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A morte il tiranno
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A morte il tiranno

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Chissà quanti esseri umani, negli ultimi settant’anni, hanno fantasticato di avere una macchina del tempo per uccidere Adolf Hitler prima che potesse prendere il potere e procurare tanta morte e sofferenza. Eppure nella Germania nazista ben pochi ritennero più giusto ribellarsi che obbedire. Due grandi scrittori come Henry David Thoreau e Lev Tolstoj teorizzarono la necessità della disobbedienza al potere dove corrotto e male esercitato, a patto che non si ricorresse alla violenza. Ma, dall’antichità greca e romana ai nostri giorni, molti importanti pensatori, dai santi Tommaso d’Aquino e Thomas More a Vittorio Alfieri e Benjamin Franklin, hanno invece ritenuto legittimo ribellarsi, anche con l’uso della forza, ai tiranni.

Matteo Cavezzali, che ha già indagato i meccanismi del potere e della giustizia in due libri acclamati dalla critica (Icarus. Ascesa e caduta di Raul Gardini e Nero d’inferno), racconta e analizza le storie di donne e uomini che decisero di liberare il mondo da quelli che, a loro giudizio, erano mostruosi tiranni: i congiurati contro Cesare, Gaetano Bresci, i rivoluzionari francesi, Violet Gibson e Georg Elser che tentarono di uccidere Mussolini e Hitler, fino alla vera storia di Guy Fawkes che ha ispirato la maschera di V per Vendetta poi ripresa dai manifestanti di Anonymous . In A morte il tiranno, legato all’omonimo podcast di Storielibere.fm, le storie di tirannicidi riusciti o mancati diventano il modo per riflettere sulle strutture sociali, le psicologie uniche e irripetibili, le conseguenze imprevedibili delle azioni umane. Un libro che sorprende e cattura il lettore con vicende indimenticabili mentre pone molte domande fondamentali tra cui quella che apre il libro: “perché obbediamo al potere?”.
LanguageItaliano
Release dateOct 28, 2021
ISBN9788830530607
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    Book preview

    A morte il tiranno - Matteo Cavezzali

    Introduzione

    Storie di disobbedienza e di coltelli

    Quando il mondo scoprì gli orrori dell’Olocausto, lo sconcerto per i crimini compiuti dai nazisti fu senza precedenti. Insieme allo sdegno però si levò anche una domanda: perché nessuno, durante tutti quegli anni, osò ribellarsi? Perché nessuno fermò Hitler e la sua opera di sterminio? Perché il grosso del popolo tedesco eseguì i suoi ordini ciecamente, senza opporsi?

    La filosofa tedesca ed ebrea Hannah Arendt, nel seguire il processo al criminale nazista Otto Adolf Eichmann svoltosi nel tribunale di Gerusalemme, rimase sorpresa da un fatto: non si trattava di una persona malvagia, come si sarebbe aspettata, o come avrebbe sperato, era solo un grigio funzionario privo di emozioni. Quel che ora penso veramente è che il male non è mai ‘radicale’ scrisse ne La banalità del male, ma soltanto estremo, e che non possegga né profondità né una dimensione demoniaca. Esso può invadere e devastare il mondo intero, perché si espande sulla superficie come un fungo. Esso ‘sfida’, come ho detto, il pensiero, perché il pensiero cerca di raggiungere la profondità, di andare alle radici, e nel momento in cui cerca il male, è frustrato perché non trova nulla. Questa è la sua ‘banalità’.

    Perché l’essere umano accetta di obbedire al potere anche quando si accorge di star compiendo un’azione disumana?

    Una risposta la fornì lo psicologo sociale Stanley Milgram: perché l’essere umano tende a obbedire, senza farsi tante domande. Per dimostrare questa teoria, nel 1961 Milgram condusse un esperimento in cui alcuni volontari, in forma anonima, erano chiamati a partecipare a un test dalle modalità e finalità a loro ignote. L’esperimento consisteva nel far torturare al volontario un perfetto sconosciuto, senza alcun motivo.

    I volontari, convinti di dover partecipare a un esperimento sulla memoria, furono arruolati tramite un annuncio sul giornale.

    Così lo raccontò lo stesso Milgram:

    "Ai 40 partecipanti viene detto che la sorte deciderà chi dovrà subire le punizioni: si trovano quindi ad uno ad uno in coppia con il complice contabile, che finge di essere un partecipante alla sperimentazione. Estraggono entrambi un bigliettino da un cappello, e tutti si ritrovano a fare la parte dell’insegnante, mentre il complice estrae sempre il ruolo della vittima. In entrambi i bigliettini era scritto ‘insegnante’.

    "In una stanza attigua, il contabile viene fatto posizionare su una finta sedia elettrica, legato al fine di evitare movimenti improvvisi durante le scosse. Infine, vengono posizionati gli elettrodi. Prima di iniziare, il professore di biologia in incognito rassicura i partecipanti: anche se le scosse possono essere estremamente dolorose, non causeranno danni permanenti.

    "Ai partecipanti viene fatta provare una carica da 45 volt, per consolidare la verosimiglianza dell’apparecchiatura.

    "I compiti, presentati in ordine crescente di difficoltà, sono relativi all’apprendimento di alcune parole. Prima di azionare il generatore, viene detto ai soggetti di comunicare alla vittima il voltaggio prescelto. Durante la prova, lo sperimentatore istruisce i partecipanti su come partire dando scariche di 15 volt e aumentare gradualmente ad ogni risposta errata.

    Al raggiungimento dei 300 volt si sente un colpo provenire dalla stanza dove si trova la vittima. Da questo momento in poi, la vittima non fornirà più alcuna risposta alle domande dei soggetti.

    Quando le scosse si facevano talmente forti da spingere il soggetto nei panni della vittima a urlare disperatamente, ai volontari veniva il dubbio se continuare o no, e chiedevano delucidazioni.

    La frase usata dallo scienziato per convincere il soggetto a proseguire era semplice: «Per favore, vada avanti. L’esperimento richiede che lei vada avanti. È assolutamente necessario che lei proceda. Non ha scelta, deve andare avanti». Tutto qui. Lei deve continuare a torturare questa persona, anche se sente che è sbagliato, perché deve.

    Milgram stabilì che solo in cinque si sarebbero fermati prima di una scossa fatale.

    Queste furono le conclusioni di Milgram:

    L’obbedienza è uno degli elementi fondamentali della struttura della vita sociale. Ogni forma di vita collettiva si basa su un sistema di autorità: solo chi vive in isolamento completo non è costretto a sottomettersi o a ribellarsi a ordini esterni. È il meccanismo psicologico che lega azione individuale e fini politici. È il meccanismo psicologico che unisce uomini e sistemi di autorità.

    Insomma chi vive in una società ha solo due scelte: sottomettersi alle autorità, e vivere serenamente, oppure ribellarsi, pagandone le conseguenze.

    Quanti di voi avrebbero rischiato la vita per ribellarsi a Hitler, a Mussolini o a un qualsiasi altro dittatore o monarca, avendo la certezza di perdere lavoro, famiglia, amici e probabilmente anche la vita?

    Come scrisse lo scienziato Charles Percy Snow, sono stati commessi crimini terribili in nome dell’obbedienza, in misura maggiore di quanti ne siano stati commessi in nome della ribellione.

    Nel 1849 il filosofo Henry David Thoreau, nel pamphlet Disobbedienza civile, scrisse che gli uomini si autoingannano per amor di comodità. Obbedire è più facile che disobbedire, perché la coscienza può sempre far ricadere la colpa delle proprie scelte (anche obbedire è una scelta) su qualcun altro. Thoreau, che era un pensatore radicale e anarchico, aggiungeva che anche il semplice gesto di votare non è sufficiente ed è un modo per addossare le colpe di un intero popolo a un gruppo ristretto di governanti. Nemmeno esprimere un’opinione è sufficiente, bisogna agire: Se il vostro prossimo vi truffa anche per un solo dollaro, non vi accontentate di constatare che siete stati truffati, o di dire che siete stati truffati, e neppure di chiedergli quanto vi spetta, ma fate subito passi concreti per ottenere l’intera somma, e cercate di non lasciarvi mai più imbrogliare.

    Come agire contro le ingiustizie è una delle grandi questioni della società umana. Il mezzo democratico è quello del sistema giuridico: chi compie un crimine contro un’altra persona viene condannato. Se però è il governo stesso a perpetrare il crimine chi lo giudicherà? Se il governo è una dittatura, come si può pretendere che sia giusto?

    A questa domanda non tutti i pensatori, nel corso della Storia, hanno risposto allo stesso modo.

    Lev Tolstoj, per esempio, scrisse che gli anarchici hanno ragione in tutto, solo non ne hanno nell’uso della violenza, e quando Gaetano Bresci uccise Umberto I condannò sui giornali il suo gesto. Come è possibile che quell’organizzazione di persone – di anarchici, come si dice oggi – che ha mandato Bresci, e che continua a minacciare altri imperatori, non sappia escogitare nulla di meglio, per migliorare la condizione della gente, se non l’assassinio di coloro la cui eliminazione può risultare altrettanto utile quanto il tagliar la testa a quel mostro delle fiabe, a cui al posto della testa tagliata ne ricresce subito un’altra?

    Tolstoj era contro la violenza, sia quella dei singoli sia quella dello Stato. Ebbe a scrivere della Russia zarista: Tutta l’opera dei tribunali è fatta soltanto di azioni insensate e crudeli. Per poi aggiungere poco dopo che il generale, protagonista del romanzo, aveva fatto carriera guidando un reparto di contadini russi coi capelli rasati, in uniforme militare, e armati di fucili con le baionette, aveva ucciso più di mille uomini che difendevano la loro libertà, le loro case e le loro famiglie. Re, imperatori e zar erano spesso furfanti, infantili, stupidi e bugiardi, da sempre dediti specificamente all’assassinio, tanto d’averne fatto ormai la loro professione. Per lui però la soluzione non era uccidere il tiranno, perché, come recita il Vangelo: Tutti quelli che prenderanno la spada periranno di spada (Matteo 26:52). Ai suoi occhi insomma la violenza alimentava la repressione e giustificava l’uso che il monarca o il dittatore faceva della violenza stessa. Per Tolstoj, come per Thoreau, la soluzione era la disobbedienza, ovvero una lotta pacifica espressa in proteste come il rifiuto di entrare nell’esercito o quello di pagare le tasse a uno Stato che non si riconosce come legittimo.

    Non tutti però sono così razionali.

    Cosa spinge una persona ad alzarsi una mattina e a dire: «Oggi voglio provare a cambiare davvero le cose, anche a costo della mia stessa vita»?

    Dietro una tale risoluzione c’è sempre una giusta e nobile causa? Ovviamente no. Ma quella persona, mentre si dice quelle cose, è convinta di sì. A volte si tratta dell’indipendenza di una nazione da una potenza straniera; altre volte di una ribellione sociale contro un sistema di potere; altre volte ancora della rivendicazione dei diritti di una minoranza religiosa; a volte, infine, solo del desiderio di compiere un gesto eclatante.

    Dietro questi impulsi ci sono storie di uomini e donne che per il loro gesto hanno perso la vita o l’hanno finita rinchiusi in carcere o in manicomio. Persone che hanno dato tutto per quello che credevano giusto. Assassini e criminali per alcuni, eroi e martiri per altri.

    Il loro gesto ha condotto al risultato sperato? Solitamente no, ma a volte invece sì. La conseguenza di un tirannicidio non è mai prevedibile. Si può ottenere una repubblica o la liberazione dall’invasore, ma più spesso si finisce per far scoppiare una guerra civile o per far nascere un nuovo tiranno che subito rimpiazza il precedente.

    Contrariamente a quello che si può pensare, i moti di ribellione tendono ad accendersi non quando il popolo è oppresso; all’opposto: è proprio quando il popolo sente che qualcosa sta davvero cambiando e si convince che qualcosa può veramente cambiare che prende le armi e reclama quello che gli è dovuto.

    Quando questo sentimento diventa molto comune tra la popolazione l’atto di una singola persona o di un piccolo gruppo viene emulata da tanti ed ecco che scoppia una rivoluzione. Quando invece questo ottimismo rimane circoscritto si verificano gesti isolati, spesso controproducenti per la causa. Quando Bresci uccise Umberto I il popolo si schierò dalla parte del re; al contrario quando l’omicidio di un sovrano matura all’interno di un consenso molto più ampio, come nel caso di Louis XVI, ne può scaturire una rivoluzione.

    La rivolta tirannicida meditata nel contesto di un gruppo socialmente marginale è la più comune. Spesso si tratta di minoranze vessate che tentano di vendicarsi di un monarca o di un dittatore. Per descrivere questi soggetti vengono perlopiù utilizzati termini negativi come bandito o terrorista. Ovviamente la Storia detta sempre la prospettiva: un uomo come Georg Elser, esecutore dell’attentato dell’8 novembre 1939 a Hitler, oggi è da noi considerato una specie di eroe, mentre se il Führer avesse vinto la guerra magari sarebbe ancora chiamato terrorista e criminale, come veniva apostrofato all’epoca. Allo stesso modo personaggi come Felice Orsini o Giuseppe Mazzini, oggi considerati eroi e patrioti, sarebbero forse passati alla Storia come sovversivi e terroristi se gli austriaci e lo stato della Chiesa non avessero ceduto il passo all’unità d’Italia sotto il Piemonte. Al contrario un personaggio come Guy Fawkes, in Inghilterra tuttora considerato un terribile criminale, sarebbe ricordato diversamente se il Regno Unito non fosse rimasto una monarchia.

    Ma quando nacque l’idea del tirannicidio?

    Nei libri di Storia essa viene spesso collegata con la storia del movimento anarchico, che nel corso dell’Ottocento tentò di uccidere, talvolta riuscendoci, praticamente tutti i sovrani europei. In realtà però l’idea nasce molto prima. L’uccisione dell’oppressore viene teorizzata già nell’antica Grecia da filosofie quali il platonismo e lo stoicismo. Platone per esempio scrive: "La tirannia

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