non si era preoccupato più di tanto. La strada era sempre dritta, era impossibile sbagliare. Tuttavia, ora non poteva far altro che arrendersi all’evidenza.

    Si era perso.

    In quell’oceano di nebbia densa come zucchero filato, circondato dai campi incolti, dalle risaie addormentate e dal niente.

    Si era perso nel niente.

    Accanto a lui, Barbara dormiva infagottata nel suo cappotto Zara, con la testa appoggiata al finestrino in una posizione scomoda. Si sarebbe svegliata con un discreto male al collo. Perlomeno, era quello che Giovanni le augurava.

    La macchina sobbalzò su una buca e sua sorella si scosse, drizzando la testa di scatto.

    Giovanni sorrise.

    «Bentornata tra noi, principessa.»

    Lei si stropicciò gli occhi, sbadigliando.

    «Dove siamo?»

    «A Silent Hill, mi sa.»

    Barbara fissò il muro di foschia oltre il parabrezza.

    «Ti sei perso?»

    Sua sorella sapeva bene come farlo incazzare. Bastava poco, d’altronde: quel tono un po’ acuto e sottilmente accusatorio, una specie di veleno sonoro, era più che sufficiente per mandare Giovanni su tutte le furie.

    «Ho seguito il navigatore, principessa. Le strade sono tutte uguali da queste parti.» Basta così, non aggiungere altro. «E comunque ricorda che ti sto facendo un favore, quindi vedi di non fare troppo la stronza.»

    Ecco. Ogni anno la solita storia. Ma d’altronde litigare in quel giorno particolare era diventata una specie di tradizione. Via alle danze, dunque.

    Barbara serrò le labbra.

    «Una cosa sola. Una cosa sola che ti chiedo in tutto l’anno, e tu non riesci a non farmela pesare.»

    Giovanni alzò le spalle.

    «L’anno prossimo chiedimi qualcos’altro, principessa. Giuro che questa è l’ultima volta che mi sparo tre ore di macchina per portarti a dire un Eterno Riposo davanti a una foto su una lapide.»

    Lei rimase in silenzio. Il silenzio faceva schifo. Il silenzio era peggio di tutto.

    Poi disse: «Era nostra madre, Giovanni.»

    Tono insopportabile numero due, quello che aggiungeva una postilla muta alla fine della frase: sei una merda, Giovanni. E funzionava alla grande. Era proprio così che lui si sentiva, in quel momento.

    «Scusa», mormorò, seppur a fatica. «Sai come la penso. Non ha fatto molto per meritarsi tanta cortesia, quando era viva. Farsi seppellire a trecento chilometri da Firenze suona un po’ come il Gran Dispetto Finale.»

    Loro madre era nata in un piccolo borgo della pianura padana che si chiamava Miraniente. Quando sul letto di morte, poco prima di chiudere gli occhi per sempre, aveva espresso la volontà di essere sepolta nel suo paese d’origine, Giovanni aveva rimpianto che l’ictus non se la fosse portata via un po’ più in fretta, impedendole di formulare quell’assurda richiesta. Papà, che si era messo in viaggio per andare a trovare il Creatore solo qualche mese prima di lei, aveva avuto almeno il buongusto di tirare le cuoia senza avanzare pretese.

    «Be’, torna indietro, no?» suggerì Barbara. «Vorrei arrivare al camposanto prima della chiusura.»

    Giovanni sospirò.

    Sua sorella provava ancora una sorta di timore reverenziale per la madre, nonostante fossero passati quattro anni dalla sua morte. Giovanni aveva cercato più volte di convincerla a far spostare la salma più vicino a Firenze, dove vivevano entrambi, ma Barbara non ne voleva sapere. Dopotutto, mica era lei che doveva guidare. A malapena usava l’automobile, figurarsi prendere l’autostrada.

    E chi era lo stronzo che, a ridosso dell’anniversario della dipartita della cara genitrice, doveva rompersi i coglioni ad accompagnarla fin lì? Credo abbiate indovinato.

    Una sola cosa che ti chiedo. Fanculo.

    Giovanni sospirò.

    «Al primo paese che incontriamo ci fermiamo in un bar e chiediamo indicazioni. L’avremo allungata di una decina di chilometri, mal che vada.»

    Sempre che riuscissero a trovarlo un bar, in quel nulla cosmico.

    Era da almeno mezz’ora che il paesaggio si ripeteva come la puntina inceppata su un disco. Campi incolti e nebbia. Nebbia e campi incolti.

    Poi, all’improvviso dalla foschia sbucò un cartello.

    «Visto?» disse Giovanni, cercando di usare il suo tono più indisponente.

    Sua sorella aggrottò la fronte.

    «Che posto è?»

    «E io che ne so? Guarda sul tuo cellulare, il mio non prende.»

    Barbara sbirciò l’iPhone con la cover dei Minions, scuotendo il capo.

    «Neppure il mio. Che c’è scritto sul cartello?»

    Giovanni strinse gli occhi stanchi, cercando di leggere. Le lettere erano opache, sfocate dalla nebbia.

    «Valpelù.»

    Valpelù. Così c’era scritto, sul cartello.

    Le case all’entrata del paese erano basse, piccole villette tutte uguali. Sfioravano i lati della strada, ammassate come severe sentinelle di guardia.

    Ma c’era qualcosa di strano.

    Le finestre degli edifici erano rotte, oppure sprangate con delle assi di legno. Le porte divelte o spalancate. Erbacce alte infestavano i cortili, e cumuli di macerie erano sparsi ovunque lungo la strada dissestata.

    «Dove siamo finiti, santo cielo?» domandò Barbara, abbassando il finestrino e accendendo una sigaretta.

    Giovanni scosse il capo.

    «Non lo so», rispose. «Sembra un paese abbandonato.»

    Alcune delle case erano sventrate o crollate, come dopo un terremoto; piante selvatiche dipinte diligentemente di rosso dall’autunno si arrampicavano fin sui tetti malconci, e cascavano come parrucche arruffate.

    Più avanti, Giovanni vide l’insegna di un barbiere e un negozio di alimentari, con le serrande corrose dalle intemperie abbassate a metà. C’erano delle carcasse di auto, perlopiù modelli molto vecchi, abbandonate nei cortili e nei vialetti a ridosso delle abitazioni diroccate. Un cartello arrugginito della Q8 penzolava sopra le pompe di un benzinaio.

    Giovanni fermò la macchina nello spiazzo della stazione di servizio, accanto alle rovine di un piccolo supermarket. Un cartellone pubblicitario, imprigionato in un rampicante secco, prometteva offerte straordinarie per la settimana natalizia. I prezzi dei prodotti ribassati erano in lire.

    «Guarda che roba!» esclamò Giovanni. «Non credevo che in Italia esistessero posti del genere.»

    Sua sorella sbuffò il fumo fuori dal finestrino, alzandosi il bavero dell’impermeabile sul collo.

    «Mette i brividi.»

    La strada proseguiva in discesa, verso una piazza dove si intravedevano quelle che sembravano le rovine di una chiesa. C’era un campanile mezzo crollato; i rovi stritolavano le mura rimaste in piedi come i tentacoli di una piovra mummificata. La nebbia ondeggiava lentamente, e sembrava una cosa viva.

    Era vero, quel posto faceva paura.

    Barbara lanciò la sigaretta fuori dal finestrino. Il mozzicone volteggiò brillando, per poi scomparire inghiottito dal bianco.

    «È meglio tornare indietro», disse.

    Giovanni osservò il navigatore sul telefonino. Nessun segnale. Il sole era ormai tramontato nella nebbia, e si stava facendo buio.

    «Sì, hai ragione. Che ore sono?»

    «Quasi le sei.»

    «Cazzo. Te l’avevo detto che saremmo dovuti partire prima di pranzo.»

    «Dovevo lavorare, io. Se torniamo indietro, sempre che tu non ti perda di nuovo…»

    «Ma va al diavolo!»

    Giovanni inserì la marcia e fece un’inversione a U nello spiazzo del benzinaio. La macchina sobbalzò su una buca, reimmettendosi sulla strada principale.

    Lì, fermo in mezzo alla nebbia, c’era un uomo.

    Giovanni frenò di colpo. Aggrottò la fronte.

    «E questo da dove salta fuori?»

    L’uomo era distante pochi metri, immobile al centro della carreggiata. Indossava una giacca di pelle sgualcita lunga fino alle ginocchia e un paio di pantaloni larghi e con le frange. Stivali a punta ai piedi. Sulla testa portava un cappello da cowboy, con la tesa larga abbassata sul volto.

    Se ne stava lì, fermo con le braccia lungo i fianchi, rivolto verso di loro.

    Giovanni fece una risatina.

    «Merda. Questo tizio deve aver visto troppe volte Per un pugno di dollari.»

    Barbara non aveva voglia di scherzare. Era spaventata.

    «Andiamo via», disse.

    Giovanni fece per scendere dalla macchina, ma lei gli afferrò il braccio.

    «Cosa fai?»

    «Tu che dici? Magari ha bisogno di aiuto.»

    «Sei matto? Non lo vedi che è un vagabondo? Andiamo via!»

    «E cosa faccio, gli passo sopra? Non essere scema.»

    Giovanni aprì la portiera e smontò.

    Faceva freddo. Si strinse nel cappotto e annusò l’aria: c’era uno strano profumo, come di fiori appena sbocciati. Era parecchio strano, vista la stagione.

    «Signore!» gridò, rivolto verso l’uomo in mezzo alla strada. «Tutto ok?»

    Quello non si mosse. Alla flebile luce del tramonto, smorzata dalla nebbia fitta, sembrava una statua di pietra in un cimitero. Oppure un fantasma.

    Giovanni camminò verso di lui. Udì sua sorella che lo chiamava dalla macchina, ma la ignorò.

    L’uomo rimase immobile, in quella specie di costume di carnevale. Barbara aveva ragione, doveva essere un vagabondo. E senza dubbio anche un po’ picchiato nel cervello.

    Il profumo nell’aria si fece più forte, fino a fargli pizzicare il naso. Giovanni si fregò le dita sulle narici: era come se qualcuno gli avesse spruzzato addosso un deodorante all’essenza di rose.

    Chissà, pensò trattenendo un sorriso, magari il tipo era un collezionista di Arbre Magique.

    «Ha bisogno d’aiuto?» chiese di nuovo.

    Mentre si avvicinava, una strana sensazione gli fece rizzare i peli sulle braccia. La voglia di scherzare gli era passata: era qualcosa che aveva a che fare con quel profumo di fiori.

    «Ehi, signore… Ha bisogno d’aiuto?» ripeté, non più troppo convinto.

    L’uomo in mezzo alla nebbia protese lentamente un braccio e agitò la mano verso di lui in segno di saluto. Alzò appena il capo, e da sotto la falda del cappello sorrise.

    Giovanni si immobilizzò all’istante. Aveva visto bene?

    I denti.

    I denti, porca puttana, che cosa avevano i suoi denti?

    Giovanni si voltò di scatto e ritornò a passo spedito verso l’auto. Che cazzo gli era saltato in mente? Voleva forse farsi rapinare da un barbone vestito per una festa in maschera? Sua sorella aveva ragione, era meglio andarsene e lasciarlo perdere.

    I denti.

    Era stata solo la sua immaginazione. Al diavolo. E l’imbrunire e la nebbia. Il buio poteva fare certi brutti scherzi. Aveva solo visto male.

    Risalì in macchina.

    «Andiamo via, per favore!» piagnucolò sua sorella.

    «Stai calma, principessa. Adesso ce ne andia…»

    Un colpo, forte, come se qualcuno avesse scoppiato un petardo.

    La capote della macchina si piegò verso l’interno, producendo un rumore sordo e metallico. Il vetro del parabrezza si crepò in una ragnatela di schegge, stridendo.

    Barbara gridò.

    Giovanni tirò istintivamente sua sorella verso di sé, mentre qualcosa cominciava a picchiare e grattare sul tetto dell’auto.

    Il finestrino della portiera del guidatore andò in frantumi. Due braccia si intrufolarono all’interno dell’abitacolo.

    Giovanni non fece in tempo neppure a gridare. Mani nodose lo afferrarono per il collo. Cercò di divincolarsi mentre veniva trascinato fuori dal finestrino. Il suo cervello registrò il profumo di fiori, così forte da nausearlo.

    Poi qualcosa di affilato lo colpì alla schiena.

    Il dolore fu brutale. Sentì il sapore del sangue, caldo e metallico, che gli riempiva la bocca.

    I muscoli si tesero, in un inutile tentativo di liberarsi dalle mani – mani fredde – che lo avevano ormai tirato fuori dall’auto.

    L’ultima cosa che Giovanni vide, prima di morire, fu il volto terrorizzato di sua sorella, deformato da un grido disperato che si perse nella nebbia.

    L’ultima cosa a cui pensò, invece, fu il sorriso dell’uomo vestito con quello strano costume da cowboy.

    Ai denti.

    Pensò ai denti.

    I Dragster si imbattono nei Longhini

    Gabriele accese una sigaretta, abbassando il volume della radio.

    I Pearl Jam si regolarono di conseguenza, diminuendo l’intensità del brano che stavano suonando.

    «Non si vede un cazzo», si lamentò Dodo, che era alla guida.

    I fari della macchina sbattevano inutili contro il muro di nebbia, riuscendo a malapena a illuminare un paio di metri oltre il muso dell’automobile.

    Gabri controllò il cellulare, ma era da un po’ che non c’era segnale. Cominciava a preoccuparsi: era abbastanza sicuro che all’andata non ci avessero messo così tanto a raggiungere l’autostrada.

    Che serata di merda.

    «Hai seguito i cartelli, vero?» domandò.

    Dodo bestemmiò un paio di santi sconosciuti, ignorandolo.

    «Quegli stronzi avrebbero almeno potuto aspettarci, puttana miseria!»

    Enrico e Carlo, gli stronzi, erano rispettivamente il bassista e il batterista della rock band dei Dragster, di cui Dodo e Gabri facevano parte come cantante e chitarrista. Avevano lasciato il locale una manciata di minuti prima di loro.

    Gabri sospirò.

    «Se non ti fossi messo a litigare con la barista…»

    «Non ha voluto pagarci!»

    «Per forza. Non abbiamo suonato.»

    «Mica per colpa nostra. Ci credo che non ci va mai nessuno, in quel posto di merda.»

    Il posto di merda era Il Rimbalzo, un pub di Casteldelmoro dove, in teoria, i Dragster quella sera avrebbero dovuto esibirsi.

    In teoria, appunto.

    Quello a Casteldelmoro avrebbe dovuto essere il loro primo concerto in trasferta. Un passo obbligato, in verità: i locali di Torino ne avevano avuto più che abbastanza di quattro sbarbatelli la cui specialità sembrava quella di far scappare la gente da sotto il palco. Gabri aveva sperato che a cinquanta chilometri di distanza la loro fama non li avesse preceduti, ma l’illusione era svanita verso le nove: a mezz’ora dall’inizio del concerto, il pubblico contava solo la barista del pub, un cameriere e un tizio talmente ubriaco che probabilmente non avrebbe notato la differenza se al posto loro sul palco fossero saliti i Rolling Stones.

    Il Rimbalzo poteva contenere all’incirca un centinaio di persone, e tutte le volte in cui Gabri c’era stato per assistere all’esibizione di una band, lo aveva sempre visto pieno. In alcuni casi i ragazzi si accalcavano addirittura fuori, e ascoltavano la musica dagli altoparlanti del dehor. Questo gli faceva venire il dubbio che, se quel sabato sera c’era meno gente che da un benzinaio, la colpa fosse più della reputazione dei Dragster che del locale.

    Se non altro avevano mangiato gratis.

    Dodo inveì un altro po’ contro Enrico e Carlo, poi finalmente si stufò. Cercò di intavolare una discussione sull’inadeguatezza di Fedez come giudice a X-Factor, e sulla qualità oscena della sua musica.

    Pur essendo d’accordo con lui (chi non poteva esserlo, d’altronde?), Gabri non aveva voglia di parlare. Gli stava venendo mal di testa, a fissare il mondo immerso nel bianco.

    La vecchia Opel Tigra del papà di Dodo proseguì un altro po’.

    Poi, quando la strada cominciò a riempirsi di buche, il suo amico accostò a lato della carreggiata, azionando le quattro frecce.

    «Non siamo passati di qui, all’andata», sentenziò, intercalando con una bestemmia.

    Gabri gettò la sigaretta fuori dal finestrino.

    «No. E sono le dieci, ormai. Se non vogliamo rischiare di passare la notte in macchina ci conviene tornare indietro. Quando è stata l’ultima volta che abbiamo svoltato?»

    Dodo fece spallucce.

    «Mezz’oretta fa, ma eravamo appena usciti da Casteldelmoro. Cazzo, non ci credo che mi sono perso. La strada è tutta dritta.»

    Gabri sospirò.

    «È colpa della nebbia. Magari non hai visto il cartello per l’autostrada, scimmia

    Dodo strinse i denti e gli sferrò un pugno sul braccio.

    «Non chiamarmi così!»

    Gabri scoppiò a ridere, massaggiandosi il muscolo colpito.

    Dodo Scimmia. Era un nomignolo che Marco Dodoerti, in arte Dodo, si portava dietro dai tempi delle scuole medie. In realtà non c’era niente di malvagio in quel soprannome, ma era comprensibile che il suo amico ne fosse infastidito, soprattutto ora che aveva compiuto diciott’anni e la cosa cominciava a interferire con le sue possibilità di far colpo sulle ragazze.

    Proprio per questo motivo Gabri continuava a chiamarlo così.

    «Non ti incazzare, scimmia. Pensiamo piuttosto a ritrovare la strada.»

    Dodo snocciolò un’altra serie di madonne. Poi inserì la retromarcia e girò il volante, facendo inversione.

    Gabri non vide nulla, ma sentì il colpo.

    Dodo venne sbalzato contro di lui.

    Vetri rotti piovvero come coriandoli dentro l’abitacolo, che vorticava come una giostra.

    Il mondo sembrò accelerare, mentre la forza dell’impatto scagliava la macchina fuori dalla strada.

    Musica.

    La radio suonava musica ad un volume troppo alto.

    Gabri si toccò la fronte. Quando vide il sangue sul palmo della mano, quasi svenne.

    Che cazzo…?!

    Sbatté gli occhi. Intorno a lui la nebbia e il buio. Un ronzio nelle orecchie. Fumo.

    E la musica.

    Istintivamente, schiacciò la manopola dell’autoradio. Il frastuono cessò, e rimase solo il ronzio.

    Cerco di ricordare cosa ci facesse lì.

    Il Rimbalzo. La serata dei Dragster era stata annullata, perché il locale era vuoto. La barista gli aveva offerto una pizza a testa e tanti saluti. Enrico e Carlo non se l’erano presa più di tanto, anzi. Per loro la pizza andava più che bene, come cachet.

    Sangue sulla fronte. Mal di testa.

    Ronzio.

    …Dodo invece si era incazzato come una iena e si era messo a far parole con la barista. Avevano pattuito duecento euro, se avesse potuto venirgli incontro, almeno per le spese, magari…

    Ronzio.

    …ma lei aveva risposto che non c’entrava un cazzo e gli era venuta incontro con zero euro. Zero aveva fatto incazzare ancor di più Dodo. Ma Gabri dava ragione alla barista,

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