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Non fraintendermi!
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Non fraintendermi!

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Parlare non è comunicare.

Conosciamo tutti le stesse parole eppure fraintendersi è più facile che comprendersi. Se si potesse indovinare a un primo sguardo il modo di ragionare dell’altro, sarebbe come avere a disposizione gli occhiali a raggi X della comunicazione. Ma l’interpretazione della realtà è mediata da filtri inconsci: le prime esperienze, le parole preferite, i valori, il tono di voce, le differenze cerebrali, l’atteggiamento del corpo, la costruzione della frase, rivelano di noi ben più che il semplice significato di quello che abbiamo detto.

Le persone non sono una “tabula rasa”, sono mosse da condizionamenti di varia natura che noi possiamo portare alla luce. Perché è proprio l’incapacità di leggere questi meccanismi a provocare equivoci che rendono vane le relazioni. Conoscere il buon funzionamento della comunicazione senza fraintendimenti è davvero facile, basta sapere come farlo.

Irene Bertucci, giornalista, esperta in comunicazione e neurolinguistica, attraverso un linguaggio tecnico e preciso ma accessibile a tutti, fatto di esempi concreti, di test applicabili alla nostra vita quotidiana, di piccoli esercizi che tutti possiamo fare, spiega gli errori in cui cadiamo involontariamente e ci insegna a capire meglio gli altri e noi stessi.
LanguageItaliano
Release dateOct 7, 2021
ISBN9788830526037
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    Non fraintendermi! - Irene Bertucci

    1

    TU PARLI O COMUNICHI?

    Non è una domanda così banale come potrebbe apparire, anche gli analfabeti parlano, aprire bocca e tirare fuori le parole è un gioco da ragazzi, comunicare è un affare diverso.

    Non si tratta, come quasi tutti erroneamente pensano, di condividere un codice comune. Il fatto che parliamo la stessa lingua e chiamiamo gli oggetti con lo stesso nome non è comunicare: è solo parlare tutti italiano, o francese o inglese o magari la lingua dei segni, ma non basta.

    Nessuno ci ha mai insegnato davvero a comunicare e del perché non ho risposta, ma una riflessione. Se da bambini non ci fosse stato qualcuno che con santa pazienza ci avesse messo su due zampe, mentre noi eravamo comodi a gattonare, rimettendoci in piedi tutte le volte che cadevamo, che si entusiasmava per ogni passetto, noi saremmo ancora qui tutti a quattro zampe con meno mal di schiena, certamente, ma te lo potresti immaginare un mondo a testa bassa?

    Se non ci avessero insegnato a usare correttamente le posate, a suon di tentativi e qualche sgridata, mangeremmo con le mani, come si fa d’altronde in alcune parti del mondo dove è socialmente accettato.

    Mi chiedo allora perché ci hanno insegnato a parlare con la presunzione che possedere le stesse parole per gli stessi oggetti fosse comunicare?

    Come si fa poi con le parole astratte? La nostra lingua è piena di astrazioni che sono fraintendibili perché si riempiono di significati diversi per ognuno. Pensiamo alla parola benessere: per Giulia è un lungo massaggio, per Carlo un weekend al mare, per Francesca leggere il suo libro preferito, per Antonio la partita a calcio ogni mercoledì, per Anna la serata con le amiche.

    Altro esempio, proviamo a declinare il concetto di lavorare bene: per qualcuno è lavorare otto ore al giorno, tornare a casa e chiudere il sipario. Per altri è lavorare con massima disponibilità di straordinari. Oppure fare il meno che si può, imbrogliando anche, perché tanto è tutto un magna magna. Lavorare bene è farlo con il massimo impegno. Lavorare bene è stare in ufficio le ore che servono e basta.

    E chissà quante altre possibili definizioni riusciremmo a trovare.

    I limiti del linguaggio sono i limiti del mio mondo affermava il filosofo Ludwig Wittgenstein, considerato uno tra i grandi pensatori del XX secolo.

    Questo significa che la realtà è il risultato delle parole che utilizziamo per esprimerla.

    Così ognuno interpreta le cose del mondo in base alle parole che conosce, a quelle che sceglie, secondo il significato che assegna a ogni vocabolo.

    Buffo nella nostra lingua può essere usato sia per indicare qualcosa di divertente che di grottesco; amore ha un’infinità di possibili declinazioni; ambiguo può significare dubbio ma anche finto, falso.

    Ecco perché ci si fraintende tanto facilmente. Perché diamo per scontato che le parole che usiamo abbiano per l’altro lo stesso significato che hanno per noi.

    Quando facciamo fatica a trovare un’intesa, siamo anche parecchio impazienti, quando bisognerebbe spiegarsi di più e accordarsi su cosa quella frase significhi per me e cosa per te.

    Ti sarà capitato certamente di dire qualcosa che non viene colto, di alzare gli occhi al cielo e aggiungere sorridendo il politicamente corretto scusami, mi sono espresso male, salvo poi rimanere senza parole di fronte al secondo fraintendimento. Questo è strano, non capisce, pensi in religioso silenzio, continuando a sorridere, ma a questo punto stai già cercando mille escamotages per poter evitare altri contatti di lavoro o amichevoli con quello che ti sembra un personaggio singolare.

    Ora hai tre possibili soluzioni: o trovi un modo per vivere solo vicino a quelli che ti capiscono al primo colpo o cerchi una caverna per diventare un eremita oppure leggi, rifletti e studi il perché ognuno capisce ciò che più gli pare e piace.

    Comunicare non è usare la stessa lingua, ma un atto di consapevolezza e di accettazione delle innumerevoli differenze di ognuno.

    È soprattutto fare attenzione a come l’altro percepisce il mondo e la sua quotidianità, perché la verità è che la percezione è l’unica vera comunicazione.

    Attenzione infatti a scambiare le opinioni per verità, soprattutto se sono le tue.

    Quando comunichi il fulcro della relazione è il tuo interlocutore – e non tu –: se lui non capisce la responsabilità, anzi la colpa, è la tua, che non sei stato capace di costruire frasi e utilizzare toni che fossero comprensibili secondo il suo personalissimo modo di interpretare la realtà e le parole.

    Devi quindi adattarti al modo di tutti e snaturare te stesso? Non proprio, ma devi fare alcune considerazioni prima di aprire bocca, perché dire qualunque cosa in qualunque tono non va bene sempre. Va bene solo con quelli che funzionano come te e temo che di diversi da te tu ne abbia già incontrati parecchi.

    Se hai possibilità di stare solo con persone molto simili, molla il libro, ma se ti tocca frequentare pure gli altri, c’è da andare avanti, leggere e capire.

    I modelli di pensiero attraverso cui interpretiamo la realtà sono unici ed esclusivi e derivano da molti fattori, oltre al linguaggio. Nei capitoli che seguono considereremo aspetti legati a: l’indole, l’ambiente, il contesto culturale e storico, il sistema dei pari, la capacità empatica, i valori, le regole, le motivazioni personali.

    Sarà difficile? Forse un po’ all’inizio, ma siamo solo a pagina 17 e prometto che entro la fine del libro avrai la ricetta che ti serve.

    D’altra parte l’incipit di questo libro non parla di comunicare facile, bensì di non essere fraintesi e ciò richiede un po’ di sforzo, studio, pratica ed esercizio.

    Nessuna nuova capacità è facile da acquisire, ma si sa che tutte le cose sono difficili prima di diventare facili.

    LE PRIME TEORIE SULLA COMUNICAZIONE

    Nell’ambito degli studi sulla comunicazione, a partire dagli anni Cinquanta, si sono formulate diverse teorie e modelli teorici, tra cui:

    1. Il modello tradizionale/meccanico di Shannon e Weaver

    2. Il modello interattivo/sistemico di Jakobson

    3. Il modello dialogico/relazionale di Watzlawick

    Il primo, detto di Shannon e Weaver, studiava da un punto di vista matematico come trasferire efficacemente i dati da un emittente a un destinatario, ma non nell’ambito di un sistema interpersonale, bensì di uno cibernetico in cui emittente e destinatario potevano essere due apparati fisici. La comunicazione tra gli apparati era efficiente quando si innescava un meccanismo di risposta, detta retroazione, per cui il sistema si muoveva finché non raggiungeva il suo scopo. La caldaia e il suo termostato sono in questo senso da considerarsi un sistema di comunicazione.

    Il linguista russo Roman Jakobson, all’inizio degli anni Sessanta, riprende e amplia la teoria tradizionale, affermando che gli elementi da considerarsi nella comunicazione sono sei: emittente, codice, contesto, messaggio, canale, destinatario. Secondo lui, nel processo ognuno svolge una determinata funzione che influenza le dinamiche ultime della comunicazione.

    1. L’emittente svolge una funzione emotiva perché è centrato sulle emozioni che vuole esprimere.

    2. Il codice ha una funzione metalinguistica, riguarda il bagaglio comunicativo condiviso tra chi parla, la possibilità di chiarire il senso del discorso o della frase.

    3. Il contesto ha una funzione referenziale. Significa che la situazione in cui ci trova è influente e il linguaggio che si usa deve adattarsi alle circostanze esterne.

    4. Il messaggio ha una funzione poetica: si tratta della forma della frase, delle figure retoriche che si usano, dell’estetica delle parole che hanno l’obiettivo di rendere espressivo il messaggio.

    5. Il canale ha una funzione fatica che tende a mantenere il contatto tra chi parla. Il pronto, mi senti al telefono è un esempio in questo senso.

    6. Il destinatario ha una funzione conativa. In particolare si intende ciò che l’emittente fa, attraverso il linguaggio, per indurre il destinatario a adottare un certo comportamento, per esempio con le frasi imperative.

    Perché parlare di queste prime teorie? Perché è da notare che entrambe non trattano dell’aspetto più importante della comunicazione, cioè del feedback, del messaggio di ritorno. Le prime teorie della comunicazione sono piuttosto teorie dell’informazione.

    Nell’informazione qualcuno avvisa, dice, annuncia, ma poi non si preoccupa di cosa l’altro abbia compreso.

    A parla, ma B cosa ha capito? B spesso capisce altro.

    Il processo della comunicazione non è lineare, ma circolare e può dirsi concluso solo quando l’emittente sia sicuro che l’interlocutore abbia compreso il senso del messaggio. Nella vita quotidiana lo facciamo? Tu ti preoccupi di accertarti che l’altro abbia inteso secondo le tue intenzioni?

    Se pensi che l’attenzione al feedback, agli effetti della comunicazione sull’altro sia balzata all’attenzione degli scienziati a metà degli anni Sessanta, quindi solo sessant’anni fa, si può forse spiegare il perché la necessità di capire come comunicare efficacemente sia tutto sommato recente.

    Nel 1962 uscì postumo il libro del filosofo inglese John Langshaw Austin Come fare cose con le parole, che aveva l’obiettivo di spiegare che ogni frase ha uno scopo che determina una certa influenza sul mondo circostante, una reazione nel destinatario.

    Austin parla di Teoria degli atti linguistici e spiega che ogni atto linguistico è composto da:

    –una locuzione: la struttura della frase in sé

    –un’illocuzione: l’intenzione della comunicazione

    –una perlocuzione: l’effetto dell’atto sull’altro

    Ogni frase ha dunque un valore letterale e uno non letterale.

    Questa è la porta può indicare la porta, ma anche essere un invito ad andarsene.

    –Se dico che caldo fa oggi, la frase può essere una mera informazione oppure può indurre l’altro ad aprire la finestra.

    Con Austin e poi con John Searle, che continuerà i suoi studi, si chiarisce che parlare non è mettere insieme dei segni, ma è un atto che produce delle conseguenze su chi partecipa. C’è sempre una finalità, uno scopo.

    Se non lo si identifica, io non avrò comunicato e tu non avrai capito.

    Searle negli anni Settanta affermerà che una parola ha significato solo se la si considera nel contesto, in relazione dell’intera frase, e se il suo senso è percepito da entrambi gli interlocutori. Finalmente si chiarisce che si comunica solo se la percezione e l’intenzione del discorso sono condivise.

    Un’altra rivoluzione fu l’uscita nel 1967 del libro Pragmatica della comunicazione umana di P. Watzlawick e gli studiosi della Scuola di Palo Alto, secondo cui la comunicazione si realizza sempre e comunque, quando due persone sono in relazione tra loro. La prima regola della comunicazione è che "non si può non comunicare": ogni comportamento, ogni parola, anche il silenzio comunica qualcosa.

    L’uomo che guarda fisso davanti a sé mentre fa colazione in una tavola calda affollata, o il passeggero d’aereo che siede con gli occhi chiusi, stanno entrambi comunicando che non vogliono parlare con nessuno né vogliono che si rivolga loro la parola, e i vicini di solito afferrano il messaggio e rispondono in modo adeguato lasciandoli in pace. Questo, ovviamente, è proprio uno scambio di comunicazione nella stessa misura in cui lo è una discussione animata.

    Secondo lo studioso la comunicazione è fondamentale perché è il mezzo con cui costruiamo le relazioni, che devono essere integre se vogliamo stare bene psicologicamente. Individua cinque regole della comunicazione, la prima è già stata enunciata. La seconda afferma che in ogni messaggio c’è sempre un aspetto di metacomunicazione, qualcosa che va al di là delle parole, che riguarda il modo con cui ci esprime, che condiziona e definisce il senso di ciò che si dice.

    La terza descrive la natura di una comunicazione che dipende dalla punteggiatura delle sequenze di comunicazione. Per punteggiatura si intende la percezione soggettiva delle parole e dell’esperienza di ognuno. Se è diversa gli interlocutori non si capiranno.

    La quarta regola o quarto assioma dichiara che gli esseri umani comunicano sia a livello verbale, che non verbale, che paraverbale.

    Il quinto assioma dice che gli scambi tra le persone possono essere simmetrici, dove nessuno prevale sull’altro, o complementari, spesso imposti dal contesto socio-culturale come il rapporto genitore-figlio; medico-paziente; alunno-insegnante.

    Quindi, secondo Watzlawick, la comunicazione è una condizione sine qua non delle relazioni. Per avere relazioni sane e non patologiche è importante curarne ogni aspetto, anche perché tutto influisce: il contesto, il messaggio, il non verbale, il tono di voce, l’aspetto psicologico di chi parla e di chi ascolta.

    2. Ambiguità

    Cosa vedi in queste immagini?

    Illusione ottica

    Quest’illustrazione conosciuta in Germania già alla fine del 1800, divenne famosa quando fu riprodotta dal disegnatore britannico William Ely Hill e pubblicata per la prima volta sulla rivista umoristica americana Puck il 6 novembre 1915.

    Si chiama, a ragione, My wife or my mother in law, e mostra una figura doppia in cui si può riconoscere sia una giovane donna che una vecchia signora. È uno dei disegni doppi più riprodotti negli ultimi due secoli.

    Ce ne sono altri di conosciuti: per esempio un’anatra che è anche un coniglio o due visi di profilo che contengono un vaso.

    Illusione ottica

    Tornando all’immagine della donna, secondo alcuni studi accademici introdotti dallo psicologo statunitense Edwin Boring, l’illusione donna giovane/vecchia dipenderebbe dall’età di chi guarda il disegno. I giovani vedrebbero una bella donna sulla trentina, che potrebbe appartenere al periodo della Belle Époque, voltata di profilo, il nasino all’insù, una piuma sui capelli. I più anziani coglierebbero l’immagine della vecchia di profilo: scucchia, naso gigante, occhio cadente, un foulard sui capelli e un pellicciotto intorno al viso.

    Questa teoria non ha prove certe.

    Realisticamente la diversità di veduta dipende da come e dove cade l’occhio a una prima lettura: se va verso l’alto vedrai la giovane, se verso il basso più facilmente la vecchia. Con un minimo sforzo e concentrazione vedrai entrambe le donne.

    In pratica è una questione di punti di vista, il che ha una valenza metaforica perché se fai fatica a leggere le immagini doppie significa che c’è un po’ di rigidità verso modi di vedere e fare diversi dai tuoi.

    Vale la pena esercitarsi a leggere oltre, a non fermarsi alla prima impressione, a essere disponibili alla possibilità che ci sia un modo diverso di interpretare quell’immagine, ma anche una parola o un’esperienza.

    In questo modo ci si abitua a scoprire il complesso che sta dietro l’immediatamente visibile, anche perché, come si dice, spesso l’apparenza inganna.

    2

    LA FILOSOFIA DELLA MATRIX

    Matrix è il mondo che ti è stato messo davanti agli occhi per nascondere la verità. Pillola rossa o pillola blu?

    Chi non ricorda le parole di Morpheus a Neo, nel film del 1999, che ci ha fatto riflettere tutti sulla possibilità che la realtà fosse una costruzione mentale a opera di altri, che solo alcuni avevano il privilegio di vedere?

    Il film è una rappresentazione del pensiero platonico che distingue tra il mondo delle idee e quello sensibile in cui viviamo. È una trasposizione del mito della caverna in cui Platone racconta di uomini cresciuti, incatenati piedi e collo in una caverna, costretti a guardare solo davanti a sé, su un muro su cui sono proiettate delle sagome, riflesso di uomini che passano e si muovono davanti a loro. Queste ombre cinesi diventano la loro unica realtà. E se anche qualcuno riuscisse a fuggire e a vedere che si tratta di veri uomini, superando il trauma della luce, se anche tornasse indietro a raccontare la verità verrebbe deriso e forse anche ucciso dagli altri che non vogliono credere a idee differenti e tantomeno sono disponibili ad affrontare la fatica della fuga e della luce che acceca.

    Se osserviamo solo verso una direzione, vediamo la proiezione della realtà e non la realtà stessa. Il dubbio e la ricerca della verità sono alla base dell’indagine filosofica sulla vita dalla notte dei tempi.

    Sapere di non sapere è la lezione di Socrate che, già nel quarto secolo a.C., affermava: E mentre me ne andavo, trassi la conclusione che, rispetto a quell’uomo, io ero più sapiente. Si dava il caso, infatti, che né l’uno né l’altro di noi due sapesse niente di buono né di bello; ma costui era convinto di sapere mentre non sapeva, e invece io, come non sapevo, così neppure credevo di sapere. In ogni modo, mi parve di essere più sapiente di quell’uomo, almeno in una piccola cosa, ossia per il fatto che ciò che non so, neppure ritengo di saperlo.

    La filosofia del dubbio e delle false illusioni è un pensiero ricorrente di fior di pensatori dei secoli passati, che hanno cercato di persuaderci del fatto che:

    –Il dubbio è espressione della verità, non potremmo dubitare se non esistesse una verità in grado di sottrarsi al dubbio. (Sant’Agostino)

    –L’uomo è la misura di tutte le cose, di quelle che sono per ciò che sono, di quelle che non sono per ciò che non sono. (Protagora)

    –L’ignorante afferma, il saggio dubita e riflette. (Aristotele)

    –Ritenni necessario rigettare come interamente falso tutto ciò in cui potessi immaginare il minimo dubbio. (Cartesio)

    –Il dubbio non è piacevole, ma la certezza è ridicola. (Voltaire)

    Ciò nonostante, nella vita quotidiana ognuno di noi ritiene più che valide le proprie opinioni, i pensieri, le visioni, che si basano sull’esperienza.

    Ma chi ti assicura che ciò che vedi esista, oltre che nella tua testa

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