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Bonne Hommes
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Bonne Hommes

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Comunemente apprendiamo dalla storia comune solo una piccola parte degli avvenimenti vissuti dall'umanità in epoche precedenti, e i documenti storici gettano luce su alcuni millenni in modo incompleto, con limiti assai ristretti. Se confrontiamo le descrizioni che diversi storici ci danno del medesimo fatto ci accorgeremo di trovarci su un terreno assai insicuro.

L'autore, in modo romanzato, ci trasporta in una delle epoche più buie del medioevo attraverso le esperienze interiori del giovane rampollo di una delle casate nobiliari romane e, attraverso le sue gesta, suggerisce una rilettura delle possibili motivazioni che portarono all'eccidio più famigerato perpetratosi nell'anno 1209 nel Sud della Francia; motivazioni che, a ben vedere, potrebbero non essere giunte fino a noi per una volontà precisa di nascondere verità scomode. Tutto ciò che è avvenuto in passato è sottoposto all'azione del tempo e a quella degli uomini stessi che decidono cosa tramandare. 

Con questo libro ci viene posto un importante quesito: chi soffermandosi ai documenti esteriori e alle testimonianze "ufficiali" può sinceramente affermare che in essi sia conservato davvero l'essenziale?
LanguageItaliano
Release dateJun 13, 2021
ISBN9791220814485
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    Bonne Hommes - Stefano Priorini

    Capitolo 1

    Anno Domini 1167 - Fonte Vivola - Viterbo

    decoration

    Il primo sole del mattino diffondeva la sua lattiginosa luminosità iniziando a fugare le tenebre; l’aria risultava ancora fredda e pungente mentre la natura tentava di liberarsi dal sottile strato di gelo che l’aveva ammantata durante la notte. Una nebbia densa e compatta saliva dalla terra riscaldata dai primi raggi solari dando all’intero panorama quell’aspetto tremulo e indistinto tipico di ogni alba invernale.

    Lo stallone nero aveva iniziato a brucare lentamente la morbida erba rugiadosa, muovendosi pacatamente. Il suo padrone, ancora addormentato, giaceva in terra avvolto dal pesante mantello che lo aveva coperto durante la notte. Si erano fermati poche ore prima dell’alba, stremati dal lungo percorso durante il quale non si erano concessi soste; stavano fuggendo e, quindi, la priorità era mettere più spazio possibile fra loro ed i possibili inseguitori. Dalla partenza clandestina da Roma, avvenuta due notti prima, avevano cavalcato insieme senza fermarsi attraversando prima le vie cittadine, poi i sobborghi che circondavano l’urbe ed infine le dolci colline della campagna viterbese; stremato il giovane aveva deciso di fermarsi al riparo di una grande quercia secolare in prossimità di un ruscello. D’altronde, aveva pensato, forse la sua famiglia non aveva ancora realizzato che fosse fuggito nottetempo, come un malfattore. Rampollo dei Cenci, una delle nobili famiglie romane imparentate con quegli Ottaviani che godevano dell’appoggio di Federico Barbarossa, era sempre stato un ribelle in perenne contrasto con il padre Cencio e con i fratelli maggiori Pietro e Tebaldo; d’altronde lui era il più piccolo dei figli e, in quanto tale, non poteva aspirare ad altro che al suo nome: Stefano dé Cenci! Il padre lo avrebbe voluto monaco dato che nei suoi progetti riteneva di poter contare sulla parentela con l’attuale cardinale Ottaviano Crescenzi Ottaviani, per una carriera ecclesiastica del figlio. Era stato perciò affidato, per la sua educazione, al reverendo Salviati che ne avrebbe dovuto curare la formazione canonica; fin dalla più tenera età aveva dovuto dedicare la maggior parte delle sue giornate allo studio dei testi sacri, alla dottrina cattolica e all’intero corpus della liturgia sacra. Di positivo c’era che imparò con facilità a padroneggiare la lingua latina e quella greca e, in buona misura anche quella aramaica dato che il suo precettore era stato traduttore negli archivi vaticani, potendo così conseguire una formazione umanistica di tutto rispetto. Però le continue e insistenti pressioni verso una vita monastica non facevano che provocare nel giovane quel profondo senso di ribellione che si radicò nel profondo della sua anima. Infatti lui era di tutt’altra idea rispetto alla propria vita; cresciuto parallelamente con gli insegnamenti del nonno paterno, capostipite della famiglia, di cui lui portava lo stesso nome, era stato educato anche all’uso delle armi, iniziato nell’arte cavalleresca, ed indirizzato dal nonno verso la formazione avventurosa e nobile dei cavalieri erranti che ne aveva forgiato il carattere. Quell’aspetto aveva avuto molta più presa di quello monastico. Quasi ogni giorno, non appena portati a termine i suoi compiti scolastici, correva nelle scuderie dove il nonno lo aspettava clandestinamente insieme al comandante delle guardie di casa Cenci per istruirlo nell’arte cavalleresca.

    Lì il giovane trovava un ambiente completamente diverso dalle sale scriptorium in cui passava gran parte delle giornate; dall’odore di polvere e della carta pergamena passava a quello del sudore e dello stallatico, dal pesante e monotono silenzio della biblioteca si immergeva nel cacofonico frastuono delle sale d’arme in cui i soldati si allenavano per i combattimenti. L’animo del giovane riprendeva vita e i suoi sogni nascosti si concretizzavano repentinamente dandogli un senso di ebrezza.

    Tieni alta la guardia – lo incitava il nonno mentre assisteva al suo allenamento – La gamba sinistra avanti e il peso indietro giovanotto…- era molto fiero di quel nipote così simile a lui quando era giovane - …attento adesso, o il tuo nemico ti infilzerà. –

    Ogni sera Stefano si addormentava esausto ma felice, aspettando con ansia il giorno in cui sarebbe diventato cavaliere. Così, fin da giovinetto, mentre affinava suo malgrado le conoscenze storiche, filosofiche e dottrinali, aveva continuato a sognare di emarginarsi dalla casa paterna e dagli studi, aspirato a gesta memorabili, agognato eventi segnati dal coraggio e dallo sprezzo del pericolo; quindi, ben presto, aveva sentito in sé il richiamo prepotente di una qualche nobile causa e, seguendo quell’istinto, si era dato ad una vita sconsiderata e ribelle frequentando locali malfamati, quartieri e sobborghi pericolosi, donne di facili costumi e compagnie poco raccomandabili. Ben presto erano dunque iniziati inevitabili contrasti con il padre e con gli stessi suoi fratelli che tentavano di riportarlo agli studi ecclesiastici pensando con ciò di ricondurlo, sia pur indirettamente, sulla retta via.

    Non avrai più il tuo appannaggio! - gli aveva urlato Cencio nell’ultima delle continue sfuriate – E non aspettarti che venga a salvarti, la prossima volta che ti metterai nei guai! -

    Non era passato molto tempo da quell’episodio, prima che Stefano effettivamente si mettesse nei guai. Era il suo tredicesimo compleanno quando recatosi con due altri giovinastri, suoi compagni di scorribande, in una delle locande che frequentavano con maggior piacere, situata in prossimità del porto di Ripa Grande, dato che era una delle poche ad essere gestita da una donna che, insieme alle sue tre figlie, praticava la prostituzione malgrado i divieti pontifici, si era trovato coinvolto in una rissa insorta con altri avventori; uno di questi, probabilmente un musulmano a giudicare dai tratti somatici, aveva pesantemente approcciato una delle cameriere addette alla mescita del vino e Stefano, rispondendo al suo istinto di indomito cavaliere e difensore dei deboli, era prontamente intervenuto in soccorso della donzella. – Lascia stare…- gli aveva intimato uno dei suoi compagni prendendolo per un braccio - …non ti immischiare! -

    Stefano lo aveva guardato torvo, divincolandosi dalla presa, e si era frapposto fra la giovane e l’infedele.

    Nella taverna, come sempre affollata da mendicanti, delinquenti, vagabondi ed emarginati, era immediatamente scoppiata una baraonda generale che aveva subitaneamente distolto l’attenzione degli avventori dal gioco della mosca, cui erano intenti, provocando altri focolai di alterchi e liti dovuti alle poste in gioco. In breve tempo si accesero diverse zuffe e furibondi corpo a corpo che coinvolsero quasi tutti gli avventori del momento; quando però una lama di pugnale brillò alla luce delle lanterne ed il musulmano cadde a terrà urlando come un maiale sgozzato, Stefano capì che sarebbe stato difficile proclamare la propria estraneità e, senza pensarci, si unì al generale fuggi fuggi allontanandosi dalla locanda e dagli amici. Quella stessa sera, recuperato il suo destriero, decise seduta stante che avrebbe abbandonato per sempre la casa paterna, la città e la sua vecchia vita alla ricerca di un nuovo destino. Quando giunsero sul posto le guardie papaline era già lontano, in groppa al cavallo, fuori delle mura di Roma.

    Ora, con i primi raggi di sole che colpivano obliquamente il suo giaciglio notturno, iniziava il primo risveglio da uomo libero, fuori delle pareti domestiche; malgrado l’intorpidimento diffuso si sentì bene, sollevato e felice. Pronto ad affrontare il suo destino, qualunque fosse. Fece appena pochi passi, per recuperare la mobilità, e si approntò per rimontare in sella; avvertì quasi subito i morsi della fame, motivo in più per spronare lo stallone verso una nuova meta in direzione dei monti cimini, già visibili all’orizzonte verso nord. Cavalcò con decisione, alternando al galoppo andature più lente, per evitare di stancare troppo il fidato destriero ma sempre con l’intento di mettere più distanza possibile dietro le spalle; immaginava che il padre, accortosi della sua fuga, avrebbe incaricato suo fratello Pietro di trovarlo per riportarlo a casa. Più grande di lui di sei anni, Pietro aveva già assunto la conduzione degli affari di famiglia preparandosi alla inevitabile successione ed era quindi logico supporre che gli venisse affidato il compito di ricondurre alla ragione quel figliolo scapestrato, non fosse altro che per l’onore ed il buon nome della famiglia. Se il fratello maggiore lo avesse trovato non avrebbe potuto opporgli resistenza dato che, di certo, sarebbe stato accompagnato dalle guardie del padre; inoltre fra loro non c’era mai stata una vera complicità fraterna anzi, tutto il contrario. Il maggiore lo aveva sempre trattato da inferiore, un bambinetto inutile e fastidioso che non sarebbe mai stato necessario al casato e, quindi, tanto meno a lui. Erano cresciuti come due estranei. Quindi non aveva scelta: doveva correre!

    Si concesse perciò solo brevi soste presso casolari incontrati nel percorso, beneficiando dell’accoglienza dei contadini che, riconoscendo in lui un appartenente alla nobiltà, gli offrivano il necessario per rifocillarsi. La traversata dei monti cimini fu faticosa e lenta, costringendolo in alcuni tratti a scendere da cavallo per proseguire a piedi su pendii troppo ripidi o comunque accidentati, ma prima della notte riuscì comunque a raggiungere le porte di Abazia S. Salvatore dove, era certo, avrebbe potuto fermarsi per recuperare le forze. Varcato l’ingresso della cinta muraria che circondava il centro abitato, si fece indicare la più vicina locanda ove poter pernottare. Seguendo le indicazioni attraversò un paio di vicoli scarsamente illuminati e privi di acciottolato e poi vide l’insegna; superò la porta di ingresso recandosi direttamente alle stalle ed entrò recando il cavallo alla briglia.

    Buona sera signore – lo apostrofò subito un garzone di poco più giovane di lui.

    Buona sera a te. – rispose Stefano consegnandogli l’animale.

    Volete passare la notte alla locanda? Non credo il padrone abbia posto, stasera sono arrivati parecchi viandanti. Vedete quanti cavalli ci sono? – l’irruenza del giovane lo colse di sorpresa.

    Frena garzone. Stai al tuo posto! - Era pur sempre un nobile. – Ora sei tu che decidi per chi debba o non debba esserci posto? –

    Scusate signore – si schernì subito quello – Io…io parlo sempre troppo. Me lo dice anche mia madre che non potrò mai emergere se non imparo a controllare la lingua. Però…-

    Va bene, va bene. Ora taci. – Stefano si addentrò nella stalla, assorbendo il piacevole tepore animale che pervadeva l’ambiente, ma senza darne troppo a vedere. Ebbe la sensazione di essere tornato alle scuderie del nonno, e ne trasse il massimo piacere assaporando quegli odori così familiari. Mantenendo la giusta dose di altezzosità nel suo esame dell’ambiente, si rivolse di nuovo al giovane garzone: - Tu sei avvezzo a passare la notte qui? –

    Si mio signore. Io accudisco i cavalli non appena arrivano e li preparo la mattina prima della partenza. Non farei in tempo se andassi a dormire a casa da mia madre; sa la mattina bisogna occuparsi…-

    Va bene, ho capito. – tagliò corto Stefano – è proprio vero che parli troppo. –

    Scusate signore. Vedete io…-

    Ora basta! – Fu costretto ad alzare la voce – Questa notte anche io dormirò qui, con te e con il mio cavallo. –

    Il ragazzo lo guardò stupito ma evitò di aggiungere altro; quel cavaliere era davvero strano, pensò, ma certamente era meglio non contraddirlo. Non si poteva mai sapere cosa passava per la mente di certi nobili né come avrebbero potuto reagire di fronte ad un comportamento che avrebbero potuto giudicare insolente; questo inoltre aveva un piglio molto fiero e portava con sé una poco rassicurante spada da combattimento. Quindi decise saggiamente di tacere e di farsi da parte. Stefano, quasi interpretando il suo pensiero, si tolse il cinturone con la spada e si apprestò a prepararsi un giaciglio per la notte. – Ti sembrerà strano – disse – ma io lascio malvolentieri il mio cavallo. Una volta mi è stato rubato e da allora preferisco restargli vicino. –

    Il giovane non sembrò rassicurato da quella spiegazione ma non se la sentì di controbattere. Si recò dalla parte opposta a quella che aveva scelto il cavaliere e, a sua volta, sistemò la paglia ed il fieno per preparare il proprio giaciglio. A quel punto, però, Stefano gli intimò di recarsi alla locanda per procurare del cibo e il garzone, senza ulteriori tentennamenti, sgattaiolò fuori della stalla per ottemperare a ciò che gli veniva comandato. L’attesa non fu lunga, prima che il giovane tornasse con una scodella di zuppa e del pane raffermo.

    Il signor oste mi ha dato questo, per voi… dicendo che se volete di meglio potete andare di là, da lui, e pagare il dovuto per una cena completa. –

    Andrà bene. – affermò Stefano cercando di capire la natura di ciò che galleggiava nella brodaglia verde scuro che gli veniva offerta; d’altra parte, l’intenso calore trasmesso dal recipiente alle sue mani gli parve subito foriero di imminente benessere, e l’odore sprigionato dalla ciotola era tutt’altro che scostante anzi, non appena assorbito dalle narici, giunse diretto allo stomaco che da tempo brontolava per qualcosa di caldo. – Domani mattina passerò a ringraziare il vostro padrone per l’ospitalità. –

    In realtà sapeva bene che non si sarebbe fatto vedere dall’oste, né l’indomani né mai, non fosse altro che per scongiurare il pericolo di essere rintracciato dagli armigeri del padre, qualora fossero mai giunti fin lì seguendo le sue tracce. Una volta rifocillato, si adagiò sulla paglia tiepida e, quasi subito, cadde in un profondo sonno ristoratore.

    Anno Domini 1167

    Tolosa

    L’intera città era in fermento per l’imminente arrivo della delegazione bulgara; le strade si erano animate già dalle prime ore dell’alba, le botteghe artigiane avevano aperto i battenti prima del solito, torme di bambini rumoreggiavano nei vicoli, i carrettieri erano intenti a consegnare i loro prodotti e perfino la guarnigione del castello si era preparata anzitempo all’atteso evento. Tutti gli abitanti sapevano ormai da tempo che il Vescovo Niceta aveva lasciato le sue terre per dirigersi a Tolosa, luogo scelto per il grande Concilio dei Catari, e che ormai era prossimo all’arrivo con tutto il suo seguito. L’indiscusso Papa dei Catari, già acclamato rappresentante del dualismo religioso nella sua Bulgaria, si era risolto ad indire questo importante evento per fondare ufficialmente la prima Chiesa Catara in terra di Francia, dove le sue dottrine si erano maggiormente diffuse e radicate e dove gli episodi di intolleranza da parte dei cattolici erano state meno presenti, limitandosi a rari scontri poco più che verbali; in effetti proprio in Provenza e nel resto dei territori del Sud francese le idee religiose riconducibili allo Gnosticismo primitivo avevano trovato terreno fertile fra la popolazione radicandosi capillarmente nei villaggi, nei borghi, nelle campagne e infine nelle città più importanti, coinvolgendo sia i nobili che i villani e finendo per assurgere al rango di religione di stato. La notizia del viaggio del maggior rappresentante di quella nuova fede si era dunque rapidamente diffusa precedendo il suo portatore e ingrossando le fila della legazione durante il cammino; in più da ogni parte dei Pirenei francesi il popolo si stava muovendo per partecipare al grande evento, recandosi a Tolosa, luogo scelto per il primo Concilio che avrebbe, una volta per tutte, sancito la nascita della Chiesa Catara. La città si preparava pertanto ad accogliere una moltitudine di persone come non si era mai vista prima di allora.

    Anche nell’austero castello, al centro delle fortificate mura cittadine, fervevano i preparativi coinvolgendo tutti gli addetti, gli armigeri, stallieri e scudieri, le cuciniere e gli sguatteri, i fabbri, i palafrenieri e cavalieri della guardia e, infine, i nobili della corte. Ognuno, quella mattina, attendeva ai suoi compiti freneticamente ma con zelo sentendosi parte rilevante della complessa macchina organizzativa; era stato allestito il grande salone dei ricevimenti, con tutti gli arazzi e gli stendardi alle pareti, dodici grandi candelieri issati al soffitto e fiori di stagione disposti negli angoli e sotto le grandi finestre trifore. Il camino centrale, nella parete opposta a quella del trono, era già acceso da ore ed erano stati comunque posizionati diversi bracieri per riscaldare il grande ambiente, solitamente freddo in quella stagione. Nelle cucine si preparava il necessario per il banchetto della sera, a base di carni di cinghiale e cacciagione, sformati di verdure, pasticci aromatizzati, formaggi e frutta secca in grandi quantità per i rappresentanti delle nobili casate che avrebbero avuto l’onore di partecipare a quella festa. Le famiglie della nobiltà francese erano più o meno tutte incerte nella difficile scelta di appoggiare la religione cattolica, fortemente sostenuta dal governo centrale del Re di Francia a Parigi, o i nuovi contenuti della corrente catara, proveniente dall’est dove, solo pochi anni prima, il Vescovo Basilio aveva apertamente sposato la nuova fede bogomila e promulgato in quelle terre la fede che ormai la Chiesa di Roma aveva indicato come inaccettabile dualismo religioso.

    D’altra parte l’intero sud francese era sempre stato poco incline verso la religione ed il potere di Roma e, pertanto, le nuove idee non avevano fatto fatica a radicarsi nel popolo come nella nobiltà; la semplice idea di una dottrina purificata e liberata dalla corruzione e dal malaffare che serpeggiavano nelle gerarchie cattoliche, aveva facilmente permesso che gli insegnamenti di quei bogomili, che prendevano il nome dalla parola bulgara bogu-mil (caro a Dio), apparissero come un vento purificatore. Certo sapevano bene che, dal punto di vista politico-militare, non sarebbe stato opportuno appoggiare apertamente la nuova dottrina, dichiarandosi oppositori del Papa di Roma, ma di certo non osteggiavano più di tanto il diffondersi del nuovo verbo. Quindi la imminente venuta del Vescovo Niceta, con la sua idea di un Concilio dei Catari, che avrebbe sancito una volta per tutte la ufficialità della nuova religione, veniva vista e vissuta con grande entusiasmo.

    Naturalmente il Conte Raimondo, signore incontrastato e benvoluto, era più che soddisfatto della piega degli eventi; già da tempo in netta opposizione e contrasto con Innocenzo III, salito al soglio pontificio di Roma, vedeva in tutto questo una opportunità per rafforzare la propria posizione che, da semplice Conte di Tolosa, isolato e unico avversario facilmente passibile oggetto della scomunica papale, si sarebbe potuta trasformare in quella più solida di portavoce dell’intera fascia pirenaica, con al seguito la nobiltà francese. Per questo, da ottimo stratega, aveva già da tempo rinforzato i suoi legami con tutti quei nobili che avevano dimostrato interesse all’affrancamento dal potere papale. In quella fredda mattina di preparativi ripensava dunque alle interminabili e dotte disquisizioni con Raimond Roger di Trencavel, suo nipote e signore di Carcassonne, che era stato il primo tassello della sua rete diplomatica. Poi, insieme, una volta raggiunta l’intesa avevano attirato nella rete il Visconte di Bearn, quel Gastone VI, che, come ben sapevano, aveva forti motivazioni nell’accrescere il proprio potere. Dacché i tre maggiori rappresentanti della nobiltà avevano stretto un patto ferreo di mutua collaborazione cui ognuno avrebbe contribuito con ingenti quantità di denaro, uomini ed armi.

    Anno Domini 1167

    Il viaggio

    Erano già dieci giorni che Stefano de Cenci cavalcava senza sosta, fermandosi solo quando la notte era già abbondantemente inoltrata, e sia lui che il suo fedele destriero erano così stanchi da non poter proseguire. Durante il giorno solo qualche breve sosta nelle fattorie incontrate sul percorso per rifocillarsi, e durante la notte non sempre in luoghi confortevoli; aveva superato San Gimignano, evitando opportunamente la città di Pisa, dove forse suo fratello lo avrebbe potuto cercare, poi Lucca, tenendosi anche

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