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Antonin Artaud: il corpo esploso
Antonin Artaud: il corpo esploso
Antonin Artaud: il corpo esploso
Ebook548 pages7 hours

Antonin Artaud: il corpo esploso

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About this ebook

«… vedrete il mio corpo attuale / esplodere / e rapprendersi / in diecimila forme / manifeste / un corpo nuovo / dove non potrete / mai più / dimenticarmi». Così Antonin Artaud (1896-1948) congedava la sua sterminata opera teatrale, poetica, intellettuale, affidando il proprio corpo a un destino di disseminazione in germinazioni imprevedibili. Scrivere di Artaud è testimoniare in quali forme quel corpo viva muoia e rinasca moltiplicato, come un reiterato sussulto nel cuore della civiltà occidentale. Moltiplicazioni raccoglie gli itinerari svolti dall’autrice attraverso la materia grafica di Antonin Artaud, spaziando dai testi surrealisti ai manifesti del Teatro della Crudeltà, dai «messaggi rivoluzionari» messicani alla scrittura sinestetica degli ultimi anni di vita. Le due sezioni che compongono il volume (Lectio e Ruminatio) scandiscono così un esercizio di meditazione ventennale, nel quale il corpus artaudiano si frantuma e si rapprende in plurivoche figure di senso: traiettorie d’azione conoscitiva sulla scena limite di un corpo esploso, la scena cangiante e metamorfica di Antonin Artaud, «uomo-teatro». In Appendice, le traduzioni inedite di alcuni suoi scritti giovanili.
LanguageItaliano
PublisherJaca Book
Release dateOct 22, 2021
ISBN9788816803091
Antonin Artaud: il corpo esploso
Author

Florinda Cambria

Docente di Antropologia filosofica e di Filosofia ed Epistemologia nella Scuola di Psicoterapia Comparata (Genova). A Milano dirige il centro di formazione transdisciplinare «Mechrí/Laboratorio di filosofia e cultura». Al centro delle sue ricerche il legame fra azione rappresentativa, corpo, prassi e verità. Principali pubblicazioni: Corpi all’opera (Jaca Book, 2001); Far danzare l’anatomia (2007); La materia della storia (2009); La sapienza del teatro, il canto del mondo (2014); Leggere L’universale singolare di Sartre (2017). Presso Jaca Book cura la pubblicazione delle Opere di Carlo Sini e la collana «Mappe del pensiero».

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    Book preview

    Antonin Artaud - Florinda Cambria

    Parte prima

    PREMESSE E ANTICIPAZIONI

    PROLOGO

    (ossia «discorso davanti», quindi «discorso introduttivo», ma anche, scivolando un po’ attraverso gli interstizi etimologici, «discorso a favore di, discorso nell’interesse di» o, addirittura, «discorso in luogo di»…)

    Non vi è qui un percorso da prologare (o da perorare), ma solo l’urgenza di fare un po’ di chiarezza su interessi, slanci, pregiudizi che motivano questo studio, il cui movente è una lettura in fieri: lettura dell’opera di Antonin Artaud, reciprocamente occasionante e occasionata da un tentativo di lettura della pratica teatrale come esempio peculiare di creatività dell’artificio o di artificialità della creazione (o ancora, se si vuole, della specifica produttività di un atto artificialmente ri-prodotto).

    «Lettura», «opera», «pratica», «artificio», «creazione», «produzione», «riproduzione»: si potrebbe così compilare un primo elenco di parole-questioni, in un crescendo di complessità e di co-implicazioni che non ne consentono certo l’uso spensierato che se ne è appena fatto. Quindi, da capo: una lettura in fieri, si è detto. Lettura dell’opera di Antonin Artaud; lettura della pratica teatrale nella sua scrittura peculiare. Ma per parlare di lettura bisogna anzitutto che ci sia una scrittura a cui applicarsi. In questo caso: scrittura artaudiana, scrittura teatrale. Espressioni non innocue, che chiedono una riformulazione un po’ più articolata di quello che si è chiamato il «movente» di questo studio, nella misura in cui i termini evidenziati si costituiscono anche come i limiti del percorso che qui si avvia; limiti di contenimento ma anche di confine, in quanto pre-condizionano il suo procedere e aprono a possibili variazioni del suo tracciato.

    Si tratterà dunque di farsi carico qui di scelte tematiche e metodologiche inevitabilmente già compiute nel momento in cui si è assunta la posizione del lettore, in relazione a una scrittura determinata, proprio a partire dall’ambiguità che la caratterizza. Non si intende con ciò far problema della multiformità di sensi insita nel termine «scrittura» (non direttamente, almeno), ma solo delle sfaccettature che esso assume nell’esperienza di Antonin Artaud (ambigua esperienza di scrittura) da un lato e, dall’altro, della possibilità di usare più o meno legittimamente tale termine in riferimento alla pratica teatrale (ambigua scrittura di esperienza). E i due lati andranno trattati in strettissima connessione, poiché proprio tale connessione, in fondo, costituisce l’ipoteca, la prospettiva da cui si intende muovere e cui si cercherà di dare nutrimento attraverso l’analisi di alcuni testi di Artaud, la cui scelta, d’altro canto, è già stata condizionata da quella prospettiva medesima che ha agito come un vaglio sulla lettura.

    Da questo punto di vista, dunque, se parlare di «testi» di Artaud significa in qualche modo avvicinarsi alla sua opera, e poiché proprio la natura di tale opera ha costituito uno dei principali temi del dibattito critico sul «caso Artaud», occorrerà senz’altro, nel corso della lettura, esporsi all’effetto disorientante di una ridefinizione necessaria. Il che, almeno in un primo momento, dovendo scandire i termini di una duplice relazione (autore/opera, opera/lettore e quindi, mediatamente, autore/lettore) – relazione inevitabilmente già attiva nel luogo della sua sospensione –, obbligherà ad una sorta di piccola acrobazia per cercare di disarticolare le posizioni date dallo schermo materiale dei testi scritti, schermo che fissa nelle rispettive funzioni il lettore-fruitore e l’autore-locutore.

    Nel caso specifico di un approccio all’opera di Antonin Artaud, tale acrobazia consisterà nel tentativo di bucare lo schermo degli scritti per cercare di risalire al suo gesto scrittorio, alla sua attività di scrittore, alla mano mentre scrive, cioè, in qualche modo, alla vita circolante nei suoi segni. Questo significherà, da un lato, farsi carico dell’esigenza bio-grafica che ad un simile tentativo soggiace (per quanto sconveniente essa possa apparire), dall’altro avviare un processo di determinazione dell’opera di Artaud non già dal punto di vista della sua consistenza, bensì da quello dell’attività che la costituisce e la caratterizza. Opera, quindi, anzitutto come operatività. Tale manipolazione della questione dell’opera di e in Artaud apre una prospettiva che verrà assunta su più livelli e in momenti distinti del percorso che qui si avvia.

    In questa fase preliminare, in cui si tratta di collocarsi come lettore di fronte a testi la cui natura di opera è genericamente e inevitabilmente data, la nozione di operatività consente di aggirare momentaneamente il paradosso costituito dal fatto che proprio tali testi si pongano come anti-opera, cioè che sussistano negando la loro sussistenza separata.

    Parlare dei testi artaudiani come di elementi di una operatività, anziché di un’opera, è così scelta funzionale, in primo luogo, alla necessità di porli come i termini di una frequentazione possibile, cioè come il polo separato di una relazione che solo in tale separatezza può darsi: relazione di lettura o interpretativa. Perciò, certo, ci si avvicinerà ad Artaud attraverso una lettura dei suoi testi, che andranno però intesi come lo spazio circolare di un’attività, fase di un processo che lì precipita senza esaurirvisi, che da lì muove senza distaccarsene; testi come effetti, emanazioni consistenti di tale processo, di cui iterano l’efficacia.

    In secondo luogo, una prospettiva di questo tipo, mentre salvaguarda la disposizione di lettura (disposizione frontale e preventivamente distanziata), quasi impercettibilmente, come un blando suggerimento, sposta il centro dell’attenzione (la postura) di chi legge verso il gesto, l’azione fisica che attraversa la pagina scritta, rimemorazione del passaggio elementare (e dimenticato) di qualunque pro-duzione che, spingendo avanti e allontanando, apre la fessura in cui si possa incuneare qualcosa come «opera». In termini più specifici ciò significa che i testi di Artaud, in tale approccio, mostrano, ancor prima di tematizzarla, la loro natura di pratica che fa opera e perciò, propriamente, non può esserlo. È per questo che sarà la scrittura in senso stretto, nei modi in cui Artaud la esercita, a costituire il transito verso la scrittura in senso lato, cioè verso un esercizio vivo di segni, la cui efficacia abbia carattere performativo e produttivo. Esercizio, infine, che per Artaud, implicando una specifica disciplina di corpi all’opera, è già teatro.

    In che modo questo passaggio agisce sulla «disposizione» del lettore, che si era sopra cercato di salvaguardare? Di primo acchito, si potrebbe ipotizzare una lieve modifica del suo atteggiamento, ridefinendolo per affinità con quello dello spettatore teatrale: in fondo non si tratterebbe che di accomodarsi e continuare a gettar lo sguardo sulla pagina in modo solo leggermente più «emotivo», cioè un po’ più attento al suo aspetto materiale (ad esempio la scelta e la successione delle parole, lo stile delle loro ricorrenze e della loro distribuzione nello spazio, assonanze, allitterazioni, onomatopee, e così via…). Ma una scelta di questo tipo non corrisponderebbe alla richiesta implicita nel testo artaudiano, ne depotenzierebbe il voltaggio operativo, assumerebbe insomma la posizione dello spettatore proprio nei termini che tutta la scrittura di Artaud intende far saltare.

    Il punto è che esporsi alla operatività del testo artaudiano significa esattamente porre in gioco la propria posizione di «lettore», accettarne la destabilizzazione, attraversarla, in qualche modo. E anche vagheggiare di atteggiarsi a lettore-spettatore, nelle forme a cui si è prima fatto generico cenno, sarebbe una reazione ingenua e inadeguata, se non si facesse carico dello stravolgimento che Artaud opera sulla e nella funzione dello spettatore teatrale. Questo significa che la lettura che si intendeva avviare e di cui si intendevano mostrare le premesse risulta impraticabile, se non accetta di sviarsi attraverso la specificità della pratica teatrale e del suo luogo precipuo, così come Artaud va progressivamente e reciprocamente ritagliandoli ed esercitandoli. Se non accetta cioè di mettersi in gioco ed eventualmente essere giocata dal graduale cambiamento di postura e di disposizione che la scrittura e il teatro di Antonin Artaud chiedono e impongono al loro lettore e al loro spettatore.

    La natura e la portata di tale cambiamento costituiranno uno dei crocevia fondamentali del percorso di Artaud e di questo studio, ma, per il momento, l’avervi fatto cenno è solo un passaggio funzionale alla descrizione dell’atteggiamento del lettore, e alla riproposizione delle possibilità del sussistere di tale atteggiamento, di fronte alle caratteristiche del testo artaudiano.

    In terzo luogo, e infine, la prospettiva dell’operatività consentirà di tornare tematicamente alla questione di «opera e assenza d’opera» e di confrontarsi con la discussione critica che in tale direzione si è mossa, riconoscendo ad Artaud la peculiarità di avere scosso, mobilitando il lettore, lo statuto stesso del soggetto in situazione di rappresentazione.

    In sintesi: si è accolta la nozione di operatività anzitutto come utile via per aggirare momentaneamente la complessa questione della consistenza e sussistenza dei testi di Artaud in quanto «opere», questione che, se assunta al primo impatto in tutta la sua portata, avrebbe condotto a una impasse insormontabile chi, di quei testi, si fosse trovato a intraprendere la lettura. Preservare la possibilità di una lettura era condizione necessaria perché questo studio potesse avviarsi. Al tempo stesso, però, in quel preservare è proprio del termine «lettura» che si è voluto far problema. Dal senso che gli si attribuisce dipende infatti la possibilità di avvicinarsi al pensiero di Artaud nei suoi percorsi: pensiero e percorsi che non si danno in uno sviluppo sistematico, ma procedono per posizioni nucleari e si articolano poi attraverso un ciclico riproporsi pluriorientato, che sonda e fora lo spazio delle posizioni di partenza. Un procedere per torsioni e ricorrenze: questo è l’esercizio che, praticandolo nella propria scrittura, Artaud impone al lettore.

    Nella inevitabilità di tale esercizio, inoltre, si manifesta il primo grado della efficacia del gesto di Artaud-scrittore: impedire (o almeno rendere molto scomoda) l’abituale postura del lettore, obbligarlo a far questione delle distanze che lo collocano e lo definiscono come tale, per poi ri-assumerle magari, ma costruendole come argini dopo una piena. In questo senso, dunque, si specifica cosa si intendesse per operatività della scrittura artaudiana e perché fosse necessario farvi riferimento proprio per decidere come frequentare quella scrittura, dalla natura così ambigua da aprire a interrogativi sulla sua stessa consistenza e sul suo senso di «opera» o «opera assente»; e che proprio in tali aperture rivela la propria forza.

    Come, allora, affrontare un percorso di lettura che, sin dall’inizio, si delinea come sistematica deviazione dal proprio tracciato? Quali sono le intersezioni che, modificando quel tracciato, al tempo stesso ne scandiscono le tappe? E ancora, deviazione da che a che? Intersezioni di che con che? Per sommi capi: della scrittura di Artaud con il suo teatro, come si era sopra anticipato.

    Si tratta ora di porre a tema tale connessione e di sottolineare l’interesse pregiudiziale, oppure l’azione pregiudicante, che essa eserciterà sullo studio che qui si avvia. Col che, infine, si potrà ritenere esaurita la funzione che a questo Prologo era stata assegnata.

    L’intuizione che ha suscitato per me l’esigenza di un confronto con Artaud è che il rapporto fra scrittura e teatro, in questo autore, non sia estrinseco riferimento argomentativo, spunto per una riflessione, ma sia il luogo di produzione di tutto il suo pensiero, in uno sviluppo che, a sua volta, agirà su tale rapporto costitutivo progressivamente lavorandone i termini e regolandone il gioco.

    Ad alimentare questa intuizione, due sono stati i moniti cui si è scelto di attenersi, investendo su di essi nella ricerca di un punto di vista, e quindi di un metodo, che consentisse di avvicinarsi all’esperienza di Artaud (o, meglio, ai resti di quell’esperienza), nelle sue metamorfosi e nelle sue ricorrenze tematiche, nei segni del suo dire plurivoco e della sua scrittura satura, a volte ai limiti della impraticabilità.

    Due moniti, si è detto. Ma forse è più corretto, in questa fase, chiamarli premonizioni, quasi solo sospetti che motivano un’indagine. Il primo è che le questioni che si pongono nella riflessione artaudiana come fondamentali e fondanti (e che hanno aperto a una nutrita discussione critica condottasi ben oltre l’ambito strettamente teatrale) abbiano potuto emergere e costituirsi nei modi in cui l’hanno fatto, e assumere la portata che hanno assunto (portata filosofica, per dire genericamente, pur non appartenendo Artaud direttamente alla tradizione storiografica della filosofia), proprio e solo in relazione co-condizionata alla pratica teatrale.

    Il secondo sospetto – generato dal primo, se lo si spinge alle sue conseguenze estreme – è che il rapporto di co-produzione che vige fra una pratica determinata e i mezzi materiali del suo esercizio fondi il progressivo assimilarsi di pratica scrittoria e pratica teatrale nel percorso artaudiano, fino a rifonderle nel tentativo di una scrittura di carne (che non consenta cioè di prescindere dalla consistenza del suo darsi) e di un corpo senza organi (quale verrà evocato dall’ultimo Artaud). Assimilazione che infine, metabolizzandole, smaschererà le due pratiche e, investendole di una inconsueta funzione performativa, giungerà a far questione dei loro effetti e dei loro rispettivi soggetti.

    Ho scelto di alimentare, anziché contrastare, questi sospetti anzitutto perché in essi, ancor prima che una possibilità di lettura delle distinte e connesse fasi del percorso di Artaud, ho intravisto l’occasione per mettere alla prova un’ipotesi più radicale: che un pensiero possa costituirsi solo in rapporto al concreto esercizio di una pratica. Ipotesi che, se da altrove muove e trova convalida, nel caso specifico di Artaud si espone al proprio azzardo: che ne è infatti del pensiero, se esso si produce in una scrittura che non intende imitare, ma essere teatro? Ed è possibile un pensiero del genere? E «teatro», in tale intreccio funzionale, quale familiarità avrà – se ne manterrà una – con ciò cui abitualmente questa parola si riferisce?

    Alla luce di questi interrogativi si comincia forse a chiarire perché, all’inizio di queste pagine introduttive, si sia detto che «scrittura teatrale» è un’espressione non innocua; come in essa ne vada di peculiari aperture e sprofondamenti di un pensiero e, nella direzione in cui Artaud si muove, della possibilità di una «cultura orientata, come il teatro è orientato», dove cultura «è imparare a tenersi diritti nel movimento incessante delle forme che successivamente si distruggono»¹. Esercizio richiesto da Antonin Artaud sia all’attore sia allo spettatore del suo Teatro della Crudeltà.

    ¹A. Artaud, Il teatro e gli dei, trad. it. in Messaggi rivoluzionari, a cura di M. Gallucci, Monteleone, Vibo Valentia 1994, p. 81 (nuova ed. accresciuta e aggiornata, da cui d’ora in avanti si citerà: Jaca Book, Milano 2021, p. 97).

    I

    DIVIETO E NECESSITÀ DI COMMENTO

    «Se quest’idea fosse riuscita a imporsi, se un’incertezza sistematica sull’identità di chi scrive avesse impedito al lettore di abbandonarsi con fiducia – fiducia non tanto in ciò che gli viene raccontato, quanto nella voce silenziosa che racconta –, forse esternamente nell’edificio della letteratura non sarebbe cambiato nulla…, ma sotto, nelle fondamenta, là dove si stabilisce il rapporto del lettore col testo, qualcosa sarebbe cambiato per sempre»¹.

    «Discorsi intorno» e «discorso su»: impasse bio-grafica (Ipotesi del divieto: avvisaglie)

    Antonin Artaud (anagraficamente Antoine Marie Joseph Artaud, nato a Marsiglia il 4 settembre 1896) fu trovato morto nella stanza in cui risiedeva a Ivry-sur-Seine, il mattino del 4 marzo 1948.

    Era un personaggio piuttosto noto, a quell’epoca, e di lui si era già parecchio detto e scritto, soprattutto dopo il suo rumoroso rientro a Parigi dal manicomio di Rodez, nel 1946. Non vi è quindi nulla di strano nel fatto che la sua morte richiamasse l’attenzione della stampa e del mondo intellettuale parigino, che già da tempo si era trovato, a volte contro voglia, a dover trattare con la presenza spesso indiscreta, le parole e i toni mai indifferenti di Antonin Artaud; il quale, dal canto suo, nel gioco di censure e celebrazioni della sua immagine pubblica, assunse sempre un ruolo di interlocutore attivo, interferendo continuamente nel disegno che di lui veniva tracciato, ritoccandolo o stravolgendolo, partecipandovi come se tale disegno fosse innanzitutto opera sua. Ma in questo, in fondo, ancora nulla di così strano: si tratta solo di registrare che dei discorsi intorno ad Artaud erano già più che avviati al momento della sua morte e che l’oggetto di tali discorsi, in vita, si fece carico del loro intreccio rendendo la propria posizione di oggetto discusso poco più che un residuo della propria attività di soggetto discorrente, ciò che resta di involontario nella scelta di una relazione.

    Cosicché quanto avvenne a partire dal 5 marzo 1948, sin dai primi articoli necrologici, da un lato risulta la naturale prosecuzione dei numerosi discorsi intorno ad Artaud (ai quali egli aveva preso parte alimentandone lo sviluppo e deviandone i percorsi), dall’altro inaugura quello che chiameremo il discorso su Artaud, la cui nascita reinterpreta i discorsi precedenti, coagulandoli e annettendoli a sé come propria fase preliminare.

    Ciò che accadde fu un vero e proprio scatenamento di commenti di varia natura, celebrativi fino alla retorica o denigratori per posizione presa, commenti di amici, parenti, conoscenti, testimoni e, più raramente, critici di professione: una moltitudine di voci dai toni appassionati, inizialmente perché portati dall’onda dell’emozione (si trattava di persone che avevano conosciuto e frequentato Artaud), ma poi, e per almeno un decennio, sempre più esacerbati in una contrapposizione interpretativa così netta da non poter essere spiegata solo con l’esigenza di rivendicare individuali privilegi di fama connessi a supposte relative vicinanze, di sangue o di spirito, al poeta morto.

    In primo luogo, è bene sottolineare che la contrapposizione interpretativa cui si è fatto cenno non riguardava gli scritti di Antonin Artaud, ma – ed è questa la prima osservazione sconcertante – si poneva su un piano apparentemente più immediato: le parti, in quello che presto venne chiamato l’affaire Artaud², si contendevano propriamente l’esistenza storica di Antonin Artaud, la supposta verità documentabile del suo vissuto di uomo, non già di autore. Se poi si considera il fatto che, proprio a causa di tale contesa, la pubblicazione del primo volume delle Œuvres Complètes³ di Artaud fu ritardata fino al 1956 (inaugurando così un’impresa editoriale che avrebbe impegnato i suoi curatori per circa quarant’anni), si può meglio cogliere la complessità e l’anomalia, di cui si vuole qui far questione, del sorgere del discorso su Artaud.

    Innanzitutto, dunque, tale discorso si diede, in una prima fase e per un lungo periodo, in forma di scontro fra testimoni di un’esistenza, rispetto alla quale ogni presa di distanza mostrava immediatamente i suoi effetti di collocazione coatta di tutti gli elementi coinvolti in un ruolo, cui corrispondeva un’assegnazione di responsabilità: se erano gli amici di Artaud a detenere la verità sulla sua esistenza, allora ai familiari e ai medici che lo ebbero in cura toccava una colpa; se invece la testimonianza veritiera era quella dei familiari, allora gli amici mentivano e, loro sì, avevano colpa⁴.

    In secondo luogo, essendo in gioco non solo la verità su Artaud, ma anche quella di chi tale verità esprimeva, da un lato i contendenti si rivelavano impossibilitati ad assumere un atteggiamento critico (cioè consapevolmente distanziato), poiché parlando di Artaud si trovavano inevitabilmente a parlare di loro stessi, dall’altro si finiva con il rendere inattingibili (materialmente, ritardandone la pubblicazione; ermeneuticamente, impedendone la lettura) gli scritti di Artaud, che avrebbero forse costituito gli unici possibili documenti atti a soddisfare l’istanza, per così dire, «storiografica» che implicitamente veniva avanzata nel voler fare di una vita, appunto, un «fatto storico».

    In terzo luogo, la constatazione di un paradosso: se quelli che si sono chiamati i discorsi intorno ad Artaud, sviluppatisi mentre questi era in vita, erano stati inevitabilmente caratterizzati dalla necessità di doversi continuamente riorganizzare in relazione ad un centro mobile (che, parlando a sua volta, faceva di sé oggetto e soggetto di un perimetro non chiuso), il discorso su Artaud (e la preposizione «su» vorrebbe indicare la supposta permanenza e staticità dell’oggetto di tale discorso, come suo basamento consistente), pur istituendosi come tentativo di retrospettiva rispetto ad un fatto teoricamente concluso (la vita di Antonin Artaud, appunto), più che disattivare l’interferenza dovuta alla mobilità del proprio oggetto, sembra palesarne l’irriducibilità. Come se qualcosa di più duraturo di un’esistenza storica, di più refrattario dell’interloquire animato all’interno di un dibattito costituisse il concreto impedimento allo sviluppo lineare, per quanto articolato, di un discorso su. E come se, per ipotesi, tutto ciò in qualche modo rispondesse ad un progetto tracciato in un luogo ancora non evidente, ma dotato di efficacia nel perseguire un intento preciso, non meglio definibile, per il momento, che come divieto di: ma di questo, e della sostenibilità o meno di tale ipotesi, si tenterà di dire più avanti.

    Per ora basti tener ferma l’osservazione che i primi commentatori di Artaud furono coloro che lo avevano personalmente frequentato; che il loro commentare era occasionato e mascherato dall’esigenza di stilare una bio-grafia attendibile; che tale esigenza non poté essere soddisfatta per un lunghissimo periodo; che al fallimento di questi tentativi biografici corrispose, almeno cronologicamente, il blocco protratto della pubblicazione organica degli scritti di Artaud, fino al 1956, come si è sopra accennato.

    Il «discorso su» nell’impatto con i primi scritti di Artaud

    È appunto con la comparsa del primo volume delle Œuvres Complètes che si apre una nuova fase del discorso su Artaud, fase che, segnando l’inizio di un percorso di autoriflessione di tale discorso su se stesso, lo caratterizzerà – forse per la prima volta – come discorso consapevolmente distanziato: in altri termini, nel momento in cui si confronta con gli scritti di Artaud, il discorso su di lui si trova a dover fare i conti con la propria ambiguità, con l’esperienza di una impossibilità, a metterla a fuoco e tematizzarla come tale; ma sarà proprio la tematizzazione di quella impossibilità a prodursi come la distanza precipua di un discorso possibile.

    In sintesi, la cronaca vuole che, a otto anni dalla morte di Artaud, il clamore della disputa fra i testimoni diretti andasse sopendosi, almeno nella misura minima sufficiente a rendere udibili le prime reazioni non esclusivamente emotive agli scritti compresi nel primo volume delle Œuvres Complètes, edito da Gallimard e curato da Paule Thévenin attraverso un lavoro minuzioso che proseguirà con la pubblicazione degli altri venticinque volumi.

    Almeno due sono i dati da segnalare, in relazione a questo evento editoriale: da un lato, la presenza, fra i testi qui raccolti, della Correspondance avec Jacques Rivière⁵, in cui Artaud ventisettenne fornisce una descrizione così precisa dei percorsi del proprio pensiero, un’analisi così lucida degli effetti di tale pensiero sulla propria esistenza, da stringere qui, inaugurandolo esemplarmente (e con ciò già mostrandone l’inadeguatezza), quel nodo critico-clinico in cui si dovranno dibattere i futuri discorsi su di lui, nel tentativo di scioglierlo o di coglierne il senso; dall’altro lato, l’importanza del ruolo svolto da Paule Thévenin, sia come curatrice, sia in quanto essa, pur appartenendo alla cerchia dei testimoni ed avendo quindi partecipato alle accese polemiche seguite alla morte di Artaud⁶ (o forse appunto per questo), con il proprio lavoro offrì non solo la possibilità di una lettura comparata e complementare di testi e vita artaudiani, ma anche una chiave interpretativa per le difficoltà che ogni discorso su Artaud aveva ed avrebbe incontrato nel momento in cui avesse avviato un tentativo di bio-grafia.

    Ciò su cui ci si intende ora soffermare è proprio questa chiave interpretativa, poiché essa sembra costituire l’anello di congiunzione fra la prima e questa nuova fase del discorso su Artaud, in cui si inizia a porre tematicamente la questione del rapporto vita/opera nella sua esperienza, e quindi, prospetticamente, la possibilità di cogliere, al di là della dimensione aneddotica e dei toni polemici, la portata teoretica della impasse biografico-critica con cui tale discorso si inaugurò.

    Di tale impasse, interrogandola con approcci argomentativi differenti, ma segnando le tappe di un percorso di lettura articolato e connesso in uno sviluppo coerente, tratteranno, oltre a Paule Thévenin, anche Maurice Blanchot e, poco dopo, Jacques Derrida.

    Nel gioco di queste tre letture si potrà forse riproporre – questa volta valutandola e vagliandola – l’ipotesi, cui si era solo accennato più sopra, del divieto che pareva vigere sui primi tentativi di commento ad Artaud.

    Impouvoir: descrizione e prescrizione nella Correspondance avec Jacques Rivière (Ipotesi del divieto: funzionamento)

    L’attenzione di coloro che, avvicinandosi ai testi pubblicati nel ’56 (quando ormai di Artaud circolavano per lo più «immagini mitiche»⁷), poterono leggere la Correspondance avec Jacques Rivière fu sin da principio attratta dalla straordinaria precisione con cui Artaud descriveva e scandagliava i propri stati esistenziali, sezionandoli e indagandoli come se si trattasse di qualcosa di separato, qualcosa di cui, in qualche modo, egli disponesse e su cui, disponendone, esercitasse un potere di manipolazione (se non altro per il fatto di descriverli). Ma tale potere, laddove si manifestava nelle sue forme più stringenti, proprio nel culmine del suo esercizio, giungeva ad arpionare la soglia di ciò che, dandosi come non manipolabile e non descrivibile (e quindi, in un certo senso, non dandosi), costituiva la condizione di possibilità di ogni manipolazione/descrizione fin lì compiuta. E così di nuovo, in una insistenza analitica che forse non ci si aspetterebbe da chi affermi di soffrire di una «indelebile impotenza a concentrarsi su un oggetto»⁸.

    Ed è forse a questo procedere, a questo esercizio strenuo di un potere che si fonda sulla inattingibilità del proprio slancio (investendolo come oggetto e in ciò stesso mancandolo, patendone la frantumazione come perdita irriducibile e recupero coatto – ma in forma di schegge che rimbalzano conficcandosi), che Maurice Blanchot si riferiva quando, nel suo primo articolo su Artaud⁹, scrisse:

    Egli ha come toccato […]¹⁰ il punto in cui pensare è sempre e già un non poter ancora pensare: non-potere (impouvoir), secondo la sua parola, che è come essenziale al pensiero, ma ne fa una carenza estremamente dolorosa, un venir meno che s’irradia nello stesso istante partendo da quel centro e, consumando la sostanza fisica di quel che egli pensa, si divide a tutti i livelli in più impossibilità particolari¹¹.

    Non si intende qui avviare una trattazione delle analisi svolte da Blanchot, ma solo osservare come, sin d’ora, le parole e soprattutto l’andamento di questi scritti artaudiani (una corrispondenza privata con il direttore della «Nouvelle Revue Française», che solo in un secondo tempo venne proposta, dallo stesso Rivière, per la pubblicazione) si espongano ad un ulteriore livello di lettura, rispetto a quello, forse più immediato, che vi volesse cogliere esclusivamente l’espressione di un malessere esistenziale o di una patologia mentale. L’ulteriore livello di lettura, inaugurato appunto da Blanchot, cerca in essi (e così ritrova) una fenomenologia dell’atto di pensiero, inteso come luogo di pro-duzione (quindi precipuamente poetico) e come momento di perdita (quindi, in qualche modo, patetico), che, precipitando nella propria ripetizione inconclusa, pone la propria durata come il tempo e lo spazio di manifestazione di una impossibilità (im-pouvoir).

    Ma, ai fini che in queste pagine si perseguono, è importante ribadire che quella sorta di fenomenologia si delinea in Artaud come provocazione di (nel doppio senso di genitivo soggettivo e oggettivo) una concreta e imprescindibile esperienza vissuta:

    Perché mai Artaud accetterà lo scandalo di un pensiero separato dalla vita, anche vivendo l’esperienza più diretta e più selvaggia che mai sia stata fatta dell’essenza del pensiero inteso come separazione, del potere che il pensiero afferma contro se stesso come limite del suo potere infinito¹²,

    scrive Blanchot (anche se poi – come si vedrà in seguito – rischierà di non tener ferma l’imprescindibilità di tale connessione).

    Se dunque, nella dialettica potere di manipolazione/impouvoir, Artaud cerca di rendere il movimento cui soggiace il (suo) pensiero ossia la gamma mutevole delle forme della (sua) vita; se però, mentre afferma di soggiacere a questo movimento, consapevolmente sceglie (e l’assenza di alternative non intacca il valore di una scelta) di collocarvisi, allora qui Artaud non sta arrendevolmente presagendo un destino, ma consapevolmente destinando se stesso, in prima persona, alla frequentazione di una impossibilità, chiamata e riaffermata da successive e reiterate manipolazioni della sua stessa materia (determinabile, per ora, come pensiero ossia vita), come scarto possibile – e perciò irrinunciabile – di senso e di esistenza.

    Assumendo questo compito come propria destinazione, Artaud implicitamente detta anche le condizioni in base alle quali la sua esperienza personale si aprirà o resisterà al flusso discorrente del tempo storico, scandito dal ri(per)correre della distanza fra l’inattingibilità di un argomento e la necessità del suo commento. In altri termini, perché il senso della sua scelta potesse darsi in tutta la sua portata, occorreva che essa si insinuasse operativamente (cioè mostrando i suoi effetti più che dichiarando i suoi intenti) anche all’interno e attraverso i modi di una sua possibile condivisione, innanzitutto discorsiva: tutto il suo senso sarebbe consistito allora nella efficacia che avrebbe saputo dimostrare nell’opporsi ad ogni tentativo di ridurre alla puntualità e alla linearità i percorsi multipli e intrecciati attraverso i quali, solo disperdendosi, quella vita/pensiero aveva potuto essere (e avrebbe potuto esser detta) tale.

    In quest’ottica, le anomalie riscontrabili nel sorgere e non darsi di quello che si è chiamato il discorso su Artaud nella sua prima fase (quella della impasse biografica, in forma di scontro insanabile fra le opposte verità testimoniali), il quale, pur aspirando al contrario (o, meglio, proprio per ciò) non faceva che riproporre il decentramento caratteristico dei discorsi intorno, tali «anomalie», appunto, iniziano a mostrarsi come il risultato di un’operazione scientemente condotta da Artaud e che, alla sua morte, agisce come una prescrizione nell’eco di un divieto. In tale prospettiva, anche le continue falsificazioni ri-produttive che Artaud compirà sulla materia viva della propria esistenza biografica e intellettuale (a partire dalla Correspondance avec Jacques Rivière, per arrivare alle successive ritrascrizioni e reinterpretazioni dei propri dati anagrafici¹³, soprattutto dopo il viaggio in Messico del 1936) andranno lette da un lato come la metodica attuazione di un progetto, dall’altro come il luogo di insorgenza di quel divieto che per esprimersi esigeva di essere trasgredito.

    Indagando la natura di tale divieto è forse possibile rintracciare l’ipoteca che graverà, agendo come una provocazione, su ogni discorso che, in quanto tenti di ridurre Antonin Artaud a proprio argomento (o dimostrazione), ne faccia l’oggetto di un commento, sia esso biografico, critico o clinico – come verrà infine specificato da Jacques Derrida, ma come già è implicito nella imprescindibilità del nesso vita/pensiero di cui si è detto.

    Un divieto che agisce come una provocazione, dunque: in questo sta la prima ambiguità del suo dettato. Infatti, se Artaud vuole anzitutto impedire che un discorso (suo o di altri) si appropri della sua verità (cioè della sua vita) oggettivandola e quindi perdendola (poiché essa sta proprio nel fatto di non poter essere contenuta nel discorso di qualcuno), allora è necessario che molti discorsi sfidino quel divieto, che se ne lascino provocare e lo trasgrediscano, fallendo poi nel proprio intento: nel loro punto morto, nella loro impasse, la verità di Artaud (la verità che Artaud scelse di incarnare) sarà stata vagliata e riaffermata.

    Ecco perché, ad uno sguardo retrospettivo, il proliferare di discorsi su e intorno ad Artaud, così come il loro girare a vuoto, per lungo tempo, proprio rispetto alle testimonianze, ai dati ritenuti più oggettivi e quindi meno discutibili, sembrano rispondere ad una necessità o, indifferentemente, ribadire un divieto mettendo in esercizio il suo dettato: riproponendo cioè il gesto di Artaud dal lato dei suoi effetti.

    Chiarimenti terminologici e implicazioni tematiche: argomento ed esempio, discorso e commento

    Si è fin qui parlato di discorsi intorno e di discorso su, cercando di individuare nei loro sviluppi una continuità che, appena sfiorata per via positiva, si determinava invece in modo piuttosto netto per via negativa, nella constatazione di una incapacità o impossibilità: quella di fissare il proprio oggetto in una forma stabile, che ne consentisse la perimetrazione necessaria a farne un argomento trattabile, appunto, discorsivamente. Ne risultava un anomalo procedere, per il quale, mentre i «discorsi intorno» e il «discorso su» finivano col ricondursi l’uno all’altro (da un punto di vista cronachistico ne è esempio il citato affaire Artaud), anziché essere il discorso ad interrogare il proprio oggetto, percorrendone il perimetro e assumendolo come stabile basamento, era invece tale oggetto, alterando continuamente il proprio perimetro, ad interrogare il discorso, costringendolo ad un insolito movimento di autoperlustrazione.

    In sintesi: la peculiarità del discorso su Artaud al suo sorgere, nei termini in cui se ne è parlato sino ad ora, risiede nell’azione delegittimante esercitata dal suo oggetto. Tale azione consiste fondamentalmente nel sottrarsi, nell’ostinato rifiutarsi di Artaud come argomento. Nell’ottica del divieto e della provocazione che si è sopra suggerita, questo rifiuto funziona, con le sue implicazioni, come una sorta di suggerimento o, nei suoi effetti più vincolanti, come una rigorosa prescrizione. Occorre allora indagare non tanto il sottrarsi di Artaud come oggetto di discorso (il che, peraltro, direbbe qualcosa di improprio o, meglio, lo direbbe con termini impropri), quanto la specificità del suo sottrarsi come argomento di discorso. In questa direzione, può essere utile prestare attenzione al campo semantico coperto dalla parola «argomento», relativamente all’uso che qui se ne fa.

    Il latino argumentum deriva dal verbo arguere (asserire, indicare, dimostrare) e significa «prova a favore, dimostrazione, conferma»: in questo senso, un discorso, un ragionamento, un’ipotesi senza argomento sono costruzioni senza fondamento, non sostenute e quindi non sostenibili. Se, dunque, l’argomento di un discorso, prima di esserne il contenuto o l’occasione, è ciò che ne afferma la validità, allora la resistenza che Antonin Artaud oppone ad ogni tentativo di ridurlo ad argomento, nella sua concretezza, si determina come rifiuto di complicità, di assenso indiretto ai modi di tale discorso, così da minarlo proprio nel luogo della sua riserva di attendibilità. Perciò si può meglio intendere quell’azione delegittimante che Artaud pare esercitare proprio là dove costituisce occasione di discorso: il suo non è un darsi come «prova a sostegno», ma, piuttosto, come «messa alla prova», momento critico e invalidante, che riapre i giochi perché rifiuta di corroborarne gli schemi.

    Si tratta quindi di un vero e proprio boicottaggio, i cui effetti mediati, però, consistono nel rendere necessaria una sorta di revisione del funzionamento degli usuali schemi discorsivi; revisione che imporrà o di sostituire gli elementi rivelatisi inadeguati, o di perfezionarli. Questa forma di boicottaggio descrive a grandi linee le alterne vicende che hanno riguardato il discorso su Artaud, fino al momento, appunto, della sua obbligata «revisione». Quali vie essa abbia poi seguito (se quella della sostituzione o quella del perfezionamento, innanzitutto), su quali schemi abbia agito e, quindi, cosa ne sia stato del «discorso su», da cui eravamo partiti, sono questioni che vengono qui poste come l’intreccio nel quale quanto fino ad ora detto si connette (e si complica).

    Prima di procedere, può essere utile soffermarsi ancora brevemente sulla peculiarità che la parola «argomento» acquista nel contesto che si sta qui delineando, se si associa il suo significato di «prova a favore, dimostrazione, conferma» a quello della parola «esempio»¹⁴, con cui abitualmente si intende «prova, citazione, testimonianza». Emerge così una zona di sovrapposizione semantica, che consente una sorta di intercambiabilità fra i due termini, per la quale, sin d’ora, il rifiuto di assenso, che Artaud oppone non lasciandosi ridurre ad argomento, si specifica come rifiuto di essere portato da un discorso exempli causa, a titolo di esempio.

    Si può dunque individuare in questo nesso argomento/esempio una indicazione forte del luogo in cui il divieto artaudiano si attiva con maggior vigore. Rimarranno poi ancora tutti da comprendere i modi in cui a tale divieto il discorso su Artaud reagirà, o, indifferentemente, i percorsi circostanziali che il divieto, nel suo aspetto provocatorio, apre e necessita. In questa direzione, però, andrà tenuto in conto non solo il fatto che i modi dell’approccio discorsivo all’esperienza di Artaud risulteranno modificati, ma anche che, nel cambiamento coatto di prospettiva, quell’esperienza lascerà intravedere, oltre il suo lato refrattario (o, meglio, proprio in ragione di esso), la fertilità di una sua frequentazione possibile, per quanto scomoda.

    Se, però, a tale approdo si potrà giungere solo a frequentazione avviata (cioè anzitutto in un confronto serrato con i testi scritti), deve essere intanto messa a tema la trasformazione morfologica del mezzo di tale frequentazione: mezzo discorsivo, appunto, che viene colpito nel luogo del suo prendere argomento o portare esempio, cioè nel suo costitutivo farsi commento, intendendo con ciò non una «trattazione» o «spiegazione» (termini che tendono a suggerire neutralità e non invasività del mezzo), ma quell’invenzione di prove e testimonianze finalizzata alla conferma di strutture precostituite e all’autosostentamento, che è l’implicito movimento di ogni «discorso su».

    Nell’affermare che è l’agire da commento che ha caratterizzato e caratterizza tale discorso sin dal suo sorgere, nell’intendere poi commento come invenzione (di prove), è già attiva una scelta terminologica della quale è bene render conto, poiché essa fornisce qualche elemento in più alla rete di rinvii non evidenti, ma fondamentali, che il divieto artaudiano tesse.

    Così, attribuendo alla parola commento il significato di invenzione, si attinge qui alla sua derivazione etimologica¹⁵ come a una riserva di vocaboli utili a descrivere, in modo un po’ più preciso, la direzione di quel procedere discorsivo per riproposizione di schemi dati e produzione di argomenti a loro favore (produzione dissimulata nell’attribuire poi all’argomento il valore di «dato», come contenuto della trattazione), al quale Antonin Artaud ha scelto di sottrarsi.

    Se, dunque, queste brevi immersioni nei sotterranei dei termini fin qui usati possono venire accolte; se esse, in qualche modo, fanno emergere la possibilità di guardare quali vie il divieto artaudiano tende a scorgere e ad occludere (rendendole impraticabili) o, quanto meno, a mobilitare (rendendole problematiche), non risulterà forse azzardato sintetizzare le ipotesi fin qui avanzate in questi termini:

    1)ogni discorso che miri a dire la verità del proprio argomento, produce in realtà tale argomento (o manipola la propria occasione) in termini di conferma adeguata a corroborare una verità (o schemi di verità) già data e altrove fondata;

    2)nel far questo, il discorso su da un lato si finge l’argomento come contenuto che in esso si esprime (per cui si dice che un discorso ha come «soggetto», appunto, il proprio argomento), dall’altro lo usa propriamente come esempio;

    3)in questa riduzione dell’argomento ad esempio, il discorso su, mentre sembra volersi comportare come una sorta di commentario (cioè come una sorta di cronaca, che lasci parlare il più possibile i «fatti» – ed è interessante, a questo proposito, pensare all’affaire Artaud e ai vari tentativi di biografia cronachistica, risultati poi lacunosi dal punto di vista cronachistico e inconsistenti da quello biografico), agisce in realtà come un commento che, mentre procede per note esplicative, va inventando (cioè trovando, ma producendole come tali) le prove favorevoli alla sua esplicazione e, così, porta gli esempi che costruisce;

    4)se dunque la riduzione dell’argomento ad esempio è l’agire proprio del discorso cui Artaud si sottrae (agire che lo caratterizza come pratica di commento o macchinazione di esempi), si può concludere, da un lato, che quelli che si erano chiamati discorsi intorno e discorso su mostrano la loro comune natura di commento, dall’altro, che il divieto artaudiano si specifica infine come rifiuto di lasciarsi commentare, o, indifferentemente, ridurre ad esempio.

    Commento critico e commento clinico: complicità e indifferenza

    Molte sono le ragioni per cui il discorso su Artaud si è sviluppato fondamentalmente in due direzioni: quella critica e quella clinica. Una di esse risulta però immediatamente evidente, dato che Artaud non fu semplicemente l’autore di un vasto numero di scritti, al quale rivolgere attenzione critica, ma fu un autore la cui vita, solcata dall’esperienza dell’internamento coatto¹⁶, irresistibilmente attraeva attenzioni cliniche (col che, una volta di più, il discorso su Artaud, in una direzione o nell’altra, riproponeva la propria istanza biografica). Così, mentre il discorso critico cercava di congiungere l’indagine degli scritti di Artaud con il valore di senso della sua esperienza vissuta, il discorso clinico guardava a tale esperienza come al percorso di manifestazione di una patologia psichica, cercando poi di coglierne le tracce nei medesimi scritti.

    Che potesse darsi un

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