Johnny Parafango
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Fantascienza - racconto lungo (48 pagine) - Johnny Parafango ha quattordici tatuaggi, legge Bakunin e può vedere il futuro.
Nessuno sa perché lo chiamano “Parafango”: forse lo ha dimenticato anche lui. Tutt’intorno, una Romagna rarefatta e cupa di bar fatiscenti e circoli anarchici. Lo Stato, sempre più repressivo e autoritario, sgombra a forza la gente dalla campagna per assembrare tutti in città, mentre la denatalità sta portando l’Italia sulla soglia del baratro. L’unico raggio di speranza per Johnny è sua figlia Mariangela, acuta bio-ingegnera informatica. E quando Mari infrange la legge per ribellarsi al sistema, tocca a Johnny scendere in campo armato di chiaroveggenza e tirapugni.
Dall’apprezzata penna di Elisa Emiliani, una storia di personaggi indimenticabili e grandissime atmosfere.
Elisa Emiliani ha una trentina d’anni e una laurea in filosofia. È romagnola ma ha vissuto a Torino, a Bristol e in Galizia. È stata in giro per una decina d’anni, poi è tornata a casa a riscoprire la terra che impregna i suoi racconti. È cresciuta leggendo Tolkien e Philip K. Dick, poi ha scoperto i romanzi russi dell’Ottocento. Sopra ogni cosa, ama le storie che aprono crepe tra i mondi. Ha frequentato la Bottega di Narrazione e pubblicato il romanzo Cenere con Zona 42. Ha un sito web e cura il blog Philomela997.
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Book preview
Johnny Parafango - Elisa Emiliani
E tornare a viaggiare
E di notte con i fari illuminare
Chiaramente la strada per saper dove andare
Con coraggio gentilmente, gentilmente, gentilmente
Dolcemente viaggiare
Lucio Battisti
1
Johnny Parafango si guarda allo specchio, pettina i capelli bagnati. È appena tornato da un viaggio a Milano. È andato a seppellire sua madre, che non vedeva da trent’anni. Non era mai stato al nord, prima, ma se l’è cavata bene, pensa.
Si pettina e si dà una bella guardata. Ha preso gli occhi dalla madre, azzurro slavato. I capelli invece sono neri e ha sempre pensato che gli vengano dal padre. È molto grato per i capelli, perché non è scontato che a cinquant’anni suonati siano ancora belli folti.
Li lega in una coda strettissima. Da una cassettiera che gli serve anche come ripiano per la cucina prende un paio di jeans e una maglietta bianca. Sopra indossa la giacca di pelle, che lascia intravedere i tatuaggi sul collo. È quasi ora di farne uno nuovo.
Dà un’occhiata alla stanza. È strano vivere in un monolocale quando il paese è pieno di case vuote, incluse delle belle villette a schiera, ma a lui piace avere tutto a portata di mano. Chiavi, portafogli, cassetta degli attrezzi (non si sa mai quando capiti un lavoretto), Stato e anarchia del signor Bakunin nella tasca della giacca.
La strada è deserta, anche più del solito perché è domenica. Sui supporti arrugginiti per i cartelloni pubblicitari adesso ci sono gli avvisi che invitano a trasferirsi altrove, dicono che presto il paese verrà sgombrato dalle forze dell’ordine, che è tutto pericolante. Ma anche i cartelli sono vecchi e si staccano agli angoli. Non verrà nessuno a trascinare la gente fuori di casa, non ce ne sarà bisogno. Basta togliere i servizi e i mezzi pubblici, riflette Johnny. A essere acuti ci si poteva arrivare quando avevano abbandonato la costruzione dell’outlet. Forse qualcuno ne aveva anche parlato, al bar. Poi era stata la volta del supermercato, dell’ospedale, dell’ufficio postale. Erano rimasti i negozietti che sarebbero morti con i proprietari. Uno sgombero sarebbe una specie di investimento, pensa Johnny. E qua nessuno investe da un bel po’ di tempo.
C’è una campana che suona invitando la gente a messa, il cielo è di un azzurrino autunnale.
Johnny si stringe la coda di cavallo.
In paese ci sono due bar ancora aperti e la popolazione residua se li è divisi in modo abbastanza naturale. Johnny frequenta il Bullitt, chiamato così in onore della Mustang Bullitt di Steve Mc Queen, gran macchina. A Johnny il Bullitt piace perché ci sono i suoi amici e anche perché Edo, il proprietario, non resta mai a corto di succo al pompelmo.
Entrando trova la solita fauna, studenti, comunisti, studenti comunisti, vecchi col bianchetto sempre in mano, immigrati poveri.
Nell’angolo vicino al bagno c’è Piccolo Coma. Moro, occhi neri, jeans maglietta e stivali, sembra uscito da un vecchio film di Hollywood. Gioca coi suoi dadi facendoli saltare e ruotare attorno al filo che li lega insieme. Sembra una sciocchezza ma non è mica facile, ci vuole una certa abilità e molto esercizio. Piccolo Coma di certo ci mette l’esercizio. – Ehi, Johnny – lo saluta senza smettere di far roteare i dadi.
Edo esce da dietro il bancone e gli mette la mano sulla spalla. – Johnny, come stai?
Johnny si siede con Piccolo Coma. – Come uno che ha una madre di meno. Non è mica, dico, non è mica cambiato niente. Però tutte le cose anche piccole, sono diverse, quando hai una madre e quando non ce l’hai.
Edo annuisce gravemente. – È l’ultima generazione che ha visto il boom economico.
– Adesso tua madre ci guarda da lassù – dice Piccolo Coma.
Johnny fa uno schiocco torcendo la bocca. – Non credo, Piccolo Coma, l’ultima volta che l’ho vista era ben piantata in terra.
Momento di silenzio.
– Pompelmo? – chiede Edo.
– Certo.
– Arriva.
– Grazie, Edo.
– No, sta arrivando. Alle tue spalle.
Johnny fa un verso a metà tra il grugnito e il sospiro.
Edo si gira e si allontana. – Prego, signora, Johnny è lì nel suo ufficio – dice. – Vada, vada che l’aspetta.
Ridacchia, il traditore.
Johnny si volta. – Signora.
È una di quelle matrone più larghe che alte, il tipo che definiresti un armadio, non necessariamente flaccide, anzi, spesso hanno braccia forti per l’uso costante del mattarello o mestolo o simili. L’esemplare che si trova davanti a Johnny questa domenica è sulla sessantina, indossa un giubbotto liso e regge una teglia enorme senza sforzo apparente. Johnny non ne è sicuro, ma con buona probabilità è la sorella di una sua compagna di classe delle elementari. Mariulì, ecco come la chiamavano tutti. Dovevano essere gli anni Trenta o giù di lì. Facevano delle riunioni nel cortile della scuola per decidere come salvare il pianeta.