Sono immagini dell’alba
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Incorniciati in una scrittura netta, chiara e pulita, si susseguono momenti di un quotidiano per lo più ordinario, eppure sempre capace di destare meraviglia. Lo sguardo attento sulla realtà si colora di immaginazione, fino a sfumare nel brillio di una magia dolce.
Troviamo istanti di incontro e di scoperta, intrisi di un senso delizioso di sorpresa. Memoria e presente sono stretti una all’altro, come indistinguibili (“Anni Settanta”). Ed è sempre l’apertura verso gli altri, che siano affetti conosciuti, persone vicine in un insieme di comunità, o magari intrecci casuali dei fili della vita, a costituire il fil rouge che corre attraverso tutti i brani della raccolta.
Distante dai toni sincopati di un insensato correre di eventi, ogni cosa viene vissuta in un equilibrio di emozioni, che nulla fa perdere alla loro intensità, ma anzi la rafforza. A volte sono dettagli che fanno scaturire ricordi (“L’angolo”) o storie di un tempo lontano che gettano una loro eco più viva che mai (“Ferragosto”), o oggetti che per suggestione divengono in se stessi testimoni (“Dialogo tra una bici e una motocicletta”). Anche i più dolorosi dei momenti hanno la saldezza profonda di una serenità fondamentale (“Non avrei saputo”).
Ricordi colorati di infanzia, la vicinanza, eternamente spirituale quando non più fisica, dei familiari, simpatiche avventure del quotidiano, sono espresse nella cadenza tranquilla di un esistere che non è mai rifiuto o chiusura, quanto piuttosto curiosità e forza nelle proprie radici.
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Sono immagini dell’alba - Marisa Cecchetti
Il costume due pezzi
Bisogna che lo scriva questo sogno, prima che scappi via, già mi accorgo che fatico a ricostruirne i contorni.
Non so perché mi trovassi a metà di un costone di montagna e neppure come ci fossi arrivata, tanto meno come potessi scendere di lì.
Ero in piedi su una specie di rientranza della parete, io che temo l’altezza non per le vertigini, ma perché mi porta a fare pensieri paurosi, come la perdita improvvisa di self control da panico, con tutto ciò che ne potrebbe seguire di drammatico. Non mi sembra che avessi paura.
Lui si è materializzato ma non so da dove fosse arrivato, probabilmente da un sentiero lungo la parete aggettante sul vuoto.
Ha sorriso senza dire una parola, guardandomi fisso negli occhi, senza staccare mai. Era alto, snello, il volto asciutto e brunito di sole. Capelli? Non ricordo bene ma scuri, non scurissimi.
Mi ha portato via di lì senza dire una parola. Non so da dove siamo passati, comunque a un certo punto non ero più sul costone sospesa.
L’ho incontrato di nuovo, ricordo che camminavo su un prato o giardino, o forse lungo un viottolo. Lui è comparso giù in fondo ma non troppo lontano che non potessi di nuovo percepire il suo sguardo lungo e profondo su di me.
Ho risposto allo sguardo come ammaliata.
Solo ora mi chiedo perché non avessi paura di lui, perché non abbia pensato a un maniaco.
Fin qui il sogno.
Poi una bella mattina d’estate che ero al mare con un’amica e il mare era disteso e luccicante e il sole non bruciava ancora troppo e stavo benissimo, è passato davanti a me un carrettino. Sembrava uno di quei carretti siciliani tutti addobbati e colorati. Pendevano dal carrettino, da una serie infinita di sostegni, costumi da bagno di tutti i colori, senza intervalli, tanto che sembrava una cupola colorata semovente. Un’immagine da libri illustrati per bambini.
Lo trainava – quel carretto che arrancava piano nella sabbia dove più era compatta vicino alla battigia – lo trainava un uomo alto e snello, pantaloni e blusa di tela leggera, viso appena abbronzato di nordafricano, capelli scuri ma non scurissimi tagliati corti.
L’ho osservato trascorrere piano, surreale come in un film di Fellini, e quando si è fermato poco distante sono andata a dare un’occhiata tra i costumi da bagno, confusa tra altre donne curiose come me.
Ne ho trovato uno che mi piaceva e l’ho indicato su in alto.
L’uomo – ho visto i suoi occhi neri come il carbone – l’ha tirato via dal sostegno.
Lo provi, mi ha detto.
Come? Dove?
Qui. Si infili i due pezzi sopra il costume.
È rimasto a guardarmi trafficare con il reggiseno.
Aspetti, glielo aggancio io… così.
Ho sentito le sue mani sfiorarmi la pelle e ho tremato.
Molto bene, ha detto guardandomi in quello strano abbigliamento composito. Comunque, ogni mattina io passo di qui, se lo volesse cambiare…
Sono tornata dalla mia amica con il costume due pezzi dentro la sua bustina trasparente.
Ho cominciato a raccontarle il sogno della notte precedente, quello della parete di roccia. Quest’uomo assomiglia all’uomo del sogno! le ho detto.
Tra l’altro non è finito quel sogno.
Ci siamo incontrati una terza volta, sono sicura che fossimo su una strada larga e chiara. Ci separavano sì e no cento metri. Ci siamo fermati all’istante, poi abbiamo fatto pochi passi – lentamente quasi come nel ferma-immagine dei film – prima di prendere la rincorsa e trovarsi abbracciati. Senza mai aver pronunciato parola.
Non so che cosa sia successo dopo, non so neppure se ci siamo baciati, ma voglio credere proprio di sì.
Anni Settanta
Fu un inverno di neve.
Per Natale la neve era lì, alta, ad ammorbidire i contorni degli abeti davanti a casa, a ricoprire la Cinquecento che stazionava nel cortile divenuta un igloo dagli occhi gialli, a cancellare anche il respiro delle cose, a disfare il profilo delle colline nel cielo di cenere spenta.
Nel silenzio arrivava il ruscellare costante dell’acqua tra i sassi del torrente e il ronzio dei tralicci della sottostazione. Frizzavano forte. Zzz, zzz, zzz.
Nel fondovalle dell’Appennino nemmeno un’ombra di casa o di altra presenza umana. Praticamente soli. Con Catone davanti alla porta. Il cane.
Nella cucina grande c’è il camino acceso, la fiamma si riflette a chiazze sulla pelle scura delle poltrone, i miei bambini rovistano tra i pezzi del lego rovesciati sul parquet per finire il tetto di una casa.
C’è assenza del babbo e c’è attesa di lui, trattenuto alla centrale elettrica per guasti sulle linee provocati dalla abbondante nevicata.
Vago da una finestra all’altra, quelle che danno sul vialetto d’accesso alla casa, uno sguardo veloce al brillio della neve, per vedere se una sagoma nera avanza a piedi dalla centrale. E se arrivasse col fuoristrada? Quando non sono alla finestra tendo l’orecchio per captare l’avvicinarsi del motore o lo scricchiolare delle ruote sulla neve già coperta da una patina di ghiaccio.
Niente.
Ha ripreso a nevicare forte.
Domani sarà Natale in questo strano silenzio bianco. Ho bisogno di qualcosa per smuovere l’aria, che segni questa sera della vigilia.
La cucina si apre sul salotto, lì troneggia il pianoforte nero dove mio figlio fa i suoi primi esercizi. Ci sono piccole figure appiccicate sui tasti, la corona, il sole, la campana… re, sol, do!
Il tavolo rotondo vi sta solo per figura, non si usa mai, davanti c’è una credenza che scintilla di cristalli e piatti. Allora cerco una tovaglia, la più colorata che ho, e la distendo su quel tavolo.
Che cosa c’è già pronto per cena? Passato di verdura e pizzette.
Va bene. Ormai è tardi per preparare qualcos’altro.
Scelgo i piatti, i più belli che trovo, di porcellana finissima.
C’è della frutta secca in casa?
Sì, ce n’è ancora in cantina, quella del raccolto del noce di fianco a casa, e qualcosa è rimasto della essiccatura dei fichi.
Cerco un centrotavola, scelgo un Capodimonte che si distende con i suoi fiori delicati sulla tovaglia.
C’è del vino buono?
Scendo giù in cantina. Ci sono bottiglie di vino che fa le bollicine, quello della vendemmia di un nostro amico.
Cerco delle candele bianche che tengo di emergenza per i blackout, le taglio basse, a tre altezze diverse, le appiccico con un po’ di cera fusa sul fondo di un piattino colorato.
I bambini mi vedono trafficare tra una stanza e l’altra.
Che cosa fai, mamma?
Metto un po’ in ordine… ma che bella questa casetta!
E scompiglio i capelli a tutti e due con un gesto leggero. Anche il tetto della loro casa di mattoncini è quasi finito.
In tavola manca del verde. Allora mi infilo un paio di stivali di gomma e il piumino.
Dove vai, mamma? fa la piccolina.
Esco un attimo solo. Tranquilli.
La neve illumina la sera. Scuoto un ramo basso dell’abete più grande e la neve cade morbida sopra i miei stivali. Stacco dei ramoscelli, li scuoto, li nascondo sotto la giacca e rientro come un soffio di vento.
Mamma, hai portato il freddo!
Sollevano la testa tutti e due. Non si sono mossi dal parquet. Hanno le gote rosse per il calore del ciocco che continua a bruciare piano.
Appoggio ramoscelli di abete sul tavolo