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8 settembre: Racconto immaginario di un armistizio
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Ebook177 pages2 hours

8 settembre: Racconto immaginario di un armistizio

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Siamo nel tardo pomeriggio dell'8 settembre, il Maresciallo Badoglio sta per dare l'annuncio dell'armistizio ai microfoni dell'EIAR e, nell'attesa, presiede una riunione dei vertici militari del Paese, nel corso della quale si ripassano…i piani per la difesa del territorio nazionale e delle unità militari all'estero dalla reazione tedesca! Cosa sarebbe successo se ci fossero state volontà e capacità di prendere posizione contro la Germania nazista? Cosa sarebbe successo se le nostre unità militari fossero state messe nelle condizioni di difendersi dai tedeschi? Cosa sarebbe successo se Badoglio, la famiglia reale e i generali non fossero fuggiti senza aver predisposto alcuna misura? Partendo da queste domande, l'autore immagina un diverso destino per l'Italia e per gli italiani in quelle fatidiche ore. L'opera si colloca nel genere dell'ucronia o, per dirla all'inglese, del "what if".
LanguageItaliano
PublisherYoucanprint
Release dateAug 2, 2021
ISBN9791220349154
8 settembre: Racconto immaginario di un armistizio

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    8 settembre - Enrico Finazzer

    PARTE PRIMA: La Preparazione

    I.

    Il vecchio Maresciallo era chino sulla carta geografica, dando un’ultima occhiata alla disposizione delle unità: oramai mancava poco…

    Il sole cominciava lentamente la propria discesa verso l’orizzonte e finalmente dalle finestre dell’ufficio aperte sul corso sottostante¹ entrava una leggera brezza di fine estate; mentre distrattamente seguiva il volo irrequieto di alcune rondini che si preparavano al grande volo verso sud, egli si domandò se fosse stato fatto tutto il possibile, se fosse stato predisposto tutto il necessario. Con la mente ripercorse i momenti più difficili della sua lunga carriera militare e anche quelli più fausti: la presa del Sabotino, esempio di maestria tattica, i tragici giorni seguenti la rotta di Caporetto, le operazioni in Abissinia e l’entrata trionfale in Addis Abeba, momento di massima esaltazione in tutta Italia, e le sue sofferte e inutili dimissioni poche settimane prima della dichiarazione di guerra, che non avevano potuto impedire la tragedia.

    La sua era stata una carriera contraddistinta da molti alti e pochi, transitori, bassi; da buon piemontese aveva un carattere duro e anche un po’ taciturno, ma negli anni era riuscito a farsi benvolere negli ambienti giusti. La fedeltà sempre ribadita alla Corona lo aveva reso gradito al Re, le glorie militari lo avevano reso funzionale al Regime che strombazzava ai quattro venti velleità guerresche.

    Si chiese a questo punto, probabilmente per la centesima volta, se la scelta di rinviare il necessario passo fosse stata quella giusta, se non sarebbe stato meglio rompere l’alleanza immediatamente dopo le dimissioni di Mussolini e la formazione del nuovo governo militare sotto l’egida del Re… Le sei settimane trascorse nelle febbrili trattative con gli Alleati e nella preparazione dei reparti, oltre che degli animi, alla resa e al rovesciamento di campo avrebbero dato i loro frutti? Oppure si sarebbero rivelate un regalo per i tedeschi? Ancora poche ore e lo avrebbero saputo!

    Un colpo di tosse lo richiamò dai suoi pensieri e solo allora parve ricordarsi degli altri uomini presenti come lui nell’ufficio, nel quale erano riuniti pressoché in permanenza da giorni. Passò rapidamente in rassegna quei volti dai quali trasparivano la sua stessa tensione e la sua stessa stanchezza, ma vi avvertì anche la rassicurante risolutezza di chi è consapevole del fatto suo.

    Il Capo di Stato Maggiore Generale, Vittorio Ambrosio, in piedi all’altro capo della lunga tavola, stava confabulando con il Capo di Stato Maggiore dell’Esercito, Roatta. I due, compagni d’arme oramai da anni e stretti collaboratori dai tempi dell’occupazione della Jugoslavia, si scambiavano le ultime impressioni e tentavano di fugare gli ultimi dubbi facendo per l’ennesima volta il punto della situazione. Dando per scontata ovunque la pronta reazione tedesca, una del le preoccupazioni dei due generali era l’atteggiamento che avrebbero assunto i movimenti partigiani che oramai, specie in Montenegro e in Grecia, controllavano una parte non trascurabile del territorio occupato dalle Forze Armate al di fuori dell’Italia. Ricordandosi anche delle misure di controguerriglia draconiane emanate a suo tempo, essi dubitavano che i partigiani di Tito sarebbero stati troppo benevoli con i militari italiani, per quanto oramai non più in guerra al fianco dei tedeschi. Peraltro nelle settimane passate era stata scartata, per evidenti motivi di segretezza, l’opzione di intavolare trattative in loco, preferendo correre il rischio di posticipare i contatti a un momento successivo all’annuncio, piuttosto che venire prematuramente smascherati agli occhi dei tedeschi da qualche informatore.

    Ambrosio passò le dita nel colletto della camicia: la cravatta perfettamente annodata gli creava un certo senso di disagio, dovuto forse più alla tensione che non al caldo clima romano. A 64 anni, in 45 anni di distinta carriera come ufficiale di cavalleria e poi negli alti gradi del Regio Esercito, aveva combattuto durante la guerra italo-turca, nella Grande Guerra e poi durante la breve campagna contro la Jugoslavia poco più di due anni prima, ma non ricordava di avere mai affrontato un momento tanto difficile, dal quale dipendevano la vita e la morte non di singoli individui, che questa è, purtroppo, l’essenza della guerra, ma dell’intera Nazione. Neppure nei convulsi giorni di Caporetto, mentre con la 3a Divisione di cavalleria cercava di proteggere la ritirata dei reparti di fanteria verso il Piave, aveva dubitato che le Forze Armate italiane avrebbero retto l’urto e alla fine avrebbero recuperato il terreno perduto. All’epoca, tuttavia, c’era una linea ben definita tra l’amico e il nemico, oggi la situazione era molto diversa, mai veramente vissuta prima…

    Con uno sguardo, Ambrosio indovinò i pensieri di Roatta; quest’ultimo, come capo di Stato Maggiore dell’Esercito, vedeva gravare sulle proprie spalle la responsabilità maggiore. Letteralmente, la sorte di milioni di uomini dipendeva delle direttive emanate, in maniera giocoforza segretissima, nei giorni precedenti e dalle decisioni che avrebbe assunto nelle ore successive, di fronte a eventi che potevano essere previsti fino a un certo punto: von Moltke, in uno dei suoi famosi aforismi, aveva affermato che nessun piano sopravvive al contatto col nemico, e mai questo gli era sembrato più vero di ora. A 56 anni, si era fatto la fama di duro per la mano ferma con cui aveva cercato di reprimere la guerriglia partigiana in Croazia, dove aveva comandato la 2a Armata, e per l’altrettanto ferma repressione delle manifestazioni di piazza all’indomani del cambio di governo del luglio precedente: non se ne faceva un cruccio, in circostanze eccezionali erano necessari provvedimenti eccezionali! Certo rimpiangeva i tempi in cui aveva potuto semplicemente comandare i suoi reparti sul campo e anche i tempi della guerra in Spagna, quasi 10 anni prima: non fosse stato per quella macchia di Guadalajara… Ma da quella cattiva esperienza aveva ricavato un insegnamento che gli era tornato utile nel prosieguo della sua carriera e che, sperava, gli sarebbe venuto in aiuto nel presente: mai sottovalutare il nemico, per debole che pos sa sembrare, e mai trascurare di concertare la propria azione con gli alleati del momento. Già, gli alleati, o meglio, gli Alleati. Proprio in quei momenti, se tutto procedeva secondo i piani, i paracadutisti si preparavano alla partenza dagli aeroporti della Sicilia: era imperativo che trovassero gli aeroporti attorno a Roma sgombri e saldamente in mano italiana.

    Roatta si tolse gli occhiali tondi che inforcava fin da giovane, ne ripulì le lenti con un fazzoletto candido, con movimenti lenti e metodici, e con lo stesso fazzoletto si asciugò discretamente la fronte leggermente sudata. Si guardò attorno cercando una delle brocche che venivano regolarmente riempite di acqua fresca e, versatosene un bicchiere, si avvicinò al Capo di Stato Maggiore della Regia Aeronautica, Sandalli, la cui uniforme blu dava un tocco di colore in quella sala in cui dominava il grigio-verde dell’Esercito, solo poco attenuato dal bianco della Regia Marina. Le prime ore dopo l’annuncio sarebbero state nelle sue mani: perduti gli aeroporti e, con essi, l’appoggio Alleato, la situazione attorno a Roma, dove stazionavano importanti unità tedesche, si sarebbe complicata moltissimo.

    Riusciremo a tenere gli aeroporti, Renato? Gli americani non ci perdonerebbero di averli fatti arrivare sopra Roma per farli ritornare indietro a pieno carico. E poi sai quanto sia importante per noi quella divisione per tenere ben salda la Capitale!

    Le unità sono al loro posto, lo sai bene rispose quasi stizzito il Generale. Gli uomini dell’Aeronautica sono decisi a difendere gli aeroporti e avremo la copertura dei nostri stessi aerei. Il coordinamento con i movimenti del Corpo Motocorazzato è stato messo a punto da giorni; l’unica cosa che potrebbe fare andare tutto storto è una mossa preventiva dei tedeschi: oramai dovrebbero avere capito che c’è qualche cosa nell’aria, se addirittura non sono stati informati da qualcuno. Sandalli si rendeva conto dell’intrinseca debolezza dell’Aeronautica dopo tre anni di guerra nei cieli del Mediterraneo, per non parlare della dispersione di preziose forze in Belgio, all’epoca dei bombardamenti sulla Gran Bretagna, e in Russia nella sfortunata spedizione del CSIR e dell’ARMIR. Qui però non si trattava di combattere una battaglia disperata contro lo strapotere degli Alleati, ma di tenere sgombri i cieli della capitale per poche ore contro una forza, la Luftwaffe in Italia, che era forse più esausta della Regia Aeronautica. Quanto alle forze poste a difesa degli aeroporti, se adeguatamente supportate dalle unità dell’Esercito, sentiva che si sarebbero battute a dovere.

    Egli ricordava ancora il colloquio avuto al Palazzo del Viminale con Badoglio poche ore dopo l’arresto del Duce, quando si stava formando il nuovo governo. Quel giorno a Roma faceva un caldo soffocante e le strade erano disseminate dei resti dei simboli del passato regime che la gente prendeva a furiose martellate, come a voler esorcizzare il fascismo e con esso la guerra che questo aveva portato.

    Sandalli gli aveva chiesto il Maresciallo, da quanti anni ci conosciamo, noi?

    Dalla guerra in Africa orientale, Maresciallo aveva risposto, asciutto.

    Già. Voi non immaginate perché vi ho chiamato qui oggi? aveva ribattuto Badoglio.

    No, Maresciallo.

    Vi voglio dare il comando della Regia Aeronautica, Sandalli. Voi avete fatto un ottimo lavoro, all’epoca, in Africa, mi fido di voi e delle vostre capacità.

    Sandalli aveva chiesto licenza di parlare con franchezza e, avendone avuto il permesso, aveva fatto presente che nella condizione attuale la forza aerea era del tutto impari al compito di difesa dei cieli della patria. Troppo pochi aerei e, soprattutto, di questi, troppo pochi in grado di controbattere efficacemente il nemico.

    Sandalli aveva ribattuto Badoglio, quello che vi dico ora deve rimanere assolutamente segreto, ne va del destino della Nazione. L’intenzione del Re e mia è quella di avviare il prima possibile le trattative con gli Alleati per lo sganciamento dai tedeschi. Quello che vi domando è di organizzare ciò che rimane dell’Aeronautica perché al momento opportuno possa difendere efficacemente pochi obiettivi di vitale importanza contro il probabile intervento tedesco. Credete di essere in grado?

    La risposta era stata: Maresciallo, sono ai vostri ordini! Appena avrò l’elenco delle località da difendere comincerò immediatamente a prendere i provvedimenti necessari.

    Da allora sembrava passato un secolo, ma il tempo non era trascorso invano: era convinto di avere fatto un buon lavoro, che le prossime ore avrebbero rappresentato la resa dei conti. Il Capo del Governo fece per richiamare l’attenzione di tutti gli astanti, i quali lasciarono le loro attività per prestargli la loro attenzione; l’Ammiraglio de Courten, Capo di Stato Maggiore della Regia Marina, mise rapidamente fine alla telefonata che lo vedeva impegnato da qualche minuto con il proprio Sottocapo acquartierato da qualche settimana nella struttura militare di Santa Rosa², sulla Cassia. Quando Roma era stata dichiarata unilateralmente Città Aperta³ le sedi dei comandi militari si erano spostate fuori dalla cerchia cittadina: la Regia Marina aveva approfittato di quella moderna base e soprattutto della sua galleria sotterranea completamente autonoma che garantiva protezione contro incursioni aeree e colpi di mano terrestri. Era stato oggetto di discussione se nell’imminenza della resa, in previsione di possibili, anzi probabili azioni tedesche, non fosse il caso di riunire i comandi militari in Roma; era prevalso l’orientamento negativo, sia per non indurre i tedeschi in ulteriori sospetti sia per non rischiare che quegli spostamenti repentini facessero saltare qualche linea di comunicazione, che mai come ora dovevano rimanere ben attive e sperimentate. Così la Marina era rimasta sulla Cassia, come l’Esercito era rimasto a Monterotondo. Venite, Ammiraglio, avvicinatevi anche voi lo invitò Badoglio. Lor signori sanno che l’ora è quasi arrivata: a minuti sarà qui l’auto che mi deve portare all’EIAR per registrare il fatidico annuncio alla Nazione che, in base agli accordi, verrà diffuso alle ore 18.30. Fatta la registrazione, mi recherò alla sede della Presidenza del Consiglio per l’incontro con l’ambasciatore tedesco. Vostro compito ora è comunicare ai Comandi dipendenti la parola d’ordine, in modo che si facciano trovare preparati.

    In quel momento si udì un deciso tocco alla porta e un usciere annunciò l’arrivo della vettura per il Maresciallo Badoglio. Questi si dette un’aggiustata all’uniforme, afferrò la tradizionale bustina che indossava di preferenza e si avviò lentamente ma con decisione verso la porta. Giunto sulla soglia, si voltò verso quegli uomini e quasi a voler chiosare quanto era stato detto e fatto in quei febbrili giorni esclamò: Il destino della Nazione è nelle nostre mani, ognuno di voi sa quello che deve fare; io tornerò il prima possibile e non lasceremo questa stanza fino a quando tutto sarà finito o fino a quando i tedeschi non verranno a prenderci!.

    Quindi si voltò e si incamminò lungo il corridoio.

    II.

    Poche centinaia di metri più in là, il Sovrano del Regno d’Italia era riunito al Palazzo del Quirinale, nell’ufficio che era stato un tempo di suo padre, con i suoi più stretti collaboratori, un piccolo entourage che in quel momento contava solo due persone: il suo Aiutante di Campo, Generale Paolo Puntoni, e il Ministro della Real Casa, Duca Pietro d’Acquarone. Da quando nel 1871 Roma era stata proclamata capitale del Regno, i Savoia avevano eletto quale residenza il palazzo dei Papi posto sulla sommità di uno dei famosi sette colli della città. Vittorio Emanuele non l’aveva mai amato e per buona parte del suo regno gli aveva preferito la più tranquilla Villa Ada, acquistata nel 1904 e ribattezzata Villa Savoia; tuttavia, in quell’ora tragica, egli aveva deciso che il suo posto non poteva essere che lì. Sia Puntoni sia Acquarone, al pari di molti altri uomini politici e militari, lo avevano più volte esortato a lasciare la capitale per tempo, in modo che al momento cruciale egli si potesse trovare in qualche località facilmente difendibile o facilmente raggiungibile dagli Alleati: pretesti da utilizzare per non insospettire i tedeschi ce ne sarebbero stati, ad esempio un’ispezione alle difese costiere della Puglia, minacciata da nuovi sbarchi nemici, una visita ai soldati che in Calabria contrastavano l’avanzata dei britannici… Così si sarebbero salvaguardate la Dinastia

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