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Abbiamo tutti un blues da piangere
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Abbiamo tutti un blues da piangere

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Abbiamo Tutti un Blues da Piangere è un bellissimo viaggio autobiografico nella musica jazz dagli anni ’50 a oggi.
Dagli esordi lucchesi ai grandi palchi d’Italia e del mondo, Giovanni Tommaso ci racconta la sua carriera di musicista nata e cresciuta grazie a due preziosissimi elementi, il talento e la passione.

Contrabbassista, compositore, arrangiatore e direttore d’orchestra, Giovanni Tommaso nasce a Lucca il 20 gennaio del 1941. Si appassiona di musica fin da ragazzino e nel 1957 inizia l’attività jazzistica con il Quartetto di Lucca. È a New York tra il 1959 e il 1960; nel 1972 forma lo storico gruppo Perigeo, che guida fino al 1977, realizzando cinque album. Svolge un’intensa attività  in tutto il mondo, anche al fianco di prestigiosi gruppi come Weather Report e Mahavishnu. Sposato e con tanti figli e nipoti, vive attualmente nella campagna laziale.
LanguageItaliano
Release dateApr 30, 2021
ISBN9788830640955
Abbiamo tutti un blues da piangere

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    Abbiamo tutti un blues da piangere - Giovanni Tommaso

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    Giovanni Tommaso

    Abbiamo tutti

    un blues da piangere

    © 2021 Gruppo Albatros Il Filo S.r.l., Roma

    www.gruppoalbatros.com - info@gruppoalbatros.com

    ISBN 978-88-306-3580-7

    I edizione aprile 2021

    Finito di stampare nel mese di aprile 2021

    presso Rotomail Italia S.p.A. - Vignate (MI)

    Distribuzione per le librerie Messaggerie Libri Spa

    Abbiamo tutti un blues da piangere

    Prefazione di Barbara Alberti

    Il prof. Robin Ian Dunbar, antropologo inglese, si è scomodato a fare una ricerca su quanti amici possa davvero contare un essere umano. Il numero è risultato molto molto limitato. Ma il professore ha dimenticato i libri, limitati solo dalla durata della vita umana.

    È lui l’unico amante, il libro. L’unico confidente che non tradisce, né abbandona. Mi disse un amico, lettore instancabile: Avrò tutte le vite che riuscirò a leggere. Sarò tutti i personaggi che vorrò essere.

    Il libro offre due beni contrastanti, che in esso si fondono: ci trovi te stesso e insieme una tregua dall’identità. Meglio di tutti l’ha detto Emily Dickinson nei suoi versi più famosi

    Non esiste un vascello come un libro

    per portarci in terre lontane

    né corsieri come una pagina

    di poesia che s’impenna.

    Questa traversata la può fare anche un povero,

    tanto è frugale il carro dell’anima.

    (Trad. Ginevra Bompiani)

    A volte, in preda a sentimenti non condivisi ti chiedi se sei pazzo, trovi futili e colpevoli le tue visioni che non assurgono alla dignità di fatto, e non osi confessarle a nessuno, tanto ti sembrano assurde.

    Ma un giorno puoi ritrovarle in un romanzo. Qualcun altro si è confessato per te, magari in un tempo lontano. Solo, a tu per tu con la pagina, hai il diritto di essere totale. Il libro è il più soave grimaldello per entrare nella realtà. È la traduzione di un sogno.

    Ai miei tempi, da adolescenti eravamo costretti a leggere di nascosto, per la maggior parte i libri di casa erano severamente vietati ai ragazzi. Shakespeare per primo, perfino Fogazzaro era sospetto, Ovidio poi da punizione corporale. Erano permessi solo Collodi, Lo Struwwelpeter, il London canino e le vite dei santi.

    Una vigilia di Natale mio cugino fu beccato in soffitta, rintanato a leggere in segreto il più proibito fra i proibiti, L’amante di lady Chatterly. Con ignominia fu escluso dai regali e dal cenone. Lo incontrai in corridoio per nulla mortificato, anzi tutto spavaldo, e un po’ più grosso del solito. Aprì la giacca, dentro aveva nascosto i 4 volumi di Guerra e pace, e mi disse: Che me ne frega, a me del cenone. Io, quest’anno, faccio il Natale dai Rostov.

    Sono amici pazienti, i libri, ci aspettano in piedi, di schiena negli scaffali tutta la vita, sono capaci di aspettare all’infinito che tu li prenda in mano. Ognuno di noi ama i suoi scrittori come parenti, ma anche alcuni traduttori, o autori di prefazioni che ci iniziano al mistero di un’altra lingua, di un altro mondo.

    Certe voci ci definiscono quanto quelle con cui parliamo ogni giorno, se non di più. E non ci bastano mai. Quando se ne aggiungono altre è un dono inatteso da non lasciarsi sfuggire.

    Questo è l’animo col quale Albatros ci offre la sua collana Nuove voci, una selezione di nuovi autori italiani, punto di riferimento per il lettore navigante, un braccio legato all’albero maestro per via delle sirene, l’altro sopra gli occhi a godersi la vastità dell’orizzonte. L’editore, che è l’artefice del viaggio, vi propone la collana di scrittori emergenti più premiata dell’editoria italiana. E se non credete ai premi potete credere ai lettori, grazie ai quali la collana è fra le più vendute. Nel mare delle parole scritte per esser lette, ci incontreremo di nuovo con altri ricordi, altre rotte. Altre voci, altre stanze.

    Prefazione

    Quando nel 1619 una nave olandese con a bordo il primo contingente di schiavi provenienti dall’Africa, attraccò a Jamestown, in Virginia, si compì il primo, ma anche il più determinante passo verso la nascita di una nuova musica che in seguito si sarebbe chiamata jazz.

    Gli africani portarono le loro tradizioni folkloristiche, canti, danze, ecc… e queste, a contatto con la musica occidentale, nel giro di poco più di due secoli si fusero magnificamente in una nuova forma espressiva. Quella che più direttamente discendeva dai canti degli schiavi nelle piantagioni di cotone del sud degli Stati Uniti, noti come work songs, canti di lavoro, prese il nome di blues.

    Inizialmente si trattava di una semplice forma di 8 battute e successivamente diventò di 12, quella che tuttora viene usata. All’inizio degli anni ’40, con la nascita dello stile be-bop, la progressione armonica del blues ha subito qualche cambiamento, e da allora è rimasta essenzialmente la stessa, anche se ne esistono molteplici varianti che ogni jazzista può liberamente utilizzare o crearne delle nuove.

    Il termine blues discende dalla parola inglese blue, che significa triste. Gli afro-americani sono dei maestri inarrivabili nel cantare il blues, con una gamma di inflessioni timbriche che solo loro sanno fare.

    Per dare maggiore enfasi espressiva cominciarono a usare la cosiddetta blue note, la 5ªb della tonalità scelta, e non solo quella. Per esempio, se la tonalità fosse DO, la relativa 5ªb sarebbe SOLb (o FA#). Tradizionalmente veniva considerata nota dissonante, ma successivamente questa nota così caratteristica dette origine a una scala che venne comunemente codificata come scala blues così composta:

    Scala blues di DO = Do-Mib-Fa-Fa#-Sol-Sib-Do.

    Di scale blues ne esistono diverse, ma questa è la più usata. Tra l’altro ha la caratteristica che può essere usata ripetutamente nell’improvvisazione, essendo compatibile anche con gli altri accordi della forma blues. Non a caso nel rock viene spesso riciclata: così facendo i solisti, in particolare i chitarristi, possono concentrarsi sul suono, i glissati, i vibrati, ecc…

    Un aspetto che ritengo interessante è che suonare il blues non implica necessariamente ed esclusivamente usare la struttura del blues, l’importante è l’approccio, se è bluesy (quindi con blues feeling) si può suonare qualsiasi cosa.

    Non a caso, il disco più venduto della storia del jazz è stato Kind of Blue, del grande Miles Davis, a mio parere il trombettista più bluesy di sempre.

    Se all’inizio le blues song raccontavano storie tristi a tempo lento, successivamente questa caratteristica si allargò anche a storie allegre e umoristiche con tempi più mossi.

    Probabilmente, Bessie Smith è stata la più grande cantante di blues, ma in quanto a cantare bluesy, Billie Holiday era la più struggente. Non a caso sembra che fu la prima a usare l’espressione I cry the bleus. Lo disse a Sarah Vaughan quando, all’intervallo di un concerto, andò nel camerino di Billie per chiederle se avrebbe acconsentito a farle cantare un brano con lei. Acconsentì e chiese quale brano avrebbe voluto cantare. Sarah disse: How about a blues? e Billie la guardò negli occhi e sussurrò: Nobody can cry the blues like I do, e fu così che Sarah scelse un altro brano. Questa storia me la raccontò Michelle Barbieri, la ex moglie di Gato, che era presente in quel camerino.

    Ho intitolato questo mio libro Abbiamo Tutti un Blues da Piangere, perché mi piace e anche perché, ripensando a certi episodi della mia vita, ricordo bene quanto abbia sofferto vivendoli. Fortunatamente, posso dire che si è trattato di episodi sporadici. E comunque, con il blues si può anche ridere.

    Chi mi conosce sa che ho avuto l’enorme fortuna di suonare con alcuni dei più grandi musicisti della storia del jazz.

    Spesso i colleghi mi chiedono di raccontare qualche esperienza fatta con loro.

    Mostrano un grande interesse al punto da suggerirmi perché non scrivi un libro?

    Negli anni ho buttato giù qualche annotazione e gradatamente ho sentito il desiderio di cominciare dall’inizio, seguendo un percorso autobiografico legato alla mia evoluzione di musicista.

    Se qualche volta uso espressioni in inglese, non è per la sindrome da tu vvo’ fa’ ll’americano, ma più semplicemente perché in alcuni casi mi risultano più congeniali (dopotutto, a diciotto anni vivevo a New York e poi tra il 2001 e il 2006 a Dana Point, California, senza contare che ho avuto tre mogli americane, quindi… ).

    CAPITOLO I

    La pace del cioccolato

    Un pinocchietto di tre centimetri

    Nonostante la guerra e le ristrettezze economiche, ho avuto un’infanzia felice.

    In famiglia eravamo in cinque, mamma, babbo, mia sorella Lina e i miei fratelli Vito e Daniele.

    Mantenere un certo decoro, a cui tutti tenevano, era impresa non facile per i miei genitori. Mio padre non era incline alla conversazione sull’argomento (immaginarmi cosa potesse provare nel non riuscire a darci ciò che avrebbe voluto era per me struggente); mia madre, invece, quando la facevamo arrabbiare, ci ricordava la cruda realtà e ciò bastava per riportare noi figli all’ubbidienza. I problemi economici, che durante e subito dopo la guerra erano frustranti, paradossalmente ebbero su di me l’effetto benefico del ridimensionamento di altre problematiche legate alla mia crescita, come per esempio il classico conflitto generazionale che ho risolto senza traumi. Forse questa consapevolezza fece sì che mi accontentassi di poco, come quasi tutti quelli della mia generazione, e credo mi abbia segnato in maniera positiva.

    È passato molto tempo da allora, ma i ricordi sono ancora vivi. Ricordare è per me una grande emozione e per questo dico: io vivo i miei ricordi, ma NON vivo di ricordi.

    Se dovessi fare un bilancio del tipo di educazione che ho ricevuto dai miei genitori direi che è stata di spessore morale, senza troppa retorica e troppi sermoni, ma con molti esempi comportamentali. Ripensandoci, un’educazione decisamente all’avanguardia. Avevo una grande stima nei loro confronti, ma quando litigavano (raramente) non riuscivo a rimanere imparziale e prendevo le parti di chi, secondo me, stava subendo un torto, ovviamente tenendo tutto per me. Credo sarei stato un buon giudice.

    Con noi il rapporto era abbastanza aperto e potevamo tutti esprimere le nostre opinioni, certamente non in maniera così disinibita come si fa oggi. A casa degli altri avevo notato un tipo di educazione più autoritaria, la norma era che gli adulti parlavano e i più piccoli ascoltavano, così andava il mondo. Ogni tanto lo ricordavo ai miei figli quando da piccoli a tavola parlavano troppo. Trovo sia giusto che i bambini non siano costantemente protagonisti. Aiuto, può sembrare un quadretto patriarcale di primi Novecento, ma il rito del pranzo (non esiste più), e della cena, (in via di estinzione) con tutta la famiglia seduta attorno al tavolo, senza televisore che rompe (!) è un’opportunità per scambiarsi le impressioni sulla giornata, senza sottovalutare la possibilità per i grandi di raccontare qualche storia del passato, anche lontano (cercando di evitare quell’odioso vizio senile di dire sempre le stesse cose!). Solo così si può salvare uno spaccato di memoria storica che altrimenti andrebbe irrimediabilmente perduta. Ecco, in tali occasioni, i più piccoli, ma anche i giovani, possono tacere e ascoltare (ma c’è ancora chi lo fa?), anche se talvolta potrebbe trattarsi di cazzate!

    Ben inteso, niente parolacce a casa nostra! Non perché fossero mai state proibite esplicitamente, ma solo perché babbo e mamma non le hanno mai dette e quindi era naturale non farne uso. Ecco che di nuovo viene fuori l’esempio del comportamento e della sua grande forza educativa. I miei genitori erano siciliani, mio padre si chiamava Giuseppe e mia madre Giuseppina, ma da sempre li chiamavano Pino (Peppino i fratelli) e Pina.

    Mio nonno paterno, Vito, preside di liceo classico, morto prima che io nascessi, aveva voluto che tutti i figli maschi si laureassero. Le due figlie, forse per una tipica discriminazione di allora, non ricevettero lo stesso tipo di educazione, anche se una di loro, zia Maria, per la sua profonda fede religiosa, studiò teologia. Babbo era il più grande di otto fratelli, sei maschi e due femmine, e presto lasciò la Sicilia per andare a studiare a Milano all’Università Cattolica. Per svoltare un po’ di soldi suonava il pianoforte nei cinema dove si proiettavano i film muti (che strano, non gli ho mai chiesto come e quando avesse cominciato a suonare). Una volta mi disse che durante le scene commoventi, se riusciva attraverso la musica a comunicare questa emozione, le donne piangevano e gli uomini dicevano ad alta voce bravo maestro! , forse per farsi coraggio ed evitare la lacrimuccia. Questo lo gratificava molto, ma voleva anche dire che sarebbero arrivate le mance sul piattino messo sopra il pianoforte. Si laureò in scienze politiche e dopo poco si sposò. A Castelvetrano, in provincia di Trapani, nacquero mia sorella Lina e, un paio di anni dopo, mio fratello Vito. Quasi subito dopo tutta la famiglia si trasferì a Milano, poi a Como, nella parte Svizzera, dove babbo lavorò per un periodo alla Dogana, come impiegato statale, poi a Roma e successivamente a Lucca, dove sono nato io il 20 gennaio 1941, seguito da Daniele, il più piccolo di noi, nel ’53. Mi ricordo che allora non avevamo ancora il telefono in casa, e una mattina il sor Giovanni, il barista del mitico bar Livorno sotto casa (dove sono praticamente cresciuto) suonò il campanello e da sotto mi urlò: è un maschiooooo! Io ero considerato il coccolo di casa e tutti mi dicevano: Oh, Giovannino, tu’ fratello ti farà ccasca’ dal seggiolone! che voleva dire che non sarei più stato il cocco di casa, e infatti così andò. La cosa non mi è mai dispiaciuta, era ora che crescessi e comunque era tale l’eccitazione di avere un fratellino che per me fu del tutto normale che Daniele diventasse il nuovo coccolino di casa. Abbiamo tutti dato una mano a tirarlo su, Lina e io in particolare, e sempre con gran divertimento. Il nuovo arrivo aveva ringiovanito babbo e mamma, anche se per lei deve essere stata abbastanza dura, non era più giovanissima. L’unico episodio in cui Daniele mi risultò un po’ ingombrante fu quando una domenica pomeriggio incappai in una figuraccia che ancora me la ricordo.

    Avevo da poco conosciuto una ragazza molto bella, dai capelli rossi, non ricordo come si chiamasse (somigliava molto a Carole, la mia prima moglie) e un sabato mi chiese se ci saremmo potuti vedere nel pomeriggio della domenica successiva. Sarebbe stato il mio primo appuntamento e ci sarei andato molto volentieri, ma… sapendo che i miei mi avrebbero ammollato Daniele, feci il vago e le dissi che avevo un impegno. Il pomeriggio seguente, non lontano da casa, mentre portavo Daniele a spasso con la carrozzella, mi spunta davanti lei che mi guarda e mi fa: È questo l’impegno che avevi? Aiuto! Che imbarazzo! Credo di essere diventato rosso come i suoi capelli. Eppure, a ripensarci, non avrei fatto meglio a dirle la verità? Forse allora fare il baby-sitter era considerato umiliante, infatti non l’ho più cercata, la rossa, anzi ho deliberatamente evitato di bazzicare la sua zona e non l’ho mai più rivista, sarà stato il destino.

    Alcuni compagni di mio padre che studiavano alla Cattolica sarebbero diventati personaggi illustri della politica italiana, come il senatore Fanfani e altri che non ricordo (so che esiste una foto di gruppo da qualche parte); forse anche babbo aspirava a qualcosa di più ambizioso, infatti una volta mi confessò che avrebbe voluto intraprendere la carriera giornalistica, e mi fece leggere un paio di articoli che aveva scritto: erano argomenti difficile da capire, ma secondo me la stoffa ce l’aveva, mi fecero una buonissima impressione. Purtroppo le difficoltà oggettive del momento lo indussero alla scelta che si sarebbe rivelata irreversibile, quella del posto sicuro. Questa scelta gli pesò enormemente, era così ovvia la sua scontentezza e la mancanza di gratificazione che anche se non ne parlava la si poteva percepire. Mi ricordo benissimo l’odore del suo ufficio a Lucca, una mistura di carta, sigarette e quello suo personale che mi risultava molto gradevole, anche perché babbo era un uomo che ci teneva molto all’igiene personale. Mi diceva: la vedi quella? riferendosi alla marea di documenti ammassati uno sopra l’altro, è tutta cartaccia!

    Si fece così tutta la gavetta del funzionario statale, e solo verso la fine della sua carriera come intendente di finanza raggiunse il massimo grado e con il titolo di Cavaliere finalmente arrivarono le soddisfazioni. Tutto considerato, credo che il periodo più felice per i miei genitori sia stato quando babbo fu nominato intendente di finanza di Brindisi, all’inizio degli anni ’70, dove si trasferì con mamma e Daniele per qualche anno. Io e la mia famiglia andavamo a trovarli ogni tanto e finalmente potevo vederli entrambi sereni e felici. La sua carica gli imponeva riunioni con le più alte cariche della città, come il Prefetto, il Questore, l’Ammiraglio della Marina Americana e altri, e quindi anche un po’ di vita sociale e mondana (con l’autista a disposizione), e questo voleva dire cerimonie, cene, qualche volta balli, etc… e soprattutto abiti da sera: finalmente ciò che mamma aveva sempre sognato si era avverato, dopo tanti anni di sacrifici.

    Durante la guerra mio padre fu rastrellato dai tedeschi, e per dieci mesi non se ne seppe nulla. Mamma rimase sola con noi tre, fu molto dura.

    I tedeschi si stavano ritirando, il loro esercito era stato decimato e poiché volevano proteggersi la ritirata verso nord avevano bisogno di mano d’opera, così reclutavano tutti gli uomini che trovavano per strada.

    All’epoca ero veramente piccolo, ricostruendo questi episodi potrei dire di aver avuto tre o quattro anni, però hanno segnato così profondamente la mia memoria che non li dimenticherò mai, a meno che non arrivi il maledetto oblio senile… spero di no!

    Un giorno stavamo uscendo per una passeggiata io e babbo, mano nella mano, quando davanti al portone di casa stava sfilando una pattuglia tedesca. Uno di loro, doveva essere un ufficiale, si fermò e ordinò ad alta voce a mio padre di seguirli. Babbo parlava tedesco abbastanza bene, e tentò di dissuaderlo spiegando che era un funzionario di Stato. Si scambiarono animatamente poche parole, ma non servirono a niente, due soldati lo presero di forza e lo portarono via. Io rimasi impietrito per qualche istante, poi corsi a casa da mamma piangendo.

    Dieci mesi dopo, nello stesso posto, davanti casa rividi mio padre tornare.

    Mamma mi disse: scendi giù, vai ad aprire la porta. Ero eccitato senza sapere il perché e mi precipitai giù per le scale quasi intuendo che stava per accadere qualcosa importante (ora che ci penso fu il primo esempio di intuito, telepatia o forse qualcosa di più che a questo punto della mia vita posso dire di avere). Apro il portone di casa e… era babbo che mi aspettava a braccia aperte! Dietro di lui un furgoncino a pedali pieno di pacchi. Babbo era tornato! La gioia era immensa. In pochi minuti si era sparsa la voce e avevamo la casa piena di gente a far festa. In quei pacchi c’erano regali per tutti; non ricordo il mio, ma ricordo che per mamma c’erano tanti bei vestiti e calze di seta, simbolo dell’eleganza femminile.

    Una sera di qualche anno dopo (non saprei dire quanti) babbo mi raccontò come riuscì a fuggire dalla prigionia. Rimasi a bocca aperta, totalmente affascinato.

    Lui e la sua squadra erano di Lucca, alcuni anche vicini di casa che non ce la fecero a tornare. Dovevano marciare a nord verso la Germania. L’ordine era di demolire i ponti subito dopo il passaggio della truppa tedesca, per proteggere la loro ritirata.

    Uno di questi era particolarmente danneggiato dai bombardamenti, ma era l’unica via possibile verso nord e quindi avrebbero dovuto ripararlo nel più breve tempo per permettere il transito della truppa, per procedere a distruggerlo subito dopo. Tutto questo avrebbe richiesto qualche giorno. Mio padre e tutti i prigionieri avevano fatto un accordo tra di loro: di giorno costruivano, poi la notte, a turno, qualcuno cercava di nascosto di demolire parzialmente quello che avevano costruito di giorno. L’intento era di perdere tempo. Erano atti coraggiosi, direi eroici, ma lo fecero per spirito patriottico. Quando fu il turno di babbo, grazie alla sua conoscenza della lingua, riuscì a captare una conversazione tra due ufficiali tedeschi in cui dicevano che di essersi accorti che i prigionieri italiani boicottavano i lavori e il giorno dopo li avrebbero fatti fuori tutti. Non c’era più tempo. Allora sparse la voce: ragazzi stanotte dobbiamo filare. Qualcuno non ce la fece, ma altri riuscirono a scappare e babbo fu uno di questi. Non ricordo come, ma arrivò fino a Milano, dove sapeva che per un po’ avrebbe avuto ospitalità da suo fratello, lo zio Ottorino.

    All’epoca, quello da Milano a Lucca era un viaggio molto rischioso, c’erano ancora gli sbarramenti e i tedeschi. È difficile immaginarsi il caos di allora. L’esercito italiano era sgretolato, non si capiva più chi comandasse, e per questo motivo babbo decise di rimandare il suo ritorno a casa. Non ricordo quanto tempo rimase in casa dello zio Ottorino. Lui e sua moglie, la zia Carla, lo trattarono molto affettuosamente e credo anche che quel periodo gli servì per fare qualche soldarello per poter comprare tutti quei regali che poi ci avrebbe portato.

    Durante l’ultimo periodo della guerra c’era una trasmissione radiofonica per i soldati, i dispersi e le loro famiglie. La posta non funzionava, allora babbo mandò un messaggio tramite questa trasmissione: Sono vivo, appena posso vengo. Mamma non lo sentì, ma dei vicini di casa che avevano ascoltato la trasmissione andarono immediatamente da lei a darle la notizia, anche se con un po’ di riserbo. Mamma cominciò a sperare che fosse ancora vivo e infatti era così.

    Noi abitavamo al secondo piano di una palazzina a due piani, a Lucca fora (si diceva Lucca fora e Lucca drento, se era dentro le mura) in via (allora si chiamava Borgo) Giannotti n° 32, dove sono nato. Ricordo benissimo le sirene d’allarme, soprattutto quelle della notte. Come dimenticarle…

    Quando suonava l’allarme voleva dire che stavano per bombardare la città e quindi noi dovevamo rifugiarci da qualche parte. Mamma si faceva aiutare da Lina e Vito a portare un paio di materassi giù nel sottoscala, dove c’era un pianerottolo abbastanza riparato, e lì passavamo la notte, dividendo quel piccolo spazio con l’altra famiglia che abitava al primo piano, ci si arrangiava alla meglio. Appena sentivo il sibilo delle bombe che cadevano mi stringevo attorno a mamma, aspettavo lo scoppio e poi un boato assordante… anche quella volta l’avevamo scampata. Era tremendo. Altre volte, invece, gli aerei sorvolavano senza bombardare, allora mi abbracciavo a mamma e la paura finiva, così riuscivo a fare anche delle grandi dormite (i vantaggi dell’incoscienza).

    Nell’ultimo periodo della guerra, credo tra il ’44 e il ’45, per allontanarci dai bombardamenti che colpivano il centro e l’immediata periferia ci rifugiammo alla Billona, un paesino di campagna fuori Lucca. Da allora non sono più riuscito a trovarlo.

    Abitavamo accanto a una specie di spaccio, dove vendevano le bibite e un tipo di birra con un odore così forte che quasi ubriacava. In casa i pavimenti erano fatti con tavole di legno, c’era sempre un gran polverone. Ero un bamboretto (come si dice a Lucca), giocavo e saltavo, regolarmente mi andava la polvere negli occhi e cominciavo a piangere, ma le lacrime mi facevano passare il bruciore. Spesso salivo su una balconata attorno al tetto da dove potevo vedere gli aerei che ci volavano sopra.

    Il rumore dei bombardieri (erano quadrimotori a elica ), soprattutto quando volavano in grandi formazioni, producevano un tale rombo sulle basse frequenze che mi terrorizzava, ancora oggi basta che un bimotore mi sorvoli, che subito riaffiorano quei ricordi.

    Lucca 1946, la famiglia Tommaso (da sinistra Vito,babbo,mamma,Zia Maria, Giovanni e Lina. Daniele l’ultimo fratello, sarebbe nato nel 1953.

    In quei giorni avvenne un episodio che, per tanti versi, ha segnato la mia vita.

    Nell’ultimo periodo in cui vivevamo alla Billona, finalmente arrivarono gli americani.

    Un plotone marciava vicino a casa nostra, rimasi incantato. Erano alti, belli, con l’elegantissima divisa color nocciola, sentii di volergli bene come se ne vuole a chi viene a salvarti. Il ritmo molto sincronizzato della loro marcia faceva un gran rumore, sembrava musica! Quando un soldato passò davanti a me allungò una manona nera e mi regalò una cioccolata, mi sembrò enorme. La mangiai avidamente. Non ne portai a casa nemmeno un pezzettino, né a mio fratello né a mia sorella, non lo dissi a nessuno.

    Dopo qualche tempo, credo un bel po’ ma non saprei se si trattò di giorni o mesi, ebbi una crisi di coscienza e raccontai tutto. Vito mi rimproverò così tanto che ho avuto un complesso di colpa che mi sono portato dietro per anni, finché un giorno però c’ho ripensato e mi sono detto ero piccolo, avevo fame, mi sono trovato in mano questa cioccolata, che dovevo fare? E così l’ho mangiata tutta! So bene che avrei dovuto dividerla con Lina e Vito, fu proprio una mascalzonata, ma ho deciso di assolvermi. Tra l’altro, questo episodio, molto ma molto tardivamente, ha generato un simpatico quadretto familiare.

    A Natale, molto spesso a casa mia, la tradizione vuole che tutta la nostra famiglia, fratelli, sorella, nipoti, una trentina di persone in tutto, si riunisca a pranzo e cena del 25 e a cena del 26. Pochi anni fa, mio nipote Gepy, uno dei tre figli di Vito, dotato di humor vagamente anglosassone, disse: Adesso dobbiamo celebrare la cerimonia di riappacificazione sulla cioccolata che zio Giovanni mangiò senza dividerla né con la zia Lina né con papà!. Ne seguì con applausi un abbraccio simbolico di riappacificazione. A ripensarci, credo che quell’episodio del soldato che mi dà la cioccolata sia stato determinante a far nascere in me il mito dell’America e poi del jazz. Una volta ho perfino fantasticato che potesse essere stato un grande jazzista, magari Charlie Parker!

    Gli americani per me sono stati i salvatori della Patria. Il tiro al bersaglio contro gli Stati Uniti è sempre stato uno sport molto praticato in Italia, soprattutto negli anni ’70. Molti hanno accusato gli americani di aver messo all’incasso lo sbarco in Normandia, ma basta contare le migliaia di giovanissimi soldati americani che giacciono nei cimiteri sparsi in tutta Europa e nelle nostre città per rendersi conto che il primo prezzo l’hanno pagato proprio loro. Certo non dimentico lo sterminio degli indiani d’America, le terre confiscate ai messicani e pagate una manciata di dollari o le guerre in paesi lontani che costituirebbero una minaccia presunta per l’occidente, ma diciamocelo chiaramente, l’Italia è una piccola potenza e da qualche parte deve pur stare.

    Immaginiamo solo per un attimo cosa sarebbe stato del mondo se la Germania nazista avesse vinto la guerra insieme con l’Italia fascista. Dio ce ne scampi e liberi! (come dicevano le timorate di Dio lucchesi) e allora? Allora prima o poi arriva un momento in cui una nazione meno potente deve scegliere con chi stare, anche se talvolta non se ne condivide a fondo l’ideologia. È troppo facile usare la protezione solo nei momenti di bisogno. Io sono grato agli Stati Uniti, a quell’America che ci ha salvato dal nazismo e dal fascismo, che ha investito così tanto in ricerca scientifica e tecnologica, i cui risultati sono a beneficio di tutta l’umanità (certo, qualche bufala ce l’hanno ammollata, vedi l’agricoltura transgenica o il rifiuto di limitare certe produzioni responsabili di danneggiare l’ozono) e, last but not least, il JAZZ!!! Dove altro poteva nascere se non in un paese dove il nord ha fatto la guerra al sud per abolire la schiavitù dei neri?! (lo so, non solo per questo). Adesso il razzismo ce l’abbiamo in casa nostra, è diventato anche un nostro problema, e su questo l’Italia è divisa in due. Un’interessante teoria sugli Stati Uniti la sentii dire da un amico che frequentavo verso la seconda metà degli anni ’70, in piena contestazione, si chiamava Kim Arcalli, famoso montatore di cinema che aveva lavorato con registi come Antonioni e Bertolucci (è morto nel ’77). Kim, comunista autentico, era stato partigiano durante la guerra; una sera, durante una cena con amici a casa mia, rivolse a tutti noi una strana domanda: In quale paese vi rifugereste se in Italia dovesse scoppiare una dittatura di destra? Alla fine disse la sua: Gli Stati Uniti sono l’unico Paese in grado di garantire la democrazia. Rimanemmo tutti colpiti da quell’affermazione, conoscendo bene le sue idee politiche, poi però ci fornì spiegazioni tali da risultare molto convincente, io peraltro ho sempre condiviso la sua tesi.

    Tornando alla mia famiglia, mamma era casalinga, atta a casa, come si usava dire, e anche lei aveva un grosso talento musicale. Cantava da mezzo soprano, era intonatissima, aveva un bel timbro e un bellissimo vibrato, ampio e lento.

    Mi ricordo quando i miei ricevevano in salotto amici loro per una partitella a poker. C’era il pianoforte, e quando finivano di giocare c’era sempre qualcuno che diceva: Vai Pina, cantaci qualcosa!. Mamma, con quel tipico vezzo femminile, accennava a un rifiuto educato che durava pochi secondi e nel frattempo babbo era già al pianoforte con gli spartiti. Suonava di rado, solo in queste situazioni, e per questo aveva bisogno di leggere la parte. Aveva una buona lettura, e poi avere lo spartito davanti credo lo facesse sentire più professional. Mamma amava le arie d’opera ma la sua vera passione erano le canzoni napoletane e a un certo punto arrivava puntualmente Core ’ngrato, anche se in realtà è una canzone tipicamente tenorile e con un testo che parla di un uomo tradito. Era un cavallo di battaglia di Caruso. Finalmente, dopo i convenevoli, la musica: intro di pianoforte con citazione del tema, segue una melodia articolata che richiede una bella estensione; mamma ha una voce calda e potente da spaccare i bicchieri, e io osservo le facce degli ospiti: sono ammaliati. Alla fine grandi applausi, un successone! Alla richiesta di un bis, da artista consumata, con lo stesso vezzo di prima, educatamente non concede, brava! Mi emozionavo molto a vedere i miei genitori che facevano questo spettacolino.

    Babbo morì giovane, nel ’73, alle soglie dei 65 anni, poco prima di andare in pensione (infatti è stata una beffa non poter usufruire del massimo della pensione per pochissimi giorni); mamma invece morì nel ’92. Fortunatamente era abbastanza anziana, aveva quasi 80 anni.

    Caratterialmente, i miei erano abbastanza diversi: mamma apparentemente arrendevole, preferiva subire anziché litigare, del tipo porgi l’altra guancia, babbo invece aveva un carattere molto forte, senza alzare la voce usava le parole come armi letali (mia moglie Kelly dice la stessa cosa di me, chi sa da chi avrò preso?). Mi ricordo una volta dal macellaio dopo che si raccomandò che gli tagliasse un buon pezzo di carne, al momento di pagare strappò in due una banconota e disse: Se è buona, dopo averla mangiata le porterò l’altra metà, se invece è come quello schifo che mi ha dato l’ultima volta… !. Oppure quella volta quando gli portai una nota da firmare in cui la professoressa aveva scritto: Suo figlio non sa la matematica. E lei gliela insegni!, fu la sua risposta, infatti fui bocciato. Anch’io ho sulla coscienza una bocciatura di mia figlia Vivian a causa di uno scontro verbale con la sua professoressa di italiano, ma se lo meritava. Avrei dovuto farne a meno, ma…

    Ho voluto molto bene ai miei genitori, ma con sentimenti mutevoli. Da bambino ero molto attaccato a mia madre, crescendo mi sono avvicinato di più a mio padre, probabilmente è successo a tutti. Di mamma conservo un’interminabile serie di ricordi, alcuni davvero indimenticabili. Ricordo che nel primo dopoguerra dovette affrontare un lungo periodo di ristrettezze e sacrifici. Era struggente sentirla fare la lista della spesa sussurrando gli alimenti che avrebbe voluto comprare, ma il totale era sempre più alto della cifra disponibile e quindi era costretta a eliminare qualcosa, ma cosa? Allora usava il criterio dell’indispensabile e a rotazione qualcosa saltava per quel giorno, per riproporlo quello successivo. Non so come, ma alla fine riusciva a far quadrare tutto. Sì, per me era struggente e lei lo capiva, ma alla fine ci scherzava su grazie anche al grande senso dell’umorismo che ha conservato fino all’ultimo.

    Ricordo che

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