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Sempre coi tuoi occhi: Le parole confondono, #5
Sempre coi tuoi occhi: Le parole confondono, #5
Sempre coi tuoi occhi: Le parole confondono, #5
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Sempre coi tuoi occhi: Le parole confondono, #5

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About this ebook

È una mattina come tante a Napoli, Andrea Marini, un anziano un po' burbero, è al parco con suo nipote Andrea,un bimbo di appena cinque anni. Quel bimbo è il figlio di Giacomo, un figlio con cui non è mai andato d'accordo, finendo per diventare un padre insopportabile.

 

Sono queste le sensazioni che vagano nella mente di Andrea nonno, e che lo spingono a non volere quel bambino accanto a sé e, quella mattina, lo perde di vista. Inizia a cercarlo, ma il piccolo sembra essere sparito. Non è da nessuna parte.

 

Da quel momento in poi l'uomo inizierà a rivalutare la sua intera esistenza, la sua infelicità, il suo rapporto col piccolo nipotino e con suo figlio Giacomo, le incomprensioni che sono andate avanti per molto. È tempo per porre rimedio a tutto, e il piccolo Andrea sembra essere la chiave di svolta.

 

Quinto volume della serie "Le parole confondono", può leggersi come romanzo a sé stante, anche se si consiglia la lettura di "Sempre coi tuoi occhi" dopo "Le parole confondono", "Certe incertezze", "I motivi segreti dell'amore" e "Un giorno, sempre".

 

Giovanni Venturi è autore anche dei racconti/raccolta di racconti:

- Deve accadere

- Viaggio dentro una storia

- Journey within a story

- Racconti dall'isola

- Questa estate succede che

 

dei romanzi:

- Joe è tra noi

 

e dei romanzi della serie "Le parole confondono":

- Le parole confondono: volume 1

- Certe incertezze: volume 2

- I motivi segreti dell'amore: volume 3

- Un giorno, sempre: volume 4

- Sempre coi tuoi occhi: volume 5

- Sai correre forte: volume 6

LanguageItaliano
Release dateDec 12, 2019
ISBN9788894372908
Sempre coi tuoi occhi: Le parole confondono, #5

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    Sempre coi tuoi occhi - Giovanni Venturi

    Uno

    Ero seduto su una panchina al solito parco. Abbassai il quotidiano che stavo leggendo in modo distratto e mi guardai intorno per un po’. Per quanto fosse più o meno presto, c’era troppo silenzio, molto più del solito e, in pochi attimi, ebbi l’impressione che qualcosa fosse fuori posto.

    Mi sentii frastornato, non compresi bene, e subito, cosa non mi tornasse, ma fui avvolto da una spiacevole ansia, quell’ansia che ogni tanto faceva capolino dentro di me per i motivi più stupidi. Un sapore aspro mi invase la bocca, poi mi convinsi di essere giunto abbastanza vicino alla morte e, d’altra parte, me lo sarei meritato davvero. Ora, in questo momento. Sarebbe stata fatta giustizia, vista la mia insopportabilità.

    Quella mattina, come ogni sabato, mi ero mostrato testardo, acido e, a tratti, tanto disamorato da spingere gli eventi contro di me. Avevo persino sbuffato, desideravo con tutto me stesso essere lasciato in pace per potermi scrollare di dosso un senso di inadeguatezza. Un senso che mi si aggrovigliava ogni giorno nell’intimo, ogni singolo istante della mia vita. Per quanto, invece, le persone, tutte le persone, non riuscivano mai a capirmi. Vedevano altro, quelle stesse cose che notavo anche io quando ci riflettevo.

    Riuscire a stare in pace anche solo per un po’ sarebbe stata una conquista ma, adesso, il senso di colpa mi osservava da vicino, scuotendo la testa, muovendo il mento verso di me e invocando il mio nome. Ah, Andrea, Andrea.

    Poi capii. Non vedevo più mio nipote. Spingevo lo sguardo da una parte all’altra, disperato. Un bimbo di poco meno di sei anni era sotto la mia responsabilità. Non volevo dovermi occupare di lui. Era già difficile con me stesso, con mia moglie, con quell’egoista odioso di mio figlio e di sua moglie, quella che a un certo momento aveva iniziato a dargliele vinte tutte. Lei non gli diceva mai nulla per il veleno che lui sputava contro il mondo intero ogni giorno, e ogni giorno davvero, senza mai saltarne uno.

    Quella donna si era abbattuta, era diventata una sottomessa, aveva preferito accontentarsi di mio figlio, un uomo che sentivo lontano da me davvero troppo, mi pareva di non sentirmi suo padre. Litigavamo di frequente e su tutto. Se mi avesse sentito ragionare in questo modo sarebbe iniziata la solita lite, magari mi avrebbero sputato in faccia, lui e mia nuora, forse persino mia moglie. Anzi, di sicuro pure lei.

    Muovevo gli occhi ansioso, serravo la bocca, mi sentivo incapace di riprendere il contatto con la realtà.

    Quel bambino a cui avevano dato il mio nome non era più nei paraggi. Oppure ero io così distratto da non vederlo?

    Ricordavo ancora il giorno in cui venne al mondo, mentre ero in ospedale. Il volto di Giacomo tutto sorridente. «Papà, vedi? Dici che non ti voglio bene e invece avrai un nipote che si chiama Andrea Marini come te. Non sei contento?»

    Non lo avrei mai dimenticato.

    Era il mese di novembre. In quel periodo faceva un caldo strano, ma la sera precedente il cielo era cambiato del tutto. Le nubi si erano addensate nell’atmosfera e c’erano stati i primi lampi verso le due di notte, poi i tuoni e, infine, la pioggia. Ebbi la sensazione che venisse giù tutta l’acqua del mondo.

    Ero sveglio nonostante le due tazze di camomilla che avevo bevuto. Doveva essere il tempo, quell’aria così curiosa che stava mutando. Inoltre, la moglie di mio figlio era in ospedale già da un po’ di ore perché aveva iniziato il travaglio. Si attendevano notizie da un momento all’altro.

    Il pensiero di diventare di nuovo nonno mi agitava, ed ero preoccupato che potesse succedere qualcosa a causa di quel brutto tempo. Il soffitto era umido e si infiltrava di nuovo acqua, colava lungo la parete della mia camera, la parete accanto alla finestra, gocciolava con abbondanza su parte del pavimento e del letto.

    Avevo imprecato contro l’amministratore; quel farabutto, dopo la seconda telefonata, aveva iniziato a rendersi irraggiungibile. Mi prendeva in giro oramai da settimane. Maledetto ladro! Insomma, mille e uno pensieri cupi tutti insieme e non riuscivo a dormire, sempre a fissare il telefono, in attesa di brutte notizie. Gli occhi restavano spalancati e poi, non ricordavo a che ora, avevo finito per addormentarmi su una sedia, con una coperta sulle gambe, sul petto.

    La mattina la pioggia aveva smesso, ma il tempo era comunque tanto umido, brutto, delle nubi plumbee oscuravano il cielo, poi era spuntato il sole e mi ero rianimato.

    Avere un nipote voleva dire che stavo invecchiando e, lo sapevo bene, lo stavo facendo malissimo. Non serviva che me lo dicessero gli altri, ovvero mia moglie, mio figlio e a volte anche mia nuora. O persino Luja, che ogni tanto veniva ad aiutare la mia Anna. In alcune occasioni le avevo rimproverato più volte di essere poco precisa quando spazzava a terra.

    Ma era Giacomo quello che mi faceva stare sempre male, dannazione! Non ci eravamo mai parlati troppo, non lo avevo mai capito, forse nemmeno mi ci sforzavo, ma chi riesce a capire un figlio? Avevo un carattere chiuso, irascibile. Ora che ero vecchio me ne rendevo conto, ma non potevo di certo cambiare di punto in bianco perché lo desideravano gli altri.

    «Ti metti a posto per l’eredità? Non avrai un solo centesimo da me. Chiamalo pure come vuoi, puoi dirlo a tua moglie. L’idea di chi è stata? La sua? Sei ancora in tempo per lusingare qualcun altro.»

    «Sei mio padre, dannazione!»

    Eppure, ora, il piccolo cucciolo era sparito. Se non ero capace di ritrovarlo con lo sguardo, se non era a giocare lì intorno, allora non poteva essere successo altro. Non riuscivo a farne mai una giusta. Mi alzai di scatto e lasciai cadere il quotidiano. Mi portai le mani al volto. Sentii il cuore battere all’impazzata, in gola, nelle orecchie. Provavo a muovere le labbra, ma erano come incollate.

    Andrea era sul prato solo un attimo prima.

    Era un bambino tanto tranquillo, non parlava mai, non si faceva uscire una parola nemmeno per chiedere un bicchiere d’acqua o una caramella.

    Dove lo metti lo trovi, diceva mia moglie.

    «Ehi, piccolo?» Dalla mia bocca era venuto fuori appena un bisbiglio. «Esci fuori, Andrea!»

    Non gli volevo bene? Come si poteva non voler bene a un bambino così dolce, piccolo e amorevole? Mi osservava sempre, era spesso con me mentre leggevo, mentre mi divertivo a lavorare il legno, a costruire piccoli mobiletti per mia moglie. Dovevo fare attenzione a lui per tutto il tempo, anche se non si avvicinava mai agli strumenti di lavoro.

    Ci mancava solo di poter dare a mio figlio e a mia nuora la possibilità di dire che non sapevo badare a un bambino perché ero una persona irresponsabile, oltre che egoista e strafottente all’ennesima potenza. Già me ne cantavano di tutti i colori. A volte li sentivo malignare su di me da dietro una porta semichiusa. Dovevo sempre dar conto per tutto ciò che facevo, che decidevo di comprare, o di non comprare.

    Ma non era quello il vero motivo per cui ora mi sentivo inadatto a badare a una piccola anima solitaria. Stavo facendo i conti con me stesso, con la mia vita vissuta male di continuo, vita che mi portavo dietro ogni santo giorno senza alcun piacere. Avrei voluto essere diverso, più alla mano, ma non ci riuscivo.

    Volevo amare mio nipote. Dentro di me era già così, ma spesso lo sentivo lontano. Volevo essere lasciato in pace da tutti, stavo passando un periodo pesante oltre misura. Andrea poteva essere quella luce che avrebbe brillato nel mondo, avrebbe cancellato ogni ombra, ogni paura, ogni traccia delle mie azioni sbagliate, poteva insegnarmi a vivere nel modo giusto.

    «Andrea, dove sei? Ti scongiuro, smettila subito!» Ero ancora impalato, ma dovevo agire.

    Guardavo a sinistra, guardavo a destra. Di nuovo, e di nuovo, e di nuovo, e di nuovo. Un milione di volte al secondo, ma non bastava. E se si era fatto male? Se si era allontanato dal parco ed era finito sotto le ruote di un’auto?

    Fino a un attimo prima ero distratto, leggevo il giornale, anzi sarebbe più corretto dire che ci provavo, ma le frasi si perdevano in testa. Avevo litigato di nuovo con mia moglie. Doveva tenere lei il bambino e, invece, alla fine, me lo ero dovuto portare al parco.

    «Nonno, se non ti va, restiamo a casa.» La sua vocetta così bassa, turbata, lo sguardo provato, mi avevano fatto sentire una vera merda. Quasi me lo immaginai andare a piangere in silenzio, col viso contro il cuscino del lettino nella sua stanzetta, quella allestita tutta per lui in casa nostra.

    «Andrea?» Teresa si avvicinò, mi toccò il viso. «Ehi, Andrea, ti senti bene?»

    Non sapevo come stavo, ma mi girava la testa.

    «Non temere, ti aiuto a trovarlo.»

    «Teresa, io…»

    Era la donna con cui ogni tanto scambiavo quattro chiacchiere al parco e con cui a volte mi lamentavo dei problemi quotidiani. Aveva un bambino anche lei. Era il suo, ma mi aveva messo al corrente di non essere sposata. Io non avevo approfondito nulla riguardo la sua storia. Niente domande. Non mi sembrava per nulla giusto.

    «Era con Francesco?» Le presi una mano.

    «Non lo so, il mio Francesco è una piccola peste, lo sai. A volte sparisce pure lui e se ne sta per conto suo.»

    Teresa Sacco sorrise in modo triste, si guardò intorno, fece un passo indietro, sbatté le palpebre. «Non c’è più. È un bambino di quattro anni e mi fa trottare senza sosta. Dove si sarà cacciato pure lui?»

    Anche suo figlio non era più in giro.

    «Sarà passato qualcuno e…» Sollevò lo sguardo verso di me e pianse. «Qualcuno lo ha preso. Sì, per forza. Qualcuno ha preso il mio Francesco.»

    «Ne hanno presi due?» Scossi la testa, incerto. Mi sembrava quasi che avesse detto qualcosa di insensato, eppure avrebbe potuto avere ragione, visto i tempi in cui vivevamo.

    Iniziai a correre e a gridare il nome di mio nipote. Teresa mi seguì e urlò quello di suo figlio.

    Il cielo si illuminò e un tuono terribile esplose nell’aria di una mattina d’estate. Erano i primissimi giorni di settembre. Le nubi si erano raccolte in cielo in gran fretta.

    «Dove saranno Andrea e Francesco?» ripeté Teresa.

    Eravamo diventati più o meno amici e mi aveva confidato spesso le sue insicurezze, mi aveva raccontato che per lei era dura badare a un bambino così piccolo da sola. Non aveva nessuna esperienza e non poteva contare su nessuno, nemmeno sulla madre.

    Ci eravamo conosciuti perché frequentavamo lo stesso posto. In quel parco ci venivo spesso da solo, per rallentare, per far sì che il mondo, almeno nel fine settimana, assumesse un aspetto più bello e sereno.

    L’avevo intravista spesso lì col suo bambino. Si sedeva sempre alla stessa panchina con il piccolo sulle gambe, lo accarezzava, ci parlava tanto, sembrava felice, così, quel giorno tanto lontano, mi avvicinai, mi sedetti accanto a lei chiedendole se disturbavo.

    Disse che potevo accomodarmi.

    Mi presentai subito, le raccontai qualcosa di me e, tra una chiacchiera e l’altra, cercai dei consigli. Volevo capire come fare con mio figlio, con mio nipote. In realtà desideravo qualcuno che mi ascoltasse e non mi stesse con il fiato sul collo solo perché mi scostavo se il mondo crollava.

    Il carattere di una persona non cambia se si sta sempre a fargli notare i difetti.

    Lei mi faceva riflettere, mi dava energia. Era una donna sola, con una casa da tenere pulita e in ordine e un lavoro che la impegnava gran parte del tempo. A volte poteva portarsi dietro il suo Francesco, altrimenti lo lasciava alla vicina. La ammiravo. La sua forza di volontà doveva essere enorme.

    Non ci vedevamo nemmeno spesso. In casa servivo anche il sabato, così non sempre potevo svignarmela per passeggiare da solo al parco, oppure leggere o parlare con Teresa quando non lavorava.

    «Dove vai?» cominciava Anna quando mi vedeva infilare la camicia e i pantaloni dopo che mi ero raso e profumato.

    «Al parco.»

    «Allora perché non ci porti il bambino?»

    «I bambini devono stare con la mamma o il papà o, al limite, con le nonne se non hanno i genitori.»

    «I bambini devono stare col papà?» ribatté ridendo. «Davvero dici? Come se tu avessi badato a Giacomo quando era piccolo. Senti da che pulpito viene la predica. Ci fosse mai stata una volta che con tuo figlio avessi parlato, o che te lo fossi portato in giro.»

    Alzavo le mani. «Il piccolo Andrea per caso non ha la mamma?»

    «Stupido che non sei altro! È anche tuo nipote, se non te lo ricordi. Ha il tuo stesso nome, poi.»

    Scossi la testa. «E quindi? Che vorrebbe dire? Non l’ho chiesta io la supponta. Potevano anche chiamarlo Salvatore Marini, oppure Adriano, Giuliano, Saverio, Francesco, Marco.»

    «Portalo con te!»

    Era venuto poche volte col suo nonno e, ora, l’avevo proprio fatta grossa. Temevo i loro rimproveri ma, più che questo, mi sentivo in tal modo stordito, preoccupato, solo in quel momento stavo capendo che io di quel pargoletto, che mi seguiva in silenzio come un’ombra, non potevo farne a meno. Avrei voluto smetterla di fare lo stupido e permettere a quell’anima di Dio di rendermi migliore. Perché il piccolo cucciolo sapevo che poteva.

    «Andrea!» urlai a pieni polmoni. «Andrea!»

    Non vedevo nemmeno più Teresa. Quel parco mi dava uno strano presentimento. Era molto piccolo, ma certe volte sembrava enorme, quasi fosse il bosco di Capodimonte. C’era un piccolo viale con le panchine ai cui lati c’erano grossi alberi di Platani, prati; a volte c’erano anche gli scout che ripulivano dalla spazzatura, almeno c’erano l’ultima volta che ci ero stato. Se solo li avessi visti anche in quel momento sarei stato sicuro che magari, mentre io mi agitavo, mi avrebbero riportato il piccolo Andrea senza dirmi nulla. Ma ora ero solo, come rapito, in un altro mondo. Era un parco magico? Poteva esserlo?

    Ti prego, se c’è Qualcuno che mi ascolta, fammi ritrovare il mio piccolo nipotino. Si sarà spaventato non vedendomi più. Aiutami a riflettere con calma, dai, permettimi di capire dove posso cercarlo. Ero prossimo alle lacrime. Mi tremavano le mani, così le portai di nuovo al volto, poi anche le gambe si rifiutarono di starmi a sentire, non riuscivo a fare un solo passo. Non che sapessi in che direzione andare.

    Mi sedetti su un prato, mentre mi faceva male il petto, ma non era il cuore, non poteva essere, però se lo fosse stato, non mi sarei dovuto meravigliare. Magari poteva voler dire che me lo stavo meritando.

    «Andrea? Francesco?» La voce di Teresa Sacco tornò nelle mie orecchie. Era forte, molto inquieta. La sentivo affannata e la vedevo correre forse più di un’atleta professionista vicinissima al traguardo.

    I bambini non si trovavano da nessuna parte.

    Avrei dato la vita per mio nipote. Davvero. Ora sapevo di amarlo in modo immenso. Dov’era finito?

    Da ragazzo ero stato più o meno timido, solitario, troppo taciturno. Soffrivo senza parlare, nella povertà della mia famiglia. Come tutte le persone che avevano vissuto nel periodo della guerra, ci eravamo abituati a mangiare poco, solo pane, cipolle e poco altro.

    Mio padre si spaccava la schiena per me e mio fratello Salvatore. A volte ci portava con sé il sabato mattina al mercato, dove lavoravamo. Papà era un bravissimo falegname. Da lui avevo imparato a realizzare mobiletti e cose fatte di legno, incluse le casette che una volta costruii per il presepe. Nessuno mi fece mai i complimenti; alla fine, pareva non avessi fatto nulla di così speciale da essere degno di un’attenzione, di una piccola lode.

    Ero stato due giorni a tagliare pezzi di legno, a usare la colla, i piccoli pennelli e la pittura. Mi ero divertito un mondo. Non lo avevo fatto per gli altri, ma perché mi piaceva creare.

    Non ricordavo di aver mai conosciuto i miei nonni. Mamma, però, mi raccontava che suo padre mi teneva sempre in braccio. Morì quando io avevo appena due anni.

    Andrea mio nipote ne aveva quasi sei. Si sarebbe ricordato di me anche dopo la mia morte? Spesso lo osservavo e ci pensavo. Lo vedevo coi pastelli mentre colorava gli album che gli regalava Anna. Quali mai sarebbero stati i suoi ricordi? Gli sarei apparso come una persona che non gli parlava mai e che in braccio non l’avrà mai e poi mai preso? Non lo potrà sapere. Quando era neonato, e fino ai due anni, l’ho tenuto tra le braccia. All’inizio Anna mi aveva dovuto scuotere, forzare, avevo paura di fargli male, di non riuscire a reggerlo perché le braccia si sarebbero stancate nel momento sbagliato e lo avrei perso. Sarebbe caduto con la testa sul pavimento.

    Aveva dovuto insistere tanto, avevamo litigato spessissimo perché io mi rifiutavo. Ero proprio allergico a mio nipote.

    Il fatto è che Andrea, senza rendersene conto, nella sua fragilità, nella sua innocenza, mi faceva sentire vulnerabile. In quei suoi piccoli occhi rivedevo in modo costante il mio essere disamorato e il mondo che era andato via e che non sarebbe mai più ritornato. Ripensavo spesso al malanno in stato avanzato di mia madre, quella maledetta malattia… e i pensieri, i mille pensieri che facevo su di lei, che mi avevano privato del sonno, lo stesso sonno che mi era mancato la metà del mese di novembre quando Andrea era nato e io avevo pensato anche a lei, a mamma, al tempo trascorso dal giorno che le avevo dovuto dire addio.

    Mi ritornava in mente la sofferenza di lei, perché il piccolo Andrea, bisognoso di amore e di affetto, mi aveva fatto tornare ragazzino, a quando io avevo bisogno di baci e carezze che non avevo mai ricevuto. Non c’era cibo perché non c’erano soldi, ma una mano che lisciava una guancia, e un sorriso, costavano molto più del pane e delle cipolle?

    Mi sentivo un soldatino pronto a fare ciò che mi ordinavano i miei genitori senza fare storie, ma senza nemmeno essere felice.

    Quei due piccoli fari, quegli occhietti spalancati di quando Andrea era neonato, mi riportavano indietro nel tempo. Immaginai che fossero i miei occhi. Non volevo più amare nessuno.

    «Prendi in braccio Andrea. È nostro nipote.»

    «Perché sta sempre qui con noi? Non è nostro figlio. È solo nostro nipote, per l’appunto.»

    «E quindi lo buttiamo?» Anna aveva parlato in falsetto, cercando di trattenere il tono della voce. «Non ho capito cosa vuoi dire, Andrea.»

    «Perché dobbiamo occuparcene noi? Io non lo so fare.»

    Non mentivo, davvero non riuscivo a comprendere il motivo del suo costante essere lì ogni giorno.

    Mentre il piccolo sorrideva, chiudeva le palpebre e si addormentava, Anna scosse la testa più volte con un’espressione incerta. «Ma davvero non lo capisci?»

    «Capire cosa?»

    «Non ti rendi conto che Giacomo e la moglie litigano spesso?»

    «E quindi? Se è per colpa del bambino, se non lo volevano perché…» Mi interruppi e sbuffai.

    Chiuse gli occhi, accarezzò Andrea. Il respiro del neonato era un suono così bello. Tornò a fissarmi. «Prendilo in braccio quando si sveglia.»

    «Non hai risposto alla mia domanda.»

    Soffiò aria dal naso. «Vivi sulla luna. Di continuo.»

    «Che vuoi dire?»

    «Perché secondo te il piccolo è spesso qui? Non li vedi? Non li senti quanto litigano?»

    «Litigano?»

    Lei annuì più volte, continuando ad accarezzare le guance del nostro nipotino. «Giorno e notte, notte e giorno. Senza interruzione. Credevano che avere un bambino li avrebbe calmati, li avrebbe aiutati a ritrovarsi e invece…»

    «Che egoisti che sono!»

    «Andrea, smettila subito.»

    «E visto che non è così, visto che sono due stronzi, dobbiamo fare i nonni e i genitori a tempo pieno.»

    «Andrea, ma che modi hai? Stai parlando di tuo figlio, accidenti! Non urlo perché altrimenti si sveglia quest’anima di Dio, questo dolce e minuscolo amorino innocente. Quella che bada al piccino sono io. Tu di cosa ti occuperesti mai nella tua vita? Io cucino, lavo, stiro, rassetto casa, cambio il pannolino, pulisco e vesto Andrea. Di cosa vuoi lamentarti di preciso?»

    «Non dovresti farlo tu.»

    Prese pian piano il piccolo Andrea dal letto e lo sistemò nella culla, poi stette a rimirarlo, a sorridergli, si portò una mano sul viso. «Ma tu non collabori. Me ne devo per forza occupare io, non ti pare?»

    «E allora di cosa ti lamenti? Sai che sono sempre stato così.»

    «Non me ne lamento, ma Giacomo e la moglie sono sul punto di separarsi. Va bene? Ora lo sai.»

    Era una cosa che ignoravo del tutto, non avevo mai notato quanto litigassero ma, d’altra parte, era Anna a stare tutto il tempo con loro, magari per intervenire, per farli riappacificare. «Sono sul punto?»

    «No.»

    «Sono sul punto o non sono sul punto?»

    «Domani andranno da un avvocato divorzista.»

    «Ma se erano sul punto? Lo hai detto tu che erano sul punto. Non erano già al divorzio, o no?»

    «E invece lo faranno. Divorzieranno. Si sono già divisi. In casa dormono in letti separati.»

    «E il piccolo Andrea?»

    «Fai la tua parte. Se non vuoi fare il marito che aiuta la moglie a gestire la casa e se non vuoi fare il padre che mette una buona parola, almeno fai il nonno. Non è difficile. Questo bambino non chiede nulla di speciale, gli basta un sorriso, una carezza, accidenti. E sono tutte cose che non vanno imparate, non costano.»

    «A te vengono spontanee.»

    «Non ci credo che lo stai dicendo. Si tratta…»

    «Si tratta, non si tratta. Tu sai le cose. Non mi dici mai nulla. Fai passare Giacomo dall’essere sul punto di separarsi a separarsi e divorziare senza dirmi nulla.»

    Anna mi prese per un braccio e ci spostammo in cucina, ci sedemmo al tavolo, quasi dovessimo mangiare, ma non era ora di cena e non avevo fame. «Io ti devo dire? Ma tu non capisci? Non ascolti? Non osservi? Resta più a contatto con loro, con tuo figlio. Valli a trovare. Se non sopporti lei, tua nuora, almeno fai il padre.»

    «Io non so fare il padre.»

    «E nemmeno il nonno? Non è che devo dirti io come si fa ad amare un bambino. Dovresti averlo imparato col tempo, per quanto sia una cosa del tutto naturale. È così spontanea che non serve un manuale di istruzioni.»

    «E che succederà dopo che si saranno divisi? Lei si prenderà tutto quello che ha? Pure il bambino?»

    «Lui le sta provando tutte con lei.»

    Quelle parole mi scossero nel profondo. «Quindi non andranno dall’avvocato a divorziare?»

    «Non lo so. Sono in una situazione critica, ma tu non ci pensare. Prendi in braccio almeno una volta il nostro nipotino. Vedrai che ti cambierà tutto il mondo. Fagli una carezza. Non si pagano.»

    «Lo so che non si pagano. Lo hai già detto!»

    «A me non sembrerebbe, Andrea. Ti vedo sempre teso, arrabbiato. Fosse per caso colpa del piccolino che ora dorme? Quando si farà più grande lo potrai portare con te in giro. Magari a vedere il mare a via Partenope, il Castel dell’Ovo. Vedrai, ti renderà felice, sarai così felice che nemmeno immagini. È facile.»

    «È sempre tutto facile per te.»

    «Potrai portarlo al parco quanto prima. Non è complicato badare a un bambino.»

    E poi al parco, col tempo, lo avevo portato con me e Anna qualche volta e, ora, da solo, lo avevo perso.

    «Andrea!» La mia voce era un bisbiglio, balbettavo, cercavo di impormi. Volevo gridare impazzito, ma non ci riuscivo, alzavo il tono appena un po’.

    «Francesco!» Teresa invece urlava, urlava e urlava.

    Non lo vedevo. Mi muovevo ovunque e non c’era.

    «Sono qui!» Teresa si rianimò. «Sono tutti e due qui.»

    Corsi da lei. Erano dietro a un albero.

    Andrea era in piedi fermo contro la corteccia che singhiozzava, mentre Francesco era di fronte a lui, coi capelli spettinati e un gran sorriso stampato sul volto.

    «Non ci gioco più con lui. È cattivo. Francesco è cattivo!» Il mio cucciolo era fuori di sé. Abbassò il viso, si spostò dall’albero e si sedette in terra accucciandosi, con le gambette contro il petto e il viso che si poggiava disperato sulle ginocchia.

    «Che accidenti hai combinato, Francesco!»

    «Dai, Teresa, forse…» Non sapevo proprio cosa dire perché, a differenza di mia moglie, non avevo la più pallida idea di come fare il nonno. Dovevo strillare contro il piccolo Francesco? Prendermela con Teresa? No di certo, la vita era già difficile per loro due e, a parte qualche lacrima, Andrea era lì e stava bene.

    «No, Andrea, mio figlio avrà anche quattro anni, ma se deve mettere in croce qualcuno si trasforma in una piccola peste, diventa così insopportabile da spingere gli altri in situazioni che non immagini. Lo fa anche con me, questo piccolo demonio.» Si voltò verso il figlio. «Che hai fatto ad Andrea? La prima volta che ci giochi e guarda che hai combinato!»

    «È un cretino! Non vuole fare quello che dico io.»

    Un man rovescio colpì il piccolo Francesco. «E se ti permetti ancora, a casa te le suono sul culetto.»

    Francesco sorrise, con un tal viso esultante, per nulla impressionato dal gesto della madre e dalla sue parole. «Devi solo provarci, mamma!»

    In effetti doveva essere un tale discolo da non avere paragoni con i bambini che mi era capitato di conoscere, in tutti quei compleanni dove mi invitavano sempre. Del tutto diverso dal mio Andrea.

    «Mai più con te. Non ti voglio vedere, né sentire mai più. Stammi lontano, capito?» Andrea lo guardava e singhiozzava. Aveva messo insieme molte più parole adesso che in tutti i mesi in cui io e lui eravamo stati nella stessa stanza.

    Mi inginocchiai accanto a mio nipote. «Francesco non lo ha fatto apposta ma, se vuoi, andiamo via.»

    Mi osservò con uno sguardo afflitto. Mi dispiaceva così tanto vederlo piangere, con quegli occhietti pieni di lacrime, labbra tremolanti, ma ringraziavo Dio di averlo ritrovato, e non sotto le ruote di un’auto.

    Lo presi tra le braccia – era così leggero – e gli appoggiai la testina sulla mia spalla sinistra mentre gli accarezzavo la schiena. «C’è il tuo nonno con te.»

    «Scusami se ti faccio arrabbiare, nonno, scusami.»

    «Tu non mi fai mai arrabbiare, piccolo.»

    Guardai Teresa. «Penso sia meglio andare via.»

    «Chiedi subito, anzi subitissimo, scusa ad Andrea, capito, Francesco?» urlò lei.

    «No. Ha detto che non gli piacciono i cani.»

    «E tu che hai fatto?» lo sfidai.

    Mi sorrise. «L’ho riempito di calci.»

    Teresa avvicinò le mani alle guance, poi mi guardò. «Sono allibita, mortificata. Scusami, Andrea.»

    «Facciamo finta di nulla. Sono così contento che li abbiamo ritrovati che possiamo metterci una pietra su. Si sono messi a giocare lontani da noi, perciò non li sentivamo. Dovrei essere arrabbiato, ma non lo sono.»

    Andrea mi strinse le braccia intorno al collo e pianse ancora.

    Gli lisciai ancora un volta la schiena, il capo. «Dai, nonno ti porta a casa.»

    «Non voglio che la nonna ti dica che non sei stato bravo con me, o che non lo sono stato io.»

    «Non lo dirà.»

    «Francesco?» Teresa incrociò le braccia sul petto.

    «Scusami, Andrea» mormorò. «Però è colpa sua, mamma. Perché non gli piacciono i cani?»

    Lo raccolse da terra e lo strinse tra le braccia anche lei. «Mi hai fatto morire di paura. Non lo fare mai più, intesi?»

    Francesco baciò sua madre sulle guance più volte. «Non volevo.» Mi guardò. «Scusami, signore. Ti sei spaventato pure tu.»

    «È tutto a posto. Non è successo niente.»

    Andrea era scosso; avvicinò la fronte al mio collo e sentii le lacrime scivolare sulla mia pelle.

    Lo avevo preso in braccio ed era un po’ che non lo facevo, lo coccolavo carezzandolo, sentendomi uno stupido per non avergli mai dedicato del tempo.

    «Scusa, Andrea» riprese il piccolo discolo.

    Mio nipote sollevò il capo, mi osservò, poi guardò Teresa e Francesco, esitante. «Io non gli ho fatto niente. Davvero. Lo giuro, signora. È stato lui. Ha iniziato lui.»

    «Aspettate, andiamo a sederci, ho delle salviettine umidificate, magari puoi pulirgli un po’ il viso e tua moglie non ti dirà nulla. Sono così mortificata, con questo discolo. Veramente, non so che dire.»

    Andrea annuì e strinse le labbra. «Nonnino, non farò la spia. Te lo prometto.»

    Per quel giorno avevo avuto la mia lezione. Avevo capito cosa voleva dire Anna quando parlava di quanto fosse semplice occuparsi di un bambino come Andrea.

    Gli passai il pollice sotto gli occhi per ripulirlo un po’ delle sue lacrime, ancora timoroso che mi vedesse solo come un vecchio burbero. Temevo che il cucciolo ferito non volesse più uscire con me proprio ora che lo avrei portato fino in capo al mondo. Avevo appena capito di essermi fatto prendere da migliaia e migliaia di stupidi pensieri e paure, ed ero pronto a ricacciarli, un po’ per volta. Pensieri su pensieri senza senso. Era bastata appena mezz’ora con mio nipote per rendermi conto che non avevo mai capito nulla.

    «Non c’è bisogno che prometti, tuo nonno lo sa quanto sei bravo.» Teresa gli sorrise, poi si rivolse a Francesco e si avvicinò col suo ometto a noi due.

    Il bimbo chinò il capo, poi allungò le sue labbra su una guancia di mio nipote e gli diede un piccolo bacio. «Mi dispiace.» Sbatté gli occhietti. «Andrea, scusa.»

    «Preme per avere un Beagle da me, ma non ce lo possiamo proprio permettere, e poi lui ha appena quattro anni. Non mi sembrerebbe il caso anche se fosse possibile. Dovrei badare a lui e al cane. Mi porterebbero al manicomio.»

    Sorrisi. «Già sa cosa vuole.»

    «Sì, e ha una tale chiacchiera che non ti dico.»

    «Si vede che gli vuoi un bene dell’anima» aggiunsi sorridendole.

    Tornammo a sederci. I bambini ripresero le loro attività. Francesco si stese sul prato allargando braccia e gambe e Andrea si appoggiò a un albero.

    «L’ho fatta grossa» mormorai.

    «Cioè?» Teresa guardò me, poi suo figlio.

    «Mi sono perso Andrea. Se non fosse stato per te io…» Spinsi le gambe in avanti e sospirai.

    «Non ci pensare. Piuttosto, hai visto mio figlio? Credi sia normale?» Sorrise. «Si è steso sul prato, come quando è al mare a prendere il sole.»

    «Forse è così che gli piace stare.»

    «Tuo nipote si è messo in disparte. Davvero sono dispiaciuta a causa della mia piccola peste.»

    Mi sistemai meglio ritirando di nuovo le gambe. «Penso che Andrea si senta in colpa verso di me. Sono sempre così taciturno con lui. Forse crede che lo sopporti appena. Mi vergogno di dirlo, ma in effetti io coi bambini non ci so fare per nulla, eppure suppongo di avere tanta voglia di imparare.»

    «L’importante è che lo hai capito. Non è facile, ma nemmeno difficile. Basta provare. Portalo a vedere il mare. A tutti i bambini piace.»

    «Buona idea.» Ero più sereno. «Andrea, vogliamo andare? Non torniamo a casa.»

    Si alzò, si avvicinò e mi restò accanto.

    Teresa ci salutò con un cenno della mano e Andrea ricambiò.

    Aveva il volto più radioso. Restò in silenzio il tempo di allontanarsi da Francesco e Teresa e mi diede la mano.

    Qualche minuto dopo riprese a singhiozzare.

    Due

    Ogni volta che guardo le foto dei vecchi album resto colpito. C’è sempre questa immagine di Andrea e dei suoi occhioni blu, il suo sorriso da bambino di appena due anni, con la manina a salutare verso la fotocamera. È una visione che mi trasporta indietro nel tempo. Non smetto mai di ripercorrere mentalmente quegli anni, e non posso fare a meno di ricordare il periodo in cui io non lo sopportavo. Mi chiedo, senza possibilità di perdonare il me stesso di allora, come fosse possibile.

    Rievoco quei suoi silenzi, lo stare a osservarmi in modo ossequioso, e questo non so se mi fa almeno un po’ ribrezzo, ribrezzo perché senza capirlo dovevo averlo traumatizzato e convinto che io fossi un iceberg impenetrabile mal disposto nei suoi confronti. Chissà quante volte si sarà chiesto cosa aveva fatto di male. Anni duri, sprecati nel dubbio perché ero un idiota.

    Ma la scena su cui torno sempre è quel giorno di inizio settembre in cui non lo vidi più e, come allora, mi domando cosa avrei fatto se gli fosse davvero successo qualcosa di più grave di una banale lite con un altro bambino al parco.

    «Che c’è nonno?»

    Oggi sono più sereno. Andrea ha appena compiuto sedici anni. È il 15 novembre del 2001.

    «Niente, cucciolo.»

    «Nonno, ma io sono grande, oramai. Sono ancora un cucciolo?»

    Dondolo la testa su e giù. «Lo sei, sì. Io invece invecchio.»

    Sono in piedi davanti ai fornelli in attesa che esca il caffè, quando sento le sue braccia stringersi intorno al mio corpo con delicatezza.

    «Ma dai, quale vecchio. Tu sei il nonno migliore del mondo. Il mio super nonno.»

    Ed è in momenti come questo, quando Andrea con un gesto semplice mi fa commuovere, che non posso davvero più smettere di pensare a quel momento, a Teresa Sacco che grida il suo nome e quello del figlio. È da quel giorno che non siamo più andati al parco, almeno non così spesso, e lui non ha incontrato più Francesco.

    «Non smetterò di odiarmi, sai?»

    «Odiarti? Ma dai, perché mai? Qualcosa con papà? Cosa è successo, stavolta?» Si scosta da me, poi il gorgoglio del caffè interrompe per un po’ la nostra conversazione. Andrea mi passa lo zucchero e poggia il sedere contro il bordo del lavello, le mani nelle tasche dei pantaloni. «Papà non ti ha mai capito, non mi piace nemmeno un po’ come ti tratta certe volte. Forse pensi di meritartelo perché in passato non sei stato più attento alle sue necessità. Io dico che lui sbaglia, e pure tanto. È un adulto da molto tempo oramai e dovrebbe smetterla, potrebbe parlarti con sincerità. Magari chiarire ogni cosa.»

    «È per te, cucciolo cresciuto.»

    Non ha giocato più con Francesco da allora e scommetto che nemmeno sa o ricorda chi sia quello che una volta era il piccolo Francesco Sacco. Mi sarebbe piaciuto se si fossero frequentati. Il figlio di Teresa poteva anche essere un po’ discolo, magari anche molto, ma qualcosa mi dice che alla fine avrà maturato un carattere altruista come sua madre e magari oggi, da ragazzino un po’ più maturo, avrebbe dimostrato ad Andrea il suo gran cuore.

    «Non smetterai di odiarti a causa mia? Perché? Cosa ho fatto?»

    «Tu? Tu proprio nulla. Sono io che non smetto di pensare a quando avevi quasi sei anni e io ero così scostante con te. Troppo.»

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