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Il Sistema dei trasporti in Italia
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Ebook582 pages7 hours

Il Sistema dei trasporti in Italia

By AAVV

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Il volume non vorrà ricostruire una storia – avvincente sì, ma ben conosciuta – bensì dare di questa un'interpretazione diversa affinché si possa guardare al passato in modo più attivo e non da semplici spettatori passivi.
Perché compito d’uno studio storico, oggi, non è tanto far emergere nuovi documenti su determinate questioni – ve ne sono più che a sufficienza – bensì saper interpretare nel modo più variegato che sia possibile l’immenso materiale di cui disponiamo.

LanguageItaliano
Release dateNov 25, 2017
ISBN9788894373349
Il Sistema dei trasporti in Italia

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    Il Sistema dei trasporti in Italia - AAVV

    Il sistema dei trasporti in Italia

    © Arcadia edizioni

    I edizione, novembre 2017

    Isbn 978-88-943733-4-9

    È vietata la copia e la pubblicazione,

    totale o parziale, del materiale

    se non a fronte di esplicita

    autorizzazione scritta dell’editore

    e con citazione esplicita della fonte.

    Tutti i diritti riservati.

    Premessa

    Il lavoro di ricerca svolto nel reperimento del materiale relativo all’argomento sul sistema dei trasporti in italia, ha prodotto una folta documentazione composta da approfonditi e dettagliati volumi specifici, oltre ad articoli pubblicati su riviste specializzate.

    Sul tema in oggetto è stato detto quanto di più esaustivo fosse possibile in chiave storica e documentale, ed aggiungere elementi di novità – allo stato attuale della ricerca – è operazione complessa ed ardua; a meno di condurre un discorso – sempre di natura storica – sulla situazione dei trasporti in italia nel XXi secolo. operazione, quest’ultima, che richiederebbe una maggiore e meditata prospettiva temporale, oltre ad una documentazione relativa che, allo stato attuale, scarseggia.

    Tuttavia è stato interessante notare che ad una meticolosa dovizia di dettagli, in tutti gli studi manca una chiave di lettura dell’intera vicenda storica dei trasporti in italia.

    Si è quindi pensato di dare a questo volume uno specifico taglio strutturale, cercando di far vedere – attraverso la storia – quali considerazioni politiche, economiche e sociali hanno motivato, incentivato e determinato lo sviluppo del sistema nazionale delle reti di comunicazione.

    Del folto materiale reperito s’è badato, soprattutto, ad avanzare una chiave di lettura. questo perché, disponendo d’una numerosissima mole di documenti – per altro tutti ben dettagliati – sarebbe stato difficile, se non impossibile, far emergere qualcosa di nuovo se non nella maniera che ci siamo proposti. l’idea – che verrà fuori con maggior evidenza nel capitolo conclusivo del volume in oggetto, ma che nella presente relazione si anticipa – è che in italia è arduo, ancor oggi, discorrere d’un sistema dei trasporti.

    Aerei, navi, treni e strade si sono, sì, incontrati fra loro – nel tempo –, ma raramente hanno avuto opportunità di stringere fitte collaborazioni. in ciò consiste, a nostro avviso, il vero limite del complesso – e non sistema – dei trasporti in italia.

    A cosa si deve tutto ciò? al fatto che, in base al mutar dei periodi e degli evi, si è deciso di investire maggiormente su di uno specifico settore trasportistico tralasciando quanto precedentemente intrapreso; e ciò è avvenuto senza preoccupazione di rendere il servizio delle reti comunicative realmente funzionale ad un sempre più esteso uso pubblico.

    Il volume, come si può notare da questa prima parte che si acclude, è strutturato in capitoli, ciascuno dei quali suddiviso in paragrafi aventi per argomento: (i) la storia d’uno specifico settore dei trasporti; (ii) le normative principali e maggiormente significative che han dato luogo alle riforme del settore di cui si tratta. in appendice, si è pensato di riportare per intero le varie leggi e i diversi provvedimenti citati nel corso del corpus testuale. ciò per consentire di disporre d’un volume di utilità informativa ma, contemporaneamente, anche di rapida e pronta consultazione della normativa.

    Per quel che concerne l’antologia legislativa che si trova inappendice, mancandone una digitalizzazione a causa della quale si è rivelato impossibile il reperimento in rete, alcune leggi sono state riprodotte fotostaticamente ricorrendo alle fonti archivistiche classiche, ecco perché tali leggi risultano mancanti inappendice.

    Introduzione

    Ormai i trasporti, così come ciò che li consente – vale a dire le vie di comunicazione – ci appaiono qualcosa di scontato. Basta dare uno sguardo ad una cartina stradale per osservare quanto fitta sia diventata la rete che consente ad automobili e treni – per non parlare di aerei e navi – di percorrere lo Stivale da un capo all’altro con grande disinvoltura e per niente celata noncuranza.

    Ci si accorge di come fondamentale sia per la nostra vita il sistema dei trasporti nel suo complesso quando accade qualche catastrofe naturale e imprevedibile che impedisce ad una strada, o ad un tratto ferroviario, di essere utilizzati per raggiungere anche uno sperduto paesino nel bel mezzo di una zona montuosa (ci stiamo riferendo al recente ma emblematico caso di Norcia che, a seguito del tragico sisma accaduto alla fine del 2016, ha reso impraticabili le strade di montagna che, di curva in curva, conducevano davanti l’arco d’ingresso di quel delizioso borgo che diede i natali a San Benedetto e Santa Scolastica e che anticamente si chiamava Vetusta Nursia).

    In parole povere: se noi oggi abbiamo la possibilità e l’agio di poter considerare – mentalmente si intende – Milano e Palermo vicine e raggiungibili facilmente tanto quanto il giornalaio che si trova a pochi passi dalla nostra abitazione, ciò è dovuto alla grande facilità con cui Nord e Sud dell’Italia – senza escludere la Sicilia e la Sardegna – sono stati messi in contatto tra loro ed in modo via via nel tempo sempre più funzionale.

    Basti considerare che non più tardi d’un ventennio fa, sarebbe stato impensabile nonché improponibile trascorrere qualche ora a Torino e fare ritorno, nello stesso giorno, utilizzando un treno ad alta velocità con costi relativamente contenuti. Come ci si è arrivati?

    Certamente grazie ad una serie di iniziative economiche e politiche che hanno avuto come loro scopo principale quello di investire sui trasporti, perfezionandoli sempre più sotto il profilo tecnico, ma anche intensificando migliorando e creando ex novo le infrastrutture necessarie affinché si potesse viaggiare abbinando comodità con rapidità di spostamento da un luogo ad un altro.

    Cosa ha implicato tutto ciò e cosa implica? Si può dire che la risposta a questa domanda la si ritroverà, articolata in modo storico ed analitico, nelle pagine che seguiranno. Non sarà inutile, tuttavia, anticipare già da ora quale sia lo scopo del presente volume. Che, detto in parole povere, può essere sintetizzato così: mostrare l’evoluzione dei trasporti in Italia fino al tentativo non ancora raggiunto di costituirsi in un vero e proprio sistema.

    Con l’avvento della Seconda Rivoluzione Industriale, che diede il via a quella che definiamo èra contemporanea, le reti di comunicazione hanno conosciuto uno sviluppo sempre più crescente e massiccio. Questo mutamento storico-sociale ha coinvolto le forze politiche che si sono succedute nel tempo, le quali a loro volta hanno predisposto strategie economiche allo scopo di favorire la crescita e lo sviluppo del complesso trasportistico.

    Perché parlare di complesso e non di sistema? A rigor di logica ciò risulta inesatto. Ma è proprio perché parliamo a rigor di logica, e non per mere petizioni di principio, guardando all’Italia riteniamo sia più adatto parlare dei trasporti come ad un insieme che manchi di collegamento interno. Spieghiamoci meglio chiarendo, con un esempio, cosa intendiamo – in questa sede – per sistema.

    Atterrando in qualsiasi aeroporto metropolitano del mondo, la prima cosa che balza all’attenzione è la praticità con cui il centro cittadino sia facilmente e rapidamente raggiungibile mediante l’utilizzo dei mezzi pubblici – dai taxi alle linee bus e ferro-tramviarie. Ulteriore elemento che desta il nostro plauso e che ci compiace, è come ogni mezzo di trasporto pubblico sia ben integrato l’uno con l’altro. Non vi è preminenza di un’unica soluzione. Il cittadino, o il turista, che si trovano nella condizione di dover raggiungere l’altro capo della città per un appuntamento, possono scegliere tra più alternative senza correre il rischio di arrivare in ritardo. Ecco quindi che vedremo l’uomo d’affari o il viaggiatore montare su una metropolitana, scendere ad una fermata per prendere un autobus e, dopo due o tre soste e qualche metro percorso a piedi, prenotare la sua corsa su d’un taxi ed infine giungere in perfetto orario là dove s’era prefissato di arrivare. È da ritenere, questo, un mero caso isolato? Non lo crediamo affatto. Tutto ciò è praticabile e realizzabile purché ci sia a monte l’intenzione di integrare fra di loro le diverse tipologie di mezzi di trasporto che una città può offrire come servizi agli utenti – siano essi cittadini o visitatori d’occasione. Questa capacità di integrazione e puntuale funzionamento fra le parti è ciò che intendiamo come sistema riferendoci al contesto dei trasporti.

    Tralasciando un’inutile vis polemica che poco avrebbe di costruttivo, in Italia purtroppo ancora difettiamo di questa capacità di considerare ogni singolo aspetto come componenti di un congegno più grande che dovrebbero ben incastrarsi fra loro per garantire un ottimo funzionamento della macchina pubblica. Ciò è tremendamente evidente proprio nella questione relativa ai trasporti. Il perché del permanere di tale situazione emergerà in modo più chiaro dal percorso storico che le reti di comunicazione hanno conosciuto nel tempo e che rievocheremo.

    Non ci interesserà conoscere la storia e l’evoluzione dei trasporti in sé. È una questione ampiamente affrontata e con maggior dovizia di particolari oltre la quale sarebbe ormai impossibile andare. Ma intravedere quali disegni – politici, economici, lavorativi – sottesi alla nascita e allo sviluppo delle vie di comunicazione: questo sì, abbiamo ritenuto potesse essere interessante. E sarà il fil rouge sotteso all’intero volume.

    Ad un primo capitolo dove si parlerà di finanziamenti pubblici e di creazione di infrastrutture, di industrializzazione e reti di comunicazione e di trasporti e mondo del lavoro, seguiranno pagine dove sarà la storia – sub specie socio-politico-economica, si intende – dell’evoluzione delle ferrovie, delle strade, delle vie d’acqua e d’aria ad avere la preminenza, fino a giungere al capitolo conclusivo nel quale si tenterà di tirare le fila dell’intera trattazione, cercando di comprendere quale sia la reale situazione del complesso dei trasporti in Italia e se vi possano o meno essere margini di mutamento, oltre che di cambiamento.

    Le pagine che seguono non vorranno ricostruire una storia – avvincente sì, ma ben conosciuta – bensì dare di questa un’interpretazione diversa affinché si possa guardare al passato in modo più attivo e non da semplici spettatori passivi. Perché compito d’uno studio storico, oggi, non è tanto far emergere nuovi documenti su determinate questioni – ve ne sono più che a sufficienza – bensì saper interpretare nel modo più variegato che sia possibile l’immenso materiale di cui disponiamo.

    Al lettore spetterà il giudizio se questa nostra lettura sulla storia del complesso dei trasporti in Italia sia utile o meno.

    1. Trasporti e politica

    Sarebbe quanto di più sciocco al mondo considerare un processo storico come qualcosa di avulso dall’azione umana. La storia, come la si apprende dai manuali scolastici o dai libri che meglio ce la illustrano e raccontano, non è mero prodotto d’un destino che si incarna in eventi. Così come non è il risultato di una logica che tutto trascende e che gli studiosi possono tentare di interpretare basandosi su analisi di documenti da disporre in un certo ordine sul loro tavolino da lavoro. Se ciò fosse vero, mai avremmo sentito parlare di Giulio Cesare o Napoleone o di Hitler. Tutto sarebbe stato un grande ed immenso pannello che man mano si colora ed arricchisce di particolari.

    La storia è fatta da uomini: piccoli e grandi: insignificanti e fondamentali. È fatta da coloro che compiono azioni piccole destinate a cadere in un oblio senza fine, così come da chi intraprende gesta degne d’essere ricordate a dispetto del tempo che passa impietoso.

    Per questo è fondamentale cercare di comprendere, più che una successione cronologica di eventi – anch’essa importante, certamente – il pensiero che l’ha determinata. Quali le ragioni che hanno motivato – per fare un esempio – l’invasione della Polonia da parte della Germania nazista? Quali quelle che hanno giustificato la nascita dell’Unione Europea? E cosa vi fu alla base della costruzione, nel breve spazio d’una notte, del Muro di Berlino? E per venire alle questioni che più ci riguardano da vicino: cosa giustificò e consentì la nascita e lo sviluppo del sistema dei trasporti, così come lo conosciamo oggi, in Italia?

    È argomento, quest’ultimo, che ad occhi distratti può risultare banale. Ma non è così. Perché – ed è un ragionamento che raramente si incontra nei manuali di storia o in volumi specifici – quello dei trasporti è un punto nevralgico su cui poco si è riflettuto. Se le merci possono viaggiare da un capo all’altro dello Stivale e se noi possiamo raggiungere uno sperduto paesino nell’entroterra d’una qualsiasi regione facilmente quanto un capoluogo di provincia, ciò è dovuto alle reti di comunicazione – e ai loro mezzi – di cui oggi disponiamo. E se il sistema economico, nelle sue procedure e nei suoi meccanismi, può ritenersi unificato dal Nord al Sud dell’Italia (tralasciamo, almeno in questa sede, questioni relative alle differenze di benessere e di profitto esistenti in Italia e derivanti dall’economia) ciò è senza dubbio dovuto alla capacità che i trasporti hanno avuto e ricoperto nel corso dei decenni. È una storia, quindi, che merita d’essere ripercorsa.

    Ma prima di tutto, sarà bene domandarsi: perché la politica ha deciso di investire sui trasporti? E prima ancora: quali furono le novità in ambito economico che fecero da spinta propulsiva affinché essi diventassero parte integrante e protagonista della nostra storia?

    1.1 Verso una nuova economia

    Caduto Napoleone ed il suo Impero, che aveva messo rapaci mani anche sull’Italia, furono in molti a pensare che per noi vi sarebbe stato un florido periodo, soprattutto sul piano economico. Non a caso Vincenzo Dandolo esclamò entusiasticamente:I governi si sono riconciliati, migliaia di braccia sono ritornate alla gleba, a tutti è libera la navigazione; e tregua propizia veggiamo che anche il cielo accorda alla terra. Due anni soltanto, due anni soli quindi bastarono, perché, a malgrado di qualche irregolarità di stagioni, da per tutto si diffondesse un’abbondanza quasi senza esempio. Le cose, purtroppo, non andarono così.

    Nell’anno che va dal 1816 al 1817, le classi meno abbienti furono messe a dura prova per via d’una brusca impennata del prezzo del grano. Come se non bastasse, si aggiunse, nel 1818, un rapido tracollo a danno dei bilanci delle aziende agricole esistenti. Ciò fu dovuto anche al fatto che, per oltre un decennio, il costo dei prodotti principali dell’agricoltura – vale a dire olio e vino, in aggiunta al grano – scesero senza sosta, creando non poche difficoltà ai produttori. L’unico rimedio, nel tentativo di arginare questa catastrofe, fu di adottare misure di stampo protezionistico limitando il più possibile l’invasione di grano proveniente da altri paesi. In che modo? Inasprendo i dazi per le merci in entrata e facilitando, viceversa, le esportazioni delle nostre derrate alimentari. In aggiunta, a chi avrebbe incentivato la propria produzione, sarebbero stati concessi premi. In più si cercò di intensificare i prodotti maggiormente redditizi.

    Malgrado tali misure d’urgenza, fuggire dalla crisi in atto era quasi impossibile. L’intera agricoltura italiana – dal Piemonte alla Sicilia – si fondava su quei prodotti vittime del crollo dei prezzi.

    Alcune regioni furono tuttavia in grado di reagire alla situazione, oltre che attraverso pratiche di allevamento di bestiame, grazie anche alla coltura del riso e alla lavorazione della seta – ambito, quest’ultimo, che si collocava a metà via tra l’agricoltura e l’industria.

    Poiché la domanda di seta lavorata tese ad aumentare sempre più, le regioni lungimiranti – la Lombardia in particolare – non ebbero difficoltà ad iniziare ad impostare la loro economia su questo settore. Fu quindi intensificata la coltivazione del gelso e, di pari passo, l’impiantistica di fornelli per consentire la lavorazione di seta grezza e la sua esportazione verso quei paesi che ne facevano richiesta.

    Nonostante una domanda sempre più crescente, l’industrializzazione della seta incontrò molti ostacoli dovuti soprattutto alla mancanza di volontà, da parte dei governi, di eliminare le asperità in materia di esportazioni impedendo, così, un’apertura notevole verso i mercati esteri. Unica nota positiva di questa tendenza conservatrice della politica d’allora, fu di garantire ai produttori locali adeguati rifornimenti di materia prima necessaria al funzionamento delle strutture industriali.

    Fu, però, ormai evidente che un’economia basata sull’agricoltura non sarebbe più stata percorribile. Un cambiamento di rotta si rendeva necessario. Cambiamento che iniziò già intorno agli anni Trenta dell’Ottocento. Si registrano, proprio in questo periodo, le prime esperienze industriali italiane basate su moderne tecnologie.

    Ad esempio, nella zona Nord-Occidentale, in alcuni distretti del Veneto, nell’area intorno a Firenze e perfino in ristretti territori del Mezzogiorno si svilupparono lavorazioni artigianali e unità produttive che possedevano, così strutturate com’erano, moltissime affinità col concetto di fabbrica moderna allora in voga.

    Alcuni insediamenti industriali si ebbero già a partire dalla seconda metà del Settecento, a Milano, con la creazione di un’industria serica – la Pensa e la Lorla – dove si contavano ben 210 operai. Ma fu soprattutto durante la restaurazione che avvennero cambiamenti significativi, in particolare in quello che sarebbe poi divenuto il triangolo industriale. Quindi, accanto alla lavorazione meccanica della lana – nel biellese –, in Piemonte e in Lombardia fiorirono industrie per la filatura e la tessitura del cotone.

    Nel medesimo periodo prese piede l’industria meccanica, a Genova, con l’Ansaldo, il cantiere della Foce, l’arsenale; a Milano con l’Elvetica e la Grondona e a Como con la Regazzoni.

    Anche il settore metallurgico iniziò a fiorire, specie grazie al figlio di Giovanni Enrico Falk che avrebbe fondato a Sesto San Giovanni le Acciaierie e le Ferriere Lombarde. Fra Piemonte e Lombardia si delineò un compatto profilo economico di natura prettamente industriale ed in sensibile crescita.

    In altre zone d’Italia mancò questa capacità di integrazione tra le varie iniziative che, pur lodevoli nei propositi, ebbero il limite di essere isolate le une rispetto alle altre. La fonderia del Pignone in Toscana, le ferriere della Mongiana in Calabria, le officine meccaniche di Pietrarsa, le industrie cotoniere in Campania: furono tutte esperienze incapaci di agire come centri propulsori per una moderna crescita industriale.

    Malgrado queste resistenze, era ormai impossibile non andare avanti. Ai politici del tempo si propose la sfida di accompagnare l’Italia verso un cambiamento radicale che dall’economia si sarebbe esteso a modi e stili di vita e perfino alle future attività di governo. Non accoglierla sarebbe stato un atto, oltre che di profonda viltà, anche di incomprensibile insensatezza.

    1.2 Una nuova politica per una prospettiva nazionale

    Si può dire che la storia dei trasporti in Italia cominci a partire dalla situazione che abbiamo tentato di delineare, per vie generali, nel paragrafo precedente. Ma prima di entrare nel vivo dell’argomento, resta da comprendere perché la politica italiana fra Ottocento e Novecento decise di investire proprio sui trasporti.

    Per rispondere a questo interrogativo, basta dare uno sguardo al censimento risalente al 1861 dal quale si evince che: su una popolazione attiva di 11 milioni e mezzo di persone, quasi 7 milioni risultavano ancorati al mondo rurale e almeno 2 milioni dispersi in un pulviscolo di attività artigianali legate al mercato locale.

    Ciò che il censimento poneva in luce, era la profonda assenza di un sentimento di nazione fra la gente. Per di più – e riprendiamo le parole di quel geniale economista che fu Carlo M. Cipolla –la stragrande maggioranza della popolazione era costituita da contadini, piccoli proprietari, mezzadri, artigiani, domestici, rivenditori al minuto, ai quali si affiancavano un sottile strato di possidenti, un ristretto manipolo di liberi professionisti, piccoli gruppi di operai concentrati in pochi distretti industriali e i primi esponenti di una borghesia produttiva che stentava a prendere la testa del processo di sviluppo.

    Di questa situazione altamente frammentaria, anche e soprattutto sotto il profilo economico, la politica doveva prendere atto. Lasciare ampia libertà di iniziativa, senza offrire linee guida a cui attenersi, avrebbe avuto come sola conseguenza quella di creare una serie di poli, più o meno industrializzati e più o meno floridi, il cui unico scopo sarebbe stato di migliorare la propria situazione senza considerare l’economia generale.

    Alle guerre di indipendenza ed alla proclamazione dell’Unità nel 1861, dovevano necessariamente seguire iniziative politiche in grado di infondere quel sentimento di nazione che, purtroppo, mancava.

    Non era solo questione di istruzione e di cultura. Si trattava di offrire un’immagine dell’Italia in grado di saper armonizzare le varie differenze esistenti dal Piemonte alla Sicilia.

    In aggiunta a questa situazione, la politica di allora dovette prendere atto anche dei profondi cambiamenti che la rivoluzione industriale portò nella società. Sempre più ampie fette di popolazione dai campi prese a trasferirsi nei pressi dei poli industriali. La terra, come visto, non garantendo più quel sostentamento necessario a mantenere le famiglie, fu abbandonata a favore dell’industria. Anche se in fabbrica le condizioni lavorative erano ai limiti d’ogni diritto umano, un operaio aveva comunque l’opportunità di disporre di guadagni immediati a fine mese senza dover attendere la compravendita dei prodotti agricoli.

    Insediamenti di popolazione sempre più ampi nelle vicinanze delle zone industrializzate diedero vita a poli urbani in costante crescita. Nacquero così le prime città dell’età contemporanea. E di pari passo iniziò un cambiamento di mentalità fra la gente.

    Perfino il rapporto tra individuo e sfera religiosa registrò un sensibile mutamento. È quello che molti storici definiscono col termine secolarizzazione, ovvero la capacità di vedere la Chiesa non più come entità di natura metafisica in grado di mediare fra il Cielo e la Terra, rendendo accessibili ai comuni mortali le volontà divine, bensì come un’istituzione separata dallo stato e dotata di sue leggi e di propri meccanismi.

    Dilungarsi su tutti i cambiamenti conseguenti all’industrializzazione richiederebbe troppo tempo ed esulerebbe dal compito del presente volume. È fondamentale comprendere che agli amministratori del tempo spettò l’arduo compito di connettere, in un unico insieme, tutte le trasformazioni in atto. Compito che non avrebbero mai potuto ignorare.

    Ma ci voleva un elemento in grado di impattare sull’opinione comune in termini diretti ed immediati, comunicando un’idea di Nazione e di unità. I vari regni dell’Italia, pur restando ancora distinti tra loro, dovevano essere ben collegati. Ciò avrebbe consentito anche un consolidamento del neonato sistema industriale. Le fabbriche sorte in Lombardia in Toscana e nel Meridione, non avrebbero più prodotto per le loro economie locali, bensì per l’Italia. E il mezzo con cui si tentò di realizzare questo ambizioso disegno fu l’incentivazione del sistema dei trasporti. Decisione, questa, di natura prettamente politica.

    Si volle offrire agli occhi stranieri un’idea dell’Italia diversa da com’era stata in precedenza. Non più un luogo che potesse essere invaso e dominato a piacere da chi lo desiderava. Bensì una nazione che, seppur appena nata, iniziava ad acquisire consapevolezza di se stessa e di un suo possibile ruolo futuro, sia sul piano politico che istituzionale.

    Nella mente degli uomini di governo del tempo prese pian piano piede un’immagine: quella delle varie realtà locali che entravano in collegamento le une con le altre grazie ad una fitta rete di ferrovie e strade facilmente percorribili. Fra le città e i piccoli agglomerati urbani non sarebbero più dovute esistere difficoltà di comunicazione.

    Dobbiamo fare lo sforzo di immaginare la cartina dell’Italia come una tabula rasa che man mano si infittisce ora d’una strada, ora d’un binario, ora d’un ponte, ora d’una locomotiva. E persone e merci che, grazie a mezzi ed infrastrutture sempre più accurati, raggiungono qualsiasi destinazione con gran disinvoltura.

    Il modo con cui si tentò di realizzare tutto questo nel corso dei decenni, e per oltre un secolo e mezzo, fu il risultato di decisioni politiche non facili da prendere.

    Come vedremo, la storia dei trasporti non sarà solo un aleph da cui osservare limiti e pregi d’un popolo e di una classe dirigente nel tempo. Sarà anche l’occasione per tentare di comprendere come e perché alcune questioni tutt’ora all’ordine del giorno – una fra tutte: il divario di benessere fra Nord e Sud – non siano mai state risolte malgrado i tentativi fatti.

    2. Le ferrovie

    Perché cominciare dalle ferrovie? Perché hanno rappresentato, per l’Italia in particolare, l’occasione di concentrare le politiche finanziarie sul sistema dei trasporti.

    Come si avrà modo di vedere, il treno fu simbolo non solo di progresso economico, ma divenne un’opportunità di apertura nazionale sul resto del mondo. Per creare qualcosa che non c’era, i politici del tempo si ispirarono a realtà esterne – l’Inghilterra in particolare, essendo stata la prima nazione europea a mettere sui binari la locomotiva a vapore – e approfittarono degli apporti scientifici provenienti da ingegneri e tecnici stranieri.

    Ma l’insieme delle realtà e delle riforme attraverso le quali amministrare e gestire la nascita, lo sviluppo e il mantenimento del futuro sistema ferroviario, non ebbe risvolti sereni.

    Proposte ed idee per un lancio del treno quale elemento principe dei sistemi di trasporto, dovettero scontrarsi con interessi locali motivati soprattutto da diffidenze e miopia politica.

    E quando parve che la ferrovia avrebbe ricoperto un ruolo centrale e di avanguardia per l’economia e la società italiane, ecco che l’interesse fu rivolto alla strada ed alle automobili.

    Vediamo di ripercorrere le fasi di questo tortuoso cammino.

    2.1 Breve storia delle ferrovie

    Le ferrovie furono viste dapprincipio come un’occasione opportunistica piuttosto che di progresso economico e tecnologico. Si può dire che ne venne incentivata la costruzione per meri interessi personali – collegare i centri cittadini con le campagne per far sì che i sovrani raggiungessero facilmente le loro residenze per la villeggiatura. Ma fu pur sempre un inizio.

    Da subito di dovette fare i conti con due ordini di difficoltà: dove reperire il materiale per l’edificazione delle infrastrutture – le strade ferrate, come si chiamavano un tempo –? E da chi prendere il carbon fossile per consentire alle locomotive di viaggiare? A questo si aggiunse un ulteriore intralcio: la conformazione territoriale dell’Italia che rendeva ancora più complicato lo sviluppo d’una rete ferroviaria paragonabile a quella già in essere nelle altre nazioni d’Europa.

    Tutto ciò fece considerare il treno adatto ad essere utilizzato più per il trasporto dei passeggeri che per quello delle merci. Non va dimenticato che la nuova economia si basava sulle industrie, e l’unico modo per mettere in relazione tra loro le varie realtà aziendali, creando così un sistema produttivo nazionale, sarebbe stato quello di utilizzare un buon sistema ferroviario.

    Malgrado un contesto che tendeva a scoraggiare più che incentivare ogni iniziativa, cominciarono a giungere proposte per la costruzione di tratti ferroviari. La prima di cui si ha memoria risale al 1835 per la creazione della linea Milano-Venezia.

    L’anno successivo, l’ingegnere francese Armand Bayard de la Vingtrie avanzò al re del Regno delle Due Sicilie la richiesta di un permesso per costruire una strada ferrata che da Napoli conducesse a Nocera e a Salerno, ed una linea appenninica che da Manfredonia giungesse sull’Adriatico. Il re non ci pensò due volte: diede il permesso e anche la possibilità, per il lungimirante ingegnere proveniente dalla Francia, di usufruire per ben novantanove anni dei vantaggi economici derivanti dalla sua impresa.

    Si può dire che il primo vero progetto pioneristico lo si ebbe in Lombardia, quando Giuseppe Bruschetti e Giovanni Volta (figlio del celeberrimo Alessandro) proposero la costruzione della linea Milano-Como. E poiché le buone idee sono contagiose come le malevole, ecco giungere, l’anno successivo, dalla ditta Holzhammer di Bolzano un progetto di costruzione per la linea ferroviaria Milano-Monza. E sempre dello stesso anno, è la proposta di edificazione della linea Firenze-Livorno da parte dei banchieri Pietro Senn ed Emanuele Fenzi.

    Tra il 1840 e il 1846 si inaugurarono molti tratti ferroviari: Milano-Monza, Padova-Mestre, Napoli-Cancello-Caserta, Pisa-Livorno, Portici-Torre Annunziata-Castellammare di Stabia, Capua-Caserta, Pisa-Pontedera e il ponte ferroviario Mestre-Venezia, che consentì alla magnifica città lagunare di non essere più una realtà isolata e a se stante.

    Tutto ciò non fece che attirare l’attenzione di molti. Le ferrovie iniziarono ad essere interpretate, oltre che come simbolo di progresso, anche come occasione che l’Italia avrebbe fatto bene a cogliere al volo per tornare a ricoprire un ruolo da protagonista a livello internazionale.

    Si pensi solo a quello che affermò Cesare Balbo, secondo il quale la locomotiva avrebbe avuto un ruolo imprescindibile per il raggiungimento dell’indipendenza nazionale.

    Per non parlare del Conte Carlo Ilarione Petitti di Roreto, che non lesinò un volo molto più audace di quello di Icaro, affermando che grazie alle ferrovie l’Italia sarebbe tornata ad essere un ponte – strategico-logistico, ma anche culturale – fra l’Europa ed il più vicino Oriente.

    Per Camillo Benso conte di Cavour le strade ferrate furono un’opera paragonabile solo alle vie consolari costruite dai romani. Null’altro avrebbe potuto reggere il paragone. Né vi sarebbe stato mezzo differente per abbattere le barriere fra i popoli.

    Come non entusiasmarsi di fronte a simili affermazioni? E come non tentare di realizzare tali prospettive evocate ed auspicate? Si diffuse il germe di quella che possiamo chiamare, prendendo in imprestito una terminologia anglosassone, la railway mania.

    Fra il 1849 e il 1860 vi fu un fermento di lavori per promuovere la ferroviarizzazione del Piemonte,

    le cui linee – nota Carlo M. Cipolla – in attività giunsero in pochi anni a eguagliare e superare quelle di tutti gli altri stati italiani messi assieme, [ed] avviò – Cavour, allora divenuto Capo del Governo dopo essere stato Ministro – nel ’57, i lavori per il traforo del Frejus, il primo grande tunnel alpino, opera, per l’epoca, veramente ciclopica. Alcuni tra i più grandi imprenditori inglesi di lavori ferroviari, come Thomas Brassey, vennero attratti da condizioni contrattuali interessanti e insegnarono agli imprenditori locali a operare e rischiarein grande. Ai tecnici piemontesi più preparati (come gli ingegneri Mosca, Negretti, Carbonazzi, e poi Ranco, Grandis, Sommeiller e altri ancora) si affiancarono tecnici famosi provenienti da Oltralpe (come il belga Maus) o da altri stati italiani, esuli in Piemonte dopo il 1848-49 per ragioni politiche (come il lombardo-veneto Paleocapa). La sprovincializzazione del Piemonte, tenacemente perseguita da Cavour, si attuava in tal modo rendendonazionale einternazionale una politica che in questo – emblematicamente d’avanguardia – come e anche più che in altri campi, riusciva ad attirare e concentrare sul e nel piccolo stato simpatie e volontà di progresso erivoluzione. Se ne sarebbero colti i frutti di lì a poco, tra il ’59 e il ’60, con l’unificazione attorno al Piemonte, politica ed economica, di gran parte della penisola.

    Ma anche gli altri stati italiani non furono da meno. Basti pensare che i chilometri di ferrovie attive, da 2773 nel 1861 – l’anno dell’Unità Nazionale – passarono ad essere ben 6710 nel 1871. Dieci anni dopo, divennero 9506 e nel 1891 ben 13.964. Si arrivò al 1914, ovvero alle soglie della Prima Guerra Mondiale, ad avere sul territorio nazionale ben 19.125 chilometri di tratti ferroviari attivi.

    Qual è, però, il lato nascosto di questa medaglia? Ci arriveremo a breve (vedi paragrafi 2.2. e 2.3.). Basti per ora affermare che una simile impresa, compiuta in così poco tempo, non fu esente da una serie di problemi di ordine economico che i vari governi dovettero affrontare e cercare di risolvere per non mandare in malora un tale patrimonio da poco messo in piedi.

    Le difficoltà di gestione del neonato sistema ferroviario, a fasi alterne, perdurarono fino all’avvento del Fascismo – quindi siamo già negli anni ’20 del Novecento – la cui politica fu di natura totalmente opposta a quella praticata dai governi precedenti.

    In parole povere: se in precedenza si tentò di raggiungere un equilibrio fra gestione pubblica e privata, con Benito Mussolini il sistema ferroviario – e quello dei trasporti pubblici tout court – passò sotto il diretto controllo dello Stato. Contemporaneamente, però, si registrò un sensibile calo di interesse, da parte della politica fascista, nei confronti del treno come mezzo di trasporto principale su cui investire in termini economici e politici.

    Va tuttavia riconosciuto al fascismo il merito di aver impiegato ingenti investimenti, soprattutto nell’attuazione delle linee a scorrimento veloce – le direttissime, progettate e iniziate prima dell’avvento del fascismo – che ebbero un impatto profondo sull’opinione pubblica, e nel miglioramento dei tratti ferroviari esistenti: basti pensare che se nel 1923 si avevano 3640 chilometri di linee a doppio binario, nel 1940 si raggiunsero i 4570 chilometri.

    E non va tralasciata la costruzione della ferrovia per San Pietro, a seguito della stipula dei Patti Lateranensi, e consegnata alla Città del Vaticano nel 1934 – solo cinque anni di lavoro: un record per l’epoca.

    In sostanza:

    Il regime – afferma Stefano Maggi – considerava… i treni come un’importante vetrina in grado di dare una visione positiva del fascismo… Furono pure istituiti convogli di lusso, come il Milano-Sanremo-Nizza… e il Gotthard Express, che dal 1927 iniziò a unire Zurigo con Milano.

    Si può dire che fino alla metà degli anni ’20 il trasporto ferroviario non conobbe contrazioni significative. Passeggeri e merci si spostavano con grande disinvoltura in treno, e non solo sul territorio nazionale.

    Tuttavia questa condizione di stabilità e di possibile sviluppo – anche se quest’ultimo aspetto era latente e molto al di là dal concretizzarsi – dovette fare i conti col 1929: anno giustamente ricordato come quello della Grande Crisi economica che investì tutto il mondo. E l’Italia non ne fu immune.

    Il trasporto ferroviario, oltre ad una situazione finanziaria difficile dovuta soprattutto a fortissimi disavanzi nel bilancio di esercizio delle Fs, dovette fronteggiarsi con un nemico col quale mai avrebbe ipotizzato di fare i conti: vale a dire gli autotrasporti.

    L’insieme di questi due fattori – crisi economica e sviluppo dei trasporti su strada (o su ruote gommate, come suol dirsi) – ebbe come conseguenza un disinteresse vieppiù crescente, da parte del governo fascista, nei confronti delbinario quale rete di comunicazione prìncipe dell’Italia.

    Anche se si tentò una risposta in termini di miglioramento delle vetture e della loro velocità – furono messe in atto agevolazioni finanziarie per le merci che avrebbero viaggiato in treno; per i passeggeri vennero inventati treni leggeri e sulle vie secondarie furono utilizzate locomotrici a combustione interna (le leggendarie Littorine) dotate persino di una testata aerodinamica –, tutto questo non bastò. Lo scoppio della Seconda Guerra Mondiale non fece che peggiorare una situazione, ormai, in inevitabile declino.

    Nel Dopoguerra e negli anni della ricostruzione – per non parlare, poi, del periodo che denominiamo di boom economico – la storia del sistema ferroviario italiano non è che narrazione d’una partita persa contro le strade e i mezzi che su di essa viaggiavano e viaggiano: gli autoveicoli.

    Come esperimento in extremis, si tentò di privilegiare le grandi distanze piuttosto che i tragitti piccoli e medi. Ed ecco quindi che inizia a prendere piede la costruzione di treni in grado di percorrere chilometri e chilometri a velocità sostenuta – chi non ricorda i famosi Arlecchino e Settebello? –: ma anche questo non bastò. I costi di realizzazione risultarono essere superiori rispetto ai ricavi. Sia le merci che i passeggeri tesero ad abbandonare il treno e ad utilizzare sempre più gli autoveicoli per spostarsi.

    Inoltre, sul piano tecnico, malgrado ogni tentativo messo in opera per cercare di stare al passo coi tempi – oltre alla già citata alta velocità, va tenuto conto anche della crescente elettrizzazione del sistema ferroviario – l’Italia, rispetto all’Europa, risultò comunque arretrata.

    La Fs non riuscì a fronteggiare e a gestire in maniera adeguata tutta questa situazione. Fu, anzi, al centro di numerosi dibattiti in Parlamento, poiché ci si rendeva conto della necessità di un cambiamento della struttura aziendale interna che – e va evidenziato per far comprendere il profilo generale della situazione – dal 1924, e per tutto il Dopoguerra e negli anni del boom, non si ebbe alcun cambiamento degno d’essere menzionato.

    Fu tra gli anni ’70 e ’80 che tornarono ad esserci dei rinnovamenti. Ma poiché si tratta di questioni relative ad attività amministrative e a riforme poste in essere per migliorare lo status quo, ne parleremo a breve nel paragrafo dedicato all’argomento (vedi par. 2.3).

    Per ora basti sapere che: a metà degli anni ’80 il parco rotabili – ovvero l’insieme dei treni (vagoni e macchine locomotrici) rimase pressoché invariato al 1940 – all’entrata in guerra dell’Italia! – e sui binari viaggiavano ancora esemplari di treni che risalivano persino agli anni Trenta. Per recarsi da Roma a Milano ci volevano ben sei ore e cinque minuti. Bisognava proprio esser miopi per non comprendere che la situazione, giocoforza, doveva cambiare. Ma in cosa, esattamente?

    La velocità: era impensabile perdere del tempo immane – sia sul piano commerciale che per i passeggeri – per raggiungere una città. Ecco allora fare il suo ingresso, nel 1974, il leggendario Etr 400: il Pendolino. E val la pena di ricordarlo, perché fu l’ultima grande invenzione, realmente innovativa, che il nostro sistema ferroviario conobbe. Il Pendolino possedeva un assetto variabile che gli consentiva di percorrere ad alta velocità anche le curve, inclinandosi verso l’interno in maniera tale da attutire la forza centrifuga.

    Ma malgrado l’interesse che inizialmente suscitò – in Italia e all’estero – il progetto fu di fatto abbandonato per un decennio, fin quando non venne ripreso a metà degli anni ’80 con la creazione di modelli più evoluti, ovvero l’Etr 450-480.

    Gli ultimi periodi, fino ad arrivare ai nostri giorni, sono caratterizzati dall’intensificazione di infrastrutture al fine di migliorare e potenziare l’alta velocità. Per le nuove linee da costruire, fu adottato il modello del project financing, in base al quale il 60% degli oneri finanziari risultava a carico del capitale privato in un’apposita società per il Treno ad alta velocità, la Tav. Società che, pur presentandosi in modo innovativo, in realtà aveva le medesime caratteristiche delle prime imprese ferroviarie ottocentesche. Si trattò né più né meno che di una ennesima forma di gestione mista tra lo Stato e i privati. Esperimento che non diede mai alcun risultato positivo.

    Fu per questa ragione che nel 1998 la Tav passò sotto il pieno controllo di Fs ed il finanziamento per la costruzione delle nuove linee veloci tornò interamente nelle mani dello Stato.

    La situazione, tuttavia, non fu ugualmente tranquilla perché ci si dovette scontrare

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