8 settembre: Racconto immaginario di un armistizio
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Anteprima del libro
8 settembre - Enrico Finazzer
PARTE PRIMA: La Preparazione
I.
Il vecchio Maresciallo era chino sulla carta geografica, dando un’ultima occhiata alla disposizione delle unità: oramai mancava poco…
Il sole cominciava lentamente la propria discesa verso l’orizzonte e finalmente dalle finestre dell’ufficio aperte sul corso sottostante¹ entrava una leggera brezza di fine estate; mentre distrattamente seguiva il volo irrequieto di alcune rondini che si preparavano al grande volo verso sud, egli si domandò se fosse stato fatto tutto il possibile, se fosse stato predisposto tutto il necessario. Con la mente ripercorse i momenti più difficili della sua lunga carriera militare e anche quelli più fausti: la presa del Sabotino, esempio di maestria tattica, i tragici giorni seguenti la rotta di Caporetto, le operazioni in Abissinia e l’entrata trionfale in Addis Abeba, momento di massima esaltazione in tutta Italia, e le sue sofferte e inutili dimissioni poche settimane prima della dichiarazione di guerra, che non avevano potuto impedire la tragedia.
La sua era stata una carriera contraddistinta da molti alti e pochi, transitori, bassi; da buon piemontese aveva un carattere duro e anche un po’ taciturno, ma negli anni era riuscito a farsi benvolere negli ambienti giusti. La fedeltà sempre ribadita alla Corona lo aveva reso gradito al Re, le glorie militari lo avevano reso funzionale al Regime che strombazzava ai quattro venti velleità guerresche.
Si chiese a questo punto, probabilmente per la centesima volta, se la scelta di rinviare il necessario passo fosse stata quella giusta, se non sarebbe stato meglio rompere l’alleanza immediatamente dopo le dimissioni di Mussolini e la formazione del nuovo governo militare sotto l’egida del Re… Le sei settimane trascorse nelle febbrili trattative con gli Alleati e nella preparazione dei reparti, oltre che degli animi, alla resa e al rovesciamento di campo avrebbero dato i loro frutti? Oppure si sarebbero rivelate un regalo per i tedeschi? Ancora poche ore e lo avrebbero saputo!
Un colpo di tosse lo richiamò dai suoi pensieri e solo allora parve ricordarsi degli altri uomini presenti come lui nell’ufficio, nel quale erano riuniti pressoché in permanenza da giorni. Passò rapidamente in rassegna quei volti dai quali trasparivano la sua stessa tensione e la sua stessa stanchezza, ma vi avvertì anche la rassicurante risolutezza di chi è consapevole del fatto suo.
Il Capo di Stato Maggiore Generale, Vittorio Ambrosio, in piedi all’altro capo della lunga tavola, stava confabulando con il Capo di Stato Maggiore dell’Esercito, Roatta. I due, compagni d’arme oramai da anni e stretti collaboratori dai tempi dell’occupazione della Jugoslavia, si scambiavano le ultime impressioni e tentavano di fugare gli ultimi dubbi facendo per l’ennesima volta il punto della situazione. Dando per scontata ovunque la pronta reazione tedesca, una del le preoccupazioni dei due generali era l’atteggiamento che avrebbero assunto i movimenti partigiani che oramai, specie in Montenegro e in Grecia, controllavano una parte non trascurabile del territorio occupato dalle Forze Armate al di fuori dell’Italia. Ricordandosi anche delle misure di controguerriglia draconiane emanate a suo tempo, essi dubitavano che i partigiani di Tito sarebbero stati troppo benevoli con i militari italiani, per quanto oramai non più in guerra al fianco dei tedeschi. Peraltro nelle settimane passate era stata scartata, per evidenti motivi di segretezza, l’opzione di intavolare trattative in loco, preferendo correre il rischio di posticipare i contatti a un momento successivo all’annuncio, piuttosto che venire prematuramente smascherati agli occhi dei tedeschi da qualche informatore.
Ambrosio passò le dita nel colletto della camicia: la cravatta perfettamente annodata gli creava un certo senso di disagio, dovuto forse più alla tensione che non al caldo clima romano. A 64 anni, in 45 anni di distinta carriera come ufficiale di cavalleria e poi negli alti gradi del Regio Esercito, aveva combattuto durante la guerra italo-turca, nella Grande Guerra e poi durante la breve campagna contro la Jugoslavia poco più di due anni prima, ma non ricordava di avere mai affrontato un momento tanto difficile, dal quale dipendevano la vita e la morte non di singoli individui, che questa è, purtroppo, l’essenza della guerra, ma dell’intera Nazione. Neppure nei convulsi giorni di Caporetto, mentre con la 3a Divisione di cavalleria cercava di proteggere la ritirata dei reparti di fanteria verso il Piave, aveva dubitato che le Forze Armate italiane avrebbero retto l’urto e alla fine avrebbero recuperato il terreno perduto. All’epoca, tuttavia, c’era una linea ben definita tra l’amico e il nemico, oggi la situazione era molto diversa, mai veramente vissuta prima…
Con uno sguardo, Ambrosio indovinò i pensieri di Roatta; quest’ultimo, come capo di Stato Maggiore dell’Esercito, vedeva gravare sulle proprie spalle la responsabilità maggiore. Letteralmente, la sorte di milioni di uomini dipendeva delle direttive emanate, in maniera giocoforza segretissima, nei giorni precedenti e dalle decisioni che avrebbe assunto nelle ore successive, di fronte a eventi che potevano essere previsti fino a un certo punto: von Moltke, in uno dei suoi famosi aforismi, aveva affermato che nessun piano sopravvive al contatto col nemico
, e mai questo gli era sembrato più vero di ora. A 56 anni, si era fatto la fama di duro
per la mano ferma con cui aveva cercato di reprimere la guerriglia partigiana in Croazia, dove aveva comandato la 2a Armata, e per l’altrettanto ferma repressione delle manifestazioni di piazza all’indomani del cambio di governo del luglio precedente: non se ne faceva un cruccio, in circostanze eccezionali erano necessari provvedimenti eccezionali! Certo rimpiangeva i tempi in cui aveva potuto semplicemente comandare i suoi reparti sul campo e anche i tempi della guerra in Spagna, quasi 10 anni prima: non fosse stato per quella macchia di Guadalajara… Ma da quella cattiva esperienza aveva ricavato un insegnamento che gli era tornato utile nel prosieguo della sua carriera e che, sperava, gli sarebbe venuto in aiuto nel presente: mai sottovalutare il nemico, per debole che pos sa sembrare, e mai trascurare di concertare la propria azione con gli alleati del momento. Già, gli alleati, o meglio, gli Alleati. Proprio in quei momenti, se tutto procedeva secondo i piani, i paracadutisti si preparavano alla partenza dagli aeroporti della Sicilia: era imperativo che trovassero gli aeroporti attorno a Roma sgombri e saldamente in mano italiana.
Roatta si tolse gli occhiali tondi che inforcava fin da giovane, ne ripulì le lenti con un fazzoletto candido, con movimenti lenti e metodici, e con lo stesso fazzoletto si asciugò discretamente la fronte leggermente sudata. Si guardò attorno cercando una delle brocche che venivano regolarmente riempite di acqua fresca e, versatosene un bicchiere, si avvicinò al Capo di Stato Maggiore della Regia Aeronautica, Sandalli, la cui uniforme blu dava un tocco di colore in quella sala in cui dominava il grigio-verde dell’Esercito, solo poco attenuato dal bianco della Regia Marina. Le prime ore dopo l’annuncio sarebbero state nelle sue mani: perduti gli aeroporti e, con essi, l’appoggio Alleato, la situazione attorno a Roma, dove stazionavano importanti unità tedesche, si sarebbe complicata moltissimo.
Riusciremo a tenere gli aeroporti, Renato? Gli americani non ci perdonerebbero di averli fatti arrivare sopra Roma per farli ritornare indietro a pieno carico. E poi sai quanto sia importante per noi quella divisione per tenere ben salda la Capitale!
Le unità sono al loro posto, lo sai bene
rispose quasi stizzito il Generale. Gli uomi