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La belva più feroce
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La belva più feroce

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La vera storia dell’uomo che uccise la famigerata tigre di Champawat.

"Un libro che si legge tutto d'un fiato e che trasmette un'importante lezione tra uomo e natura" – Publishers Weekley

Champawat, 1900. Nelle foreste alle pendici dell’Himalaya una tigre del Bengala viene ferita alla bocca da un bracconiere. Privata dei suoi affilati canini, è costretta a adattarsi per non soccombere e comincia a inseguire una preda più vulnerabile: l’essere umano. Per i successivi sette anni, questo animale spietato terrorizza la popolazione locale, muovendosi nella foresta come un fantasma e trasformandosi nel più micidiale serial killer che il mondo abbia mai conosciuto, con uno sbalorditivo bottino di 436 vite.
Alla disperata ricerca di aiuto, le autorità coloniali si appellano a Jim Corbett, un inglese di umili origini che lavora alla costruzione della ferrovia ed è cresciuto cacciando selvaggina nella zona. Corbett conosce fin dall’infanzia le foreste in cui la tigre si nasconde, e si mette sulle sue tracce come un detective che tallona un assassino. Addentrandosi in quel territorio selvaggio, però, si mette anche nella condizione di poter essere cacciato dalla sua stessa preda. Dopo aver condotto diverse ricerche tra i villaggi colpiti dalla Mangiatrice di uomini, riesce a intercettare una sinistra scia di sangue che lo condurrà nel cuore della giungla, dove l’uomo con il fucile e la belva sono destinati a incontrarsi...

Huckelbridge segue le tracce di Corbett e ci racconta una delle più appassionanti avventure del XX secolo, inquadrandola nel complesso contesto storico in cui si svolse: quello del devastante impatto che il colonialismo ebbe sull’antico equilibrio tra uomo e natura. Fu un’esperienza che cambiò profondamente Corbett, trasformandolo da rinomato cacciatore in un ambientalista convinto, che alla fine sarebbe diventato famoso per la devozione con cui si dedicò alla salvaguardia della tigre del Bengala e del suo habitat.
LanguageItaliano
Release dateOct 21, 2021
ISBN9788830511910
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    La belva più feroce - Dane Huckelbridge

    PROLOGO

    Non conosciamo l’anno. E del nome del cacciatore si è persa la memoria. Ma verso l’inizio del XX secolo, nel terai vicino al distretto di Kanchanpur, nel Nepal occidentale, un uomo commise un terribile errore. Cercò di uccidere una tigre del Bengala.

    Verosimilmente possiamo immaginarlo abbastanza giovane. I tharu che abitano laggiù hanno grande esperienza con le tigri, e solo un cacciatore acerbo e inesperto potrebbe essere così sventato. Presso i tharu la caccia alla tigre è un evento solenne, da propiziare con sacrifici di galli e capre, offerti alla dea della foresta Ban Dhevi. È un atto dal profondo significato spirituale e materiale, che rischia di adirare divinità e sovrani. Per prendere anche solo in considerazione l’idea di cacciare una tigre occorre la benedizione di un gurau con una sacra coppa di rakshi, e poi bisogna comunque indossare i nastri rossi rituali.

    Ma, anche in una provincia così remota, le cose cambiano. Come altri suoi coetanei, questo giovane magari ha assaggiato il gin inglese e le sigarette arrivate di contrabbando dall’India, ha visto i vestiti e le cravatte occidentali che si possono comprare sull’altra sponda del fiume Sharda, e comincia a stancarsi di distillati di riso e ghirlande di nastri. Per lui la tigre non è uno spirito divino, una signora della foresta, una custode della natura che mantiene l’equilibro del creato. Per lui la tigre non è altro che un mucchio d’oro: denaro per disboscare un tratto di foresta, comprare un bufalo d’acqua e mettere su una fattoria. L’idea di vivere dei prodotti della foresta come i suoi genitori, di abitare in una capanna dalle pareti di fango con il tetto di erba elefante, gli fa scendere un brivido lungo la schiena. No, non fa proprio per lui.

    Lo possiamo immaginare allontanarsi dal villaggio, con un vecchio fucile ad avancarica in spalla, tirandosi dietro un’ignara capra. Percorre un sentiero di terra battuta, ai margini dei campi di senape e lenticchie, seguendo il letto secco di un torrente, finché raggiunge gli alberi di sal che segnano l’inizio effettivo della giungla. Costruisce un piccolo machan – un capanno su pali per la caccia della tigre – nei pressi di una radura dove ha visto impronte fresche nel fango; e dopo avere legato la capra a un paletto, sale sull’impalcatura e fa del suo meglio per mettersi comodo.

    Nel pomeriggio il caldo diventa torrido, la capra sbatte le orecchie, si sente solo il gracchiante richiamo di un’otarda in amore. Il giovane si asciuga la fronte e si gratta la puntura di un insetto; l’entusiasmo iniziale ha fatto spazio alla noia e infine all’irritazione.

    Le ombre si allungano, il tramonto è vicino e la magra capra è ancora legata al paletto, illesa. Il giovane comincia a credere che la tigre non arriverà più. Forse gli anziani del villaggio avevano ragione, forse era da stolti pensare di avventurarsi nella foresta senza…

    E poi eccola. Avanza con una grazia e una forza quali il giovane non ha mai visto. L’attacco è terrificante nella sua forza e ipnotico nella sua bellezza, come se le screziature della vegetazione si fossero animate e avessero avviluppato la povera creatura. La capra non ha tempo né di muoversi né di belare… un secondo prima era viva, poi non lo è più. Il suo collo viene spezzato in un battito di ciglia.

    D’un tratto il giovane mette in discussione il motivo per cui si trova lì. L’idea di sparare alla tigre che gli sta davanti gli pare di un’audacia assurda, come se si trattasse di uccidere un re e non un semplice animale. Anche dall’alto del machan, il felino gli pare enorme. I suoi occhi gli sembrano più umani di quelli di un maiale, di un cervo o di qualunque altra bestia abbia incontrato. E come a minare ulteriormente la sua determinazione, dagli alberi spuntano due cuccioli, che saltellano con fare giocoso. Non è solo una tigre. È una madre.

    Malgrado la paura, l’idea di tornare a casa con la sola corda lacerata diventa però sempre più insopportabile. No, ormai ha preso la sua decisione. E adesso deve andare fino in fondo. Una volta abbattuta la madre, sarà facile occuparsi dei piccoli. Due tigri in più di quanto sperava. Afferra il vecchio fucile con le mani tremanti, appoggia il calcio consunto alla spalla, prende la mira, poi fa un ultimo respiro e preme il grilletto.

    Tanto basta. Il fruscio del suo movimento, per quanto lieve, non è sfuggito alle orecchie della tigre. Molla la capra e alza la testa, allarmata. Un tuono erompe dagli alberi, una rossa fitta di dolore lacera le sue mascelle. La tigre arretra, come per attaccare l’aria, ma non c’è nulla dove affondare i denti. Con il sapore del proprio sangue in bocca, torna nel fitto sottobosco da cui è venuta; dopo un attimo di esitazione, i due cuccioli, grandi quanto peluche, la seguono obbedienti.

    Il giovane ricarica il fucile, salta giù dalla piattaforma, si precipita a controllare se il suo proiettile ha fatto centro. Nota le impronte accanto alla misera carcassa della capra, una macchia di sangue, due denti rotti, denti di tigre. Il giovane si rende conto di avere sbagliato la mira, di avere solo ferito la belva: la conferma arriva da un ruggito che, poco dopo, sembra lacerare l’aria. Ha già udito delle tigri brontolare in lontananza, ma non ha mai sentito nulla del genere. Questo ruggito lo avverte sulla sua pelle, alla bocca dello stomaco, nella cavità del suo petto. È il più puro concentrato di rabbia che gli è mai capitato di ascoltare.

    Cala il buio. Il pensiero di addentrarsi nella foresta e trovarsi a tu per tu con la belva inferocita non gli passa neanche per l’anticamera del cervello. Sarebbe un suicidio: una sfida alla morte nella sua forma più primordiale. E così, ancora vibrante di adrenalina, si mette in spalla lo schioppo e torna al villaggio con le ginocchia molli, prima camminando, poi di corsa, lanciando sguardi terrorizzati alle proprie spalle per tutto il tragitto, tappandosi le orecchie per non sentire i ruggiti. E anche se non può rendersi conto delle conseguenze della sua azione, del terrore che ha scatenato, delle vite che sta indirettamente per rovinare, di certo intuisce, con quei ruggiti che attraversano l’aria immota e le foglie umide degli alberi di sal, che premendo quel grilletto ha creato un mostro.

    INTRODUZIONE

    UNA STORIA COMPLESSA

    Nel primo decennio del XX secolo, il predatore di vite umane più insaziabile che sia mai esistito infestava le pendici dell’Himalaya. Un serial killer che non si limitava a rapire le sue vittime nottetempo e farne a pezzi i corpi, ma che ne mangiava anche le carni. Un serial killer che per quasi dieci anni sfuggì a poliziotti, cacciatori di taglie, assassini, e addirittura a un reggimento di gurkha nepalesi.

    Questo serial killer era una tigre reale del Bengala.

    Più precisamente, una tigre nota come la Mangiatrice di uomini di Champawat. Molto più di un superpredatore che occasionalmente includeva uomini nella sua dieta, un animale che – per ragioni che furono chiarite solo dopo che si mise fine alla sua furia omicida – considerava la nostra specie come la sua fonte primaria di cibo. Una Panthera tigris tigris che diede regolarmente la caccia all’Homo sapiens al confine tra Nepal e India, all’inizio del Novecento, con scioccante impunità e un’efficienza quasi soprannaturale. In totale le sue vittime ammontarono a quattrocentotrentasei – secondo alcuni più di quante potesse vantarne qualunque altro assassino mai esistito, umano o animale che fosse.

    Malgrado gli insoliti gusti e l’abilità venatoria, tuttavia, è sorprendente quanto poco sia stato scritto sulla tigre di Champawat. E quando capita di leggerne, di solito non è che in qualche nota a piè di pagina in più ampi articoli sul conflitto uomo-tigre, o come macabra curiosità da Guinness dei primati. Il fatto che una sola tigre sia stata capace di perpetrare una simile strage nel corso di anni e anni di rado è stato ritenuto meritevole di ricerche storiche o approfondimenti scientifici. È sembrata una storiella interessante e nulla più.

    Interessante lo è di sicuro, e c’è sempre la tentazione di limitarsi a considerarla tale. Una storia di portata universale e di spessore quasi letterario, degno di un poema epico come il Beowulf: una creatura divoratrice di uomini che terrorizza le campagne, che sfugge in più occasioni alla cattura finché non appare un eroe che ha il coraggio di andare ad affrontarla nella sua tana. Una favola senza tempo da raccontare attorno a un fuoco, semplice e terrificante. Chi non vorrebbe ascoltare una storia del genere, che parla alle nostre paure più primordiali e radicate?

    Ma c’è anche un’altra storia da raccontare, altrettanto spaventosa ma molto meno semplice. Gli eventi che si abbatterono su valli e foreste delle pendici dell’Himalaya nel primo decennio del XX secolo non furono bizzarre anomalie. Furono l’inevitabile risultato dei drammatici conflitti culturali ed ecologici che all’epoca scuotevano la regione – per non dire il mondo intero – interessando uomini e animali in forme inusitate e scombussolando modi di vivere che persistevano da millenni. Lungi dall’essere un racconto sensazionalistico sulla lotta tra uomo e natura o su quella tra bene e male, quella della tigre di Champawat è una parabola molto più complessa, i cui protagonisti sono, in definitiva, in conflitto con se stessi.

    A cominciare, ovviamente, dalla tigre. In circostanze normali, le tigri non uccidono né mangiano gli uomini. Sono predatori seminotturni, che vivono nella foresta e sembrano avere una diffidenza innata nei confronti dei bipedi; di solito, al primo segno di presenza umana, cambiano direzione, invece di cercare l’aggressione. Eppure, all’inizio del XX secolo, in Nepal e in India si stava verificando una trasformazione così profonda e sconvolgente dell’ordine naturale da far sì che una di queste tigri non solo perdesse la paura innata degli uomini, ma cominciasse addirittura a cacciarli nelle loro dimore con frequenza quasi settimanale: una tragedia in cui più di quattrocento persone finirono vittime dei suoi denti e dei suoi artigli. Questa tigre per molti versi cessò di comportarsi come una tigre e si trasformò in una creatura quasi sconosciuta tra le colline dell’India settentrionale, capace di attaccare i villaggi e di cacciare uomini e donne in pieno giorno.

    E poi c’è Jim Corbett, il leggendario cacciatore a cui il governo britannico diede l’incarico di porre fine al regno della tigre di Champawat. Anche nell’India odierna, molti lo considerano quasi alla stregua di un santo laico, un uomo generoso e pieno di coraggio che mise a repentaglio la propria vita per difendere dei poveri indigeni dimenticati da tutti. Per altri, specie se hanno familiarità con gli studi postcoloniali, non è che l’ennesimo emblema del paternalismo eurocentrico che caratterizzò l’esperienza coloniale. Ci sono buone ragioni per sostenere entrambe le posizioni. La verità tuttavia è molto più sfumata e, considerando che stiamo parlando di un uomo che attraversò diverse epoche, generazioni e addirittura imperi, non potrebbe essere altrimenti. Jim Corbett fu un cacciatore che, dopo essere diventato famoso, usò la caccia alla tigre per guadagnarsi i favori dell’aristocrazia. Ma fu anche un instancabile difensore della causa dei felini e dedicò l’ultima parte della propria esistenza alla loro conservazione, come mostra l’immenso parco nazionale che porta ancora oggi il suo nome. È vero, a partire da un certo momento godette di tutti gli orpelli e i privilegi del sahib inglese, dalla servitù ai club esclusivi. Ma in quanto irlandese e figlio del direttore di un ufficio postale era considerato socialmente inferiore e aveva provato sulla sua pelle che cosa significa subire la colonizzazione da parte delle stesse persone che aiutava e ammirava. E soprattutto amava l’India e la sua gente, pur giocando un ruolo inconsapevole nella loro sottomissione.

    Il che ci porta inevitabilmente al colonialismo, un tema troppo ampio e complesso per un solo libro, tanto più se dedicato a una tigre mangiatrice di uomini. Eppure fu senza dubbio il colonialismo, con l’annessa distruzione ambientale che comportò quasi ovunque, la causa primaria della creazione della nostra tigre. Può essere stato il proiettile di un cacciatore nepalese a scatenare la belva contro la nostra specie, ma fu un secolo di disastri ecologici nel subcontinente indiano a spingerla fuori dalle foreste e dalle praterie che avrebbero dovuto essere la sua dimora, facendone un killer micidiale. A un esame attento, è evidente che la tigre di Champawat non fu un’occasionale aberrazione della natura ma piuttosto un disastro causato dall’uomo. Ogni esperto, da Jim Corbett a Valmik Thapar, può elencare i fattori che trasformano una normale tigre in una Mangiatrice di uomini: una ferita o un danno fisico, la diminuzione delle prede abituali, il degrado dell’habitat naturale. Nel caso della tigre di Champawat, sono presenti tutti e tre. Verso la fine del XIX secolo, il governo inglese e la dinastia nepalese dei Rana, grazie a una combinazione di deforestazione irresponsabile, politiche di stimolo dell’agricoltura e battute di caccia su vasta scala, avevano creato le condizioni ideali per un disastro ecologico. Catastrofi che continuano ancora oggi, quando si verificano fenomeni come la recente ondata di attacchi di squali a La Réunion, i crescenti conflitti tra lupi e uomini a Yellowstone, o l’apparizione di altre tigri mangiatrici di uomini nella foresta indiana delle Sundarbans o nel Parco nazionale di Chitwan in Nepal. Oggi, se non altro, abbiamo compreso l’importanza dei superpredatori nel mantenere la salute del nostro ecosistema; ma stiamo ancora negoziando, non senza spargimento di sangue, le condizioni della nostra convivenza. E questo tralasciando problemi di portata assai più vasta come il riscaldamento globale e l’estinzione di intere specie animali, conseguenza della medesima combinazione di gestione economica miope e distruzione ambientale. Lo stato di salute dei superpredatori viene in genere considerato un buon indicatore della salute generale dell’ambiente; e oggi, con il costante aumento dei gas serra e la riduzione degli habitat naturali, il loro futuro pare purtroppo assai incerto.

    Il che spiega perché questa vicenda di conflitto ambientale sia non solo rilevante, ma anche urgente e necessaria. In sé, lo sforzo di Jim Corbett per liberare le valli del Kumaon dalla tigre di Champawat è drammatico quanto lineare, ma le tensioni sottostanti hanno implicazioni più ampie e cupe. Certo, è un racconto di astuzia e coraggio senza tempo, ma anche una lezione, tuttora attuale, su come deforestazione, industrializzazione e colonizzazione possano sconvolgere il delicato equilibro tanto delle culture quando degli ecosistemi, generando tensioni inedite che a un certo punto trovano uno sfogo.

    A volte persino nella forma di una tigre mangiatrice di uomini.

    PRIMA PARTE

    NEPAL

    1

    INTRODUZIONE ALLA TIGRE

    Da dove cominciare? Nel caso di una storia che richiede di andare indietro di secoli, se non di millenni, e le cui radici affondano nelle politiche coloniali britanniche, nelle cosmologie indiane e nell’ascesa e caduta delle dinastie nepalesi, come possiamo individuare il punto di partenza? Si potrebbe cominciare con i decreti reali che spinsero Vasco da Gama a veleggiare verso le Indie orientali, o con le congiure di palazzo che portarono Jang Bahadur a scalare i vertici del potere himalayano. Ma i temi in gioco sono più primordiali. Parliamo di qualcosa che ha modellato la nostra psiche e permeato il nostro immaginario mitologico dalla notte dei tempi, e che è capace di risvegliare le nostre paure più profonde. Essere mangiati da un mostro. Essere cacciati e consumati da una creatura le cui capacità predatorie sono infinitamente superiori alle nostre. Essere squartati e divorati. Considerando ciò, la risposta alla nostra domanda è molto semplice, e i suoi occhi gialli ci stanno fissando. Questa storia inizia dalla tigre.

    Scrive Charles McDougal, un naturalista che ha passato gran parte della sua vita a studiare i grandi felini in Nepal: Solitamente la tigre mostra una profonda avversione per l’uomo, e ne evita il contatto. Una circostanza confermata da biologi, guardiani di parchi e cacciatori che, forti di un’esperienza diretta, insistono su quanto siano timide ed elusive le tigri che vivono in libertà. Si può passare un’intera vita in un paese popolato da tigri senza vederne mai una, presenze fantasmatiche rivelate solo, ogni tanto, da qualche impronta e dalla carcassa di un erbivoro. Anche per i tharu contemporanei, che vivono ai margini di riserve dalla significativa popolazione di tigri, è abbastanza raro vederne una. Sanjaya, la persona che mi ha ospitato e fatto da guida mentre facevo ricerche per questo libro, è cresciuto pescando e raccogliendo frutta nella foresta, e in tutti questi anni gli è capitato di spiare una tigre solo una volta. La tigre normale non è molto interessata alla nostra specie, e ancor meno a sfidarci. Tra caccia, accoppiamento e lotte contro i rivali territoriali, la tigre standard ha cose molto più importanti di cui preoccuparsi; di rado si accorge di noi. Siamo un fastidio da evitare, e nulla più.

    In ogni caso, per la tigre anormale – quella che per qualsivoglia motivo ha superato l’avversione per le scimmie erette – ci sono essenzialmente due modi in cui uccidere un membro della nostra specie.

    Il primo tipo di attacco è un meccanismo di difesa; la tigre vi ricorre quando ci considera una minaccia alla sua vita o a quella dei suoi piccoli. Capita se una madre è sorpresa nella foresta, o se una tigre ferita è incalzata da un cacciatore, il suo istinto di autoconservazione le fa sfoderare gli artigli. Spesso ruggisce e dopo una rapidissima, terrificante serie di balzi attacca il suo obiettivo con le zampe anteriori, con forza tale da spaccarne il cranio in uno o due colpi. E questo è solo l’inizio. Secondo lo specialista di tigri Nikolai Baikov, una volta che l’umano è a terra, la tigre affonda gli artigli nella testa e nel corpo, cercando di strappare i vestiti. Può aprire la cassa toracica e svellere la spina dorsale con una sola zampata. Si tratta di un comportamento aggressivo che è l’esatto opposto di quello predatorio (anche se al termine dell’attacco vi può essere la consumazione della vittima). Si manifesta quando l’animale percepisce un pericolo imminente e fa appello alle sue considerevoli risorse per salvarsi la pelle (in senso figurato ma anche letterale, dato quello che può essere pagata una pelle di tigre sul mercato nero).

    Il risultato, come possono testimoniare i pochi sopravvissuti, è ovviamente atroce. Sul web circola il video di un attacco del genere, avvenuto nel 2004 nel Parco nazionale di Kaziranga, nell’India nordorientale. Ripreso da una videocamera posta sul dorso di un elefante, mostra un gruppo di ranger sulle tracce di una tigre che era uscita dai confini del parco, cominciando a uccidere bestiame, quasi sicuramente in seguito a una diminuzione delle dimensioni del suo habitat e delle sue prede naturali. Armati di fucili lancia-siringhe, non intendevano fare del male all’animale, ma catturarlo prima che lo trovassero gli allevatori inferociti e riportarlo nel parco. Purtroppo quel felino da centottanta chilogrammi non era della stessa idea. Anche se sgranate e traballanti, le immagini mostrano con quale efficacia una tigre è in grado di difendersi. Con stupefacente velocità e destrezza, la belva sembra materializzarsi dal nulla tra l’erba alta, balza sulla testa dell’elefante e con una sola zampata fa a brandelli la mano sinistra di uno sfortunato cornac prima di scomparire. E se

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