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Le cronache di Oscailt
Le cronache di Oscailt
Le cronache di Oscailt
Ebook377 pages5 hours

Le cronache di Oscailt

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About this ebook

Tuffati in un universo fantastico dal cuore oscuro, attraverso l’epica impresa di una compagnia unita dal fato.

Lame che stridono, magia, inganno, fughe rocambolesche, eroi d'un altro tempo e la ricerca della verità sono gli ingredienti di una storia epica che ti condurrà lungo un viaggio di scoperta e d’azione, nelle viscere di un mondo fantasy permeato dalla magia. Una storia che apre le porte di un vasto universo dal quale non potrai fare a meno di farti catturare.
LanguageItaliano
PublisherMyth Press
Release dateJul 5, 2021
ISBN9788885465145
Le cronache di Oscailt

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    Le cronache di Oscailt - Emanuele Benedetti

    CREDITI

    Prima Edizione Digitale – Luglio 2021

    Vi invitiamo a visitare la nostra pagina facebook, quella dell’autore Emanuele Benedetti e a lasciare un commento sulla vostra esperienza di lettura.

    Qualsiasi riferimento a cose o persone reali è puramente casuale.

    www.mythpress.eu ~ shop.mythpress.eu.

    Myth Press© è un marchio concesso in esclusiva a

    Creative Place via Giulio Salvadori 28 – 52100 Arezzo

    Editore Luigi D’Acunto

    Curatore editoriale Mirko Biagiotti

    Autore Emanuele Benedetti

    Illustrazione di copertina Diana Mercolini

    Revisione a cura di Filippo Gliozzi

    ISBN 978-88-85465-14-5

    Qual è la forza dell’uomo? Da cosa trae l’ispirazione che l’ha spinto, che ci ha spinti a diventare la forza dominante di questi Reami?

    Dal punto di vista prettamente accademico, forse i miei colleghi sosterrebbero che la risposta sta nella coesione sociale che caratterizza l’essere umano, ma sarebbe inesatto, perché anche i Clan delle Montagne e i Primi Venuti dimostrano attaccamento ai propri simili, anche se tendono a non sottolinearlo.

    Altri potrebbero arguire che la risposta sta nella tecnologia, ma sappiamo che i nostri vicini Nani in molte scoperte sono più avanzati; basti pensare alla polvere da sparo, o anche più meramente alle costruzioni, che sotto le montagne non hanno eguali in tutto il Domhain.

    Forse, la risposta che più si avvicina al mio pensiero sta nell’adattamento alle condizioni ambientali, perché l’uomo è riuscito da sempre a saper far fronte al deserto (caro ai beduini del Sud), alle foreste, ai corsi d’acqua, alle montagne e alla neve, trasformando ciò che lo circondava alle proprie necessità.

    Ma io credo che si debba andare ancora più a fondo nell’animo umano. È qualcosa di più viscerale, forse persino antico. Una di quelle emozioni, per così dire, in cui i nostri antenati trovavano conforto quando si riunivano attorno al fuoco, in silenzio, anche quando una vera e propria lingua non esisteva ancora. I meccanismi che il nostro intelletto elabora per far fronte alla vita di tutti i giorni, ai problemi del singolo e della comunità, per capire come arrivare al giaciglio, con la certezza che la giornata sia stata veramente degna di essere vissuta.

    Il genere umano ha prevalso sul resto delle popolazioni, in ultima analisi, grazie al ragionamento.

    Ragionare vuol dire affrontare un problema non per risolverlo e basta, ma per far sì che non si ripresenti e, anzi, evitare tutti i possibili risvolti negativi persino della soluzione. Vuol dire sì utilizzare una scoperta, ma anche applicarla ad altri campi, conoscere e apprendere nuove vie, tentare e ritentare finché non si arriva al risultato propizio. Ragionare vuol dire guardare all’arte dei Primi e condividerla col mondo. Viaggiare per scoprire e imparare nuove scienze.

    Il ragionamento è vita.

    Il ragionamento è vittoria.

    Lettera n. 127.

    Ystrio M’dilhan, Magnifico Rettore della

    Corporazione e della Scuola dei Maghi

    dei Regni Uniti.

    Introduzione

    Da qualche parte a nord di Ahrolsekey,

    Anno 857 D.F.I. (dalla fondazione dell’Impero)

    Solo uno sguardo; altro non serviva. Così egli

    avrebbe riconosciuto la via. Il ciglio cangiante,

    il cuore sicuro. Il lupo avrebbe infine portato a termine

    il suo compito: solo le stelle conoscono

    la strada, giacché negli occhi di lui risiedono

    le stelle.

    Il Lupo degli astri, estratto di

    un’antica leggenda del Nord

    Il fuoco ardeva davanti ai suoi occhi, bramoso di legna. Il sole era calato da diverso tempo alle sue spalle e l’astro notturno si stagliava nel cielo in tutta la sua maestà, completo, splendente. «L’ora è vicina», disse Khylos tra sé e sé, «lo sento».

    Il suo famiglio, il suo migliore amico e la sua spalla fidata, il lupo che aveva trovato quando entrambi non erano che cuccioli, rosicchiava oziosamente l’osso di una renna che avevano abbattuto pochi giorni prima e avevano fatto essiccare, per non far andare a male la carne. Contava sulla sua sovrannaturale percezione degli avvenimenti per anticipare le mosse del nemico.

    Non avrei dovuto lasciare indietro gli altri, stava pensando Khylos, mentre stuzzicava le fiamme con la punta di un corto ramo di albero-montagna, ma questa è la mia missione. Io e Khyler daremo il via alle danze.

    Facevano parte di una squadra scelta delle Lame Cremisi e a Khylos piaceva lavorare in squadra. Adorava la vita del campo militare e rispettava i suoi commilitoni, ma, sin da bambino, adorava andare in avanscoperta col suo fidato lupo; sapeva, inoltre, che sarebbe stato lui il primo ad avvistare il pericolo. Il suo passato, ciò che era diventato tramite gli insegnamenti di suo padre e dell’esercito, parlava chiaro. Questa è la mia missione, si ripeté convinto.

    Avevano ricevuto gli ordini più di due settimane prima, ma si era staccato dal resto della truppa da tre giorni, spostandosi di poche miglia in senso circolare, in attesa che arrivasse il momento di quello che la sua classe guerriera chiamava l’apertura. Qualcosa che solo Khyler, il suo compagno ferino, riusciva a vedere con i suoi occhi mistici.

    Anni prima, quando era partito insieme al padre per la sua prima caccia di gruppo con gli adulti di Ahrolsekey, il suo villaggio natale, durante una pausa dalla battuta si era allontanato, sentendo che qualcosa lo spingeva verso un particolare punto della boscaglia. Raccontandolo ai compagni di caccia, aveva detto di aver sentito semplicemente i mugolii della creatura che poi aveva trovato in un piccolo avvallamento dove, chi sa per quale motivo, non cresceva nulla; ma lui sapeva che quello era un incontro voluto dal Fato. Non c’era stato un solo rumore, né dalla foresta né dall’animale. Lui aveva sentito come un richiamo primordiale; doveva seguire quel sentiero che solo lui vedeva, doveva aggirare quella quercia di chi sa quanti secoli, doveva scavalcare quella tana abbandonata da un tasso da chissà quanto tempo. E infine lo vide; disteso in terra, la lingua fuori dalle piccole fauci. Corse verso di lui neanche avesse visto il proprio migliore amico in punto di morte, lo accolse tra le sue braccia e lo infilò subito sotto i suoi vestiti per trasmettergli un po’ di calore e lo riportò immediatamente all’accampamento.

    Per il villaggio a cui apparteneva non era raro addomesticare un lupo e renderlo un compagno adatto alla caccia, quindi lo accettarono di buon grado, pensando che fosse di buon auspicio per la carriera da cacciatore del ragazzo.

    Fino a quel momento il resto del gruppo era riuscito a cacciare un cervo e mezza dozzina di lepri, quindi potevano ritenersi soddisfatti dell’uscita, tanto da poter tornare a casa e non obiettare a che il bambino accudisse il cucciolo appena trovato.

    «Far crescere un lupo è una responsabilità gravosa, figlio mio», gli aveva detto il padre sulla strada di casa. Durante la marcia aveva messo una mano sulla spalla del ragazzino per farlo rallentare fino a che non fossero rimasti in fondo al gruppo, così che potessero parlare in privato. «I branchi sono sottoposti a una gerarchia a cui devono attenersi rigorosamente. Spesso cercano di scavalcarsi a vicenda per avere più rispetto o più cibo. Visto che l’hai trovato tu, starà a te, e a te soltanto, insegnargli qual è il suo posto nella famiglia e nella comunità. Sarai tu a dover rendere conto di ogni suo errore; e se, quando crescerà, commetterà qualcosa di... irreparabile, probabilmente lo dovremo sopprimere. Capisci cosa significa?», gli chiese infine suo padre.

    Khylos annuì, più a se stesso che non alle parole del padre. Sentendo che il cucciolo cominciava ad agitarsi lo sollevò e lo guardò negli occhi, e solo allora si accorse che questi erano uno diverso dall’altro, non solo per il colore: il bimbo riusciva a vedere oltre quello sguardo malinconico tipico dei lupi, quasi fossero una finestra che si affacciava su un mondo inesplorato. E in quel mondo Khylos vide avventura e imprevisti, successi e sconfitte, gioia e dolore... e tutto riguardava loro due.

    «Sta bene, padre. Khyler è una mia responsabilità», disse quindi Khylos, risoluto.

    Il padre, che precedeva il bambino e il cucciolo di qualche passo, sentendo il nome che suo figlio aveva dato al suo nuovo compagno si immobilizzò seduta stante e si girò lentamente, guardando il figlio negli occhi con sguardo grave. «Quello che hai pronunciato è un nome molto importante per la nostra famiglia», disse con voce bassa e seria, «te ne rendi conto?».

    «Lo so, padre. So benissimo che quello è il nome del fratello che non ho mai avuto», rispose Khylos, con voce prima rotta, poi sempre più decisa e convinta, «ma so che non è stato un caso che io abbia trovato questo cucciolo. Pensaci, padre! Il lupo è il simbolo del nostro villaggio, tutti noi facciamo sempre sogni su un lupo con gli occhi luminosi, da quando abbiamo memoria abbiamo sempre utilizzato i lupi per la caccia, persino l’astro notturno stanotte passerà davanti al Segno del Lupo. Padre, questo incontro è stato voluto dagli dèi, dalle stelle, dalla nostra storia... dal Fato! Questo cucciolo dal manto bianco e grigio, da questo momento in poi, sarà mio fratello! È il Sommo Lupo a volerlo!», esclamò infine il bambino.

    Durante il suo breve discorso aveva tenuto Khyler vicino al suo cuore e, nell’enfasi del momento, l’aveva un po’ strapazzato, ma il cucciolo non si era lasciato sfuggire un guaito. Solo alla fine, quando da un occhio di suo fratello scese una singola lacrima, si dimenò per raggiungere il viso e leccarla, come se fosse una malerba da strappare da un orto.

    Allora si guardarono per la seconda volta negli occhi e si appoggiarono piano l’uno all’altro, fronte contro fronte. In quel momento Khylos sentì di nuovo quella strana sensazione, non adrenalinica come poco prima, ma più calda, come una promessa sussurrata da una voce amica.

    «Sì, padre», disse quindi Khylos a bassa voce, la testa ancora appoggiata a quella del lupo. «Khyler sarà il suo nome, la nostra casa la sua casa... e io sarò il suo fratello del Fato»

    Le stelle avevano fatto il loro giro per una dozzina di volte, e ora i due fratelli erano lì, fianco a fianco, in attesa degli eventi che solo Khyler poteva preannunciare.

    Guardando tra le fiamme e pensando al passato, Khylos aveva perso di vista il suo compagno e, spostato lo sguardo dove prima era il lupo, vide solo l’osso che stava addentando. Khyler era a qualche spanna di distanza, la coda distesa con l’estremità rivolta verso l’alto, lo sguardo che puntava verso ovest, nel fitto della foresta.

    Forse ci siamo, pensò subito Khylos.

    Si alzò e, dal bivacco che si era preparato per quella notte, andò a recuperare il cinturone con la lunga spada nel fodero e i bracciali dell’armatura che si era tolto per consumare il pasto serale. Allacciò strette le cinghie e si affiancò al lupo con trepida aspettativa.

    Dapprima cercò di scrutare nella direzione verso cui guardava Khyler, ma naturalmente non poteva scorgere niente se non buio e qualche albero e arbusto vicini; infine spostò la sua attenzione negli occhi del suo famiglio... e non poté credere a quello che stava vedendo: gli occhi di Khyler stavano brillando come quelli del lupo della profezia del suo villaggio!

    Cercò di tenere a bada le tante emozioni che provava in quel momento, concentrandosi sulla missione che aveva atteso così tanto; quindi si inginocchiò, accarezzò il garrese del lupo e avvicinandosi alle orecchie dell’animale, gli sussurrò: «Guidami, fratello... mostrami ciò che vedi!».

    Con un balzo il lupo corse verso la boscaglia.

    Khylos gli corse subito appresso e, nonostante l’agilità dell’animale, il fitto intrico di rami e arbusti in cui il lupo era deciso a passare e l’armatura di cuoio che indossava, non gli fu difficile trovare la scia del suo fido compagno. Proprio come la prima volta che lo aveva trovato in quell’avvallamento, anche stavolta poteva contare su una traccia lasciata solo per lui, che solo lui poteva percepire. Superò alberi caduti, scansò buche coperte di neve, saltò fossi pieni di rovi come se anche lui fosse dotato di quattro possenti zampe. Infine si ritrovò alla base di una guglia rocciosa che puntava verso l’alto; là in cima stava suo fratello, in attesa, lo sguardo fisso davanti a sé.

    Khylos si arrampicò velocemente verso la punta della roccia, stranamente senza il minimo cenno di affaticamento. Una volta raggiunto il fianco del lupo, si alzò in piedi e scrutò dove il suo amico stava puntando.

    E infine, vide.

    Allora Khyler rivolse il muso verso l’alto e, con tutto il fiato che aveva nei polmoni, lanciò il suo urlo di guerra verso le stelle, verso l’astro notturno, verso il nemico, finalmente visibile in lontananza. E mentre suo fratello ululava, Khylos estrasse la sua spada dal fodero; stretta nella sua mano, la sentì vibrare, assetata di battaglia.

    «Finalmente», sussurrò il giovane tra i denti, stretti in un ghigno feroce, «l’ora è giunta!».

    Capitolo 1

    Anno 856 D.F.I

    Gli Eroi ci arridono

    Gli Eroi ci guidano

    Gli Eroi hanno tracciato per noi i solchi

    nei quali costruiremo il nostro futuro

    Ma sta a noi, progenie di Dürin, perpetrare

    i loro moniti e i loro insegnamenti

    Mai ci piegheremo

    Mai ci assoggetteremo

    Che gli Eroi veglino su noi tutti

    Incisione nei pressi della porta del Gamil-dûm. Anonimo.

    Il turno lavorativo di quella rotazione era finito da poco al centro estrazioni e Remitildo Forgiasicura, Bathol Cuoredoro e Andrej Barbadiferro erano già immischiati in una rissa presso la loro taverna preferita: il Doppio Scacco. Quest’ultima era un’istituzione nella comunità nanica di Gund-Kheled. Migliaia di dozzimesi prima i Nani si erano stanziati in quello che poi gli umani avevano chiamato Monte Vetro, il cui nome era dovuto ai picchi gelati che lo punteggiavano. Il Doppio Scacco era stata la prima bettola a essere fondata presso la città sotterranea nelle vicinanze del Gamil-dûm, il Vecchio Corridoio o Porta Antica. Era stato collocato proprio lì per una questione di priorità, visto che, prima che fossero scavati tutti i tunnel interni, l’accesso a molti budelli e miniere era esterno alla città, e la prima cosa che molti dei lavoratori volevano, prima di rientrare nelle proprie dimore, era levarsi la terra dal gargarozzo. L’idea migliore l’ebbe quindi Fithul Fierascia, il fondatore del Doppio Scacco, il cui nome viene ricordato in decine di canzoni cantate anche e soprattutto nella sua bettola, cambiata in modo evidente da quando era stata aperta per la prima volta.

    In tutta sincerità Remitildo non ricordava assolutamente perché avesse fatto volare il primo pugno, né se fosse stato lui a far partire la rissa. Lavorava nella miniera da dove veniva estratto il ferro destinato a diventare il metallo più pregiato di tutto il Nord, bramato da ogni fabbro che si rispetti; finito il suo turno lavorativo, subito dopo essersi cambiato aveva trovato nella giacca una fiaschetta contenente quello che rimaneva di una partita di ottimo Fuoco di Tiāmat. Oltre alla fumerba dei Nani di Kibil-Zâram, la più meridionale delle stirpi naniche che vivono vicino alle terre degli uomini. Il Fuoco di Tiāmat era un liquore raro, particolarmente apprezzato da tutti i Clan delle Montagne. Veniva estratto dai frutti di una pianta che cresceva solo nelle alture poche miglia più a sud del Monte Vetro, chiamata appunto Tiāmat per i fiori a tre petali che si affacciano dal bulbo come teste di draghi, i pistilli simili a lingue di fuoco. Ogni albero faceva pochissimi frutti, da qui il fatto che fosse tanto raro. C’era chi diceva che con la magia si poteva aumentare la produttività di queste piante, ma sotto al Monte tutti sanno che se Streghe e Stregoni mettono le loro mani adunche sulle questioni naniche, non possono che imbastardirle o, peggio, cambiarle totalmente di significato.

    Oltre che un gusto rotondo, un odore fruttato e forte e il piacevole pizzicore che produceva sulla lingua e sul palato, il Fuoco di Tiāmat era anche un liquore parecchio alcolico, tanto che quella fiaschetta argentata intarsiata di rune e col tappo legato al collo della stessa, scolata tutta d’un sorso dal Nano, aveva già messo a dura prova la proverbiale tempra della sua gente. Infatti i suoi due amici, che lo avevano aspettato mentre si cambiava, lo avevano deriso all’uscita dagli spogliatoi per il suo incedere a onde.

    Arrivati alla locanda, i tre avevano ordinato una pinta a testa della birra scura della casa, invecchiata nei famosi barili di legno-pietra di Gund-Kheled, per poi ordinarne altre tre. Il lavoro, la stanchezza e il Fuoco di Tiāmat si erano fatti sentire subito per Remitildo che, molto probabilmente, aveva fatto un commento di troppo su chissà quale argomento. E adesso i suoi due amici lo stavano spalleggiando per tirarlo di nuovo fuori dai guai. O per lo meno, così credeva.

    Remitildo prese uno sgabello all’estremità di un tavolo stranamente ancora in ordine nonostante la rissa in atto, lo afferrò dalla parte della seduta, puntò i piedi e spinse l’arma improvvisata verso l’avversario, Myolmyr qualcosa-bronzeo, che cercava di incalzarlo, i pugni sollevati sopra la testa; non conosceva questo tipo se non per sentito dire e in tutta sincerità non voleva approfondire l’amicizia con le sue mani pelose, che sembravano quelle di qualcuno che lavorava i metalli che Remitildo estraeva.

    «Ehi, Bat!», urlò sopra il frastuono della locanda per farsi sentire dal suo amico Bathol, che aveva sistemato un compare del suo avversario e che ora, per sollazzo, stava svuotando di nuovo il suo boccale, «Quando vuoi te! Non c'è fretta!».

    Bathol, quindi, guardò da sopra la bevuta con un occhio, la fracassò a terra molto vicino alla testa del suo precedente avversario, come a dirgli di rimanere svenuto dov’era, prese fiato per un lungo attimo e scatenò tutto il malcontento del suo stomaco: un’eruttazione così bassa e greve da far tremare quei pochi tavoli e sgabelli rimasti in piedi. Molti avventori si girarono per cercare di capire da dove provenisse quel rumore, compreso Myolmyr, distratto e impressionato al contempo. Remitildo ne approfittò immediatamente, grato al suo amico per l’occasione, impugnando per le gambe lo sgabello che aveva in mano e fracassandolo sulla tempia bardata di elmo del suo contendente, mandandolo tra le braccia della Dea dei Sogni.

    Mentre Bathol si sedeva sulla schiena dell’avversario caduto e si batteva le mani guantate sulla pancia, soddisfatto della sua nota di petto, Remitildo si asciugò il sudore, controllando intorno a lui che non ci fossero altri malintenzionati guerrafondai. Vide il suo amico Andrej seduto a un tavolo: stava giocando d’azzardo come suo solito, incurante di ciò che era appena accaduto, come del resto gli altri Nani suoi commensali. Vedendo l’altro amico che rischiava di addormentarsi sopra la schiena del malcapitato lo tirò su per il bavero della camicia, dicendogli: «Va’ a interrompere i comodi di Andrej; sicuramente qualche figlio di orco sarà andato ad avvertire le Cappe Nere e non ho voglia di finire di nuovo davanti al prefetto». Sputò per terra, vicino ai cocci prodotti dalla rissa e continuò, grugnendo: «Quel Nano con un occhio solo mi mette i brividi».

    Senza dar tempo all’amico di raccogliere le idee, Remitildo, ripresosi parzialmente dalla sbronza, si chinò sugli avversari appena battuti, strappò loro dalla cintola la sacca con le rune d’oro, la moneta di scambio vigente tra i Nani, e si diresse verso il locandiere del Doppio Scacco. Quest’ultimo, durante la rissa, aveva pensato bene di chiudere a chiave la porta che dava alle riserve di birra e si era armato di un’ascia barbuta, manico e testa incisi di rune, pronto all’occorrenza a darla sulla schiena di quegli avventori così poco accorti da provare ad assalirlo. Rem studiò lo sguardo del Nano, la lunghezza del braccio e dell’asta della lama che portava e si fermò giusto a pochi pollici dalla sua portata, gli buttò davanti le sacche appena confiscate e disse: «Questo è per il disturbo, Fierascia».

    «Vedi di non portare per un po' quel brutto muso nella mia locanda, Forgiasicura, se non vuoi Dolore tra capo e collo», disse minaccioso il locandiere, soppesando l’arma che teneva a due mani. Rem sapeva che l’indomani sarebbe potuto comunque rientrare, come se nulla fosse accaduto; l’attrazione principale nelle locande erano proprio le risse, seguite con poco distacco dalle ballerine e dai bardi itineranti. Buttò un occhio a Bathol, che nel mentre era riuscito a dissuadere Andrej dal continuare la sua partita a dadi, presero dalla rastrelliera i loro pochi averi e se ne andarono dalla porta frontale. Appena il tempo di una decina di passi, e dalla strada principale si affacciarono tre Cappe Nere, le armi alle mani. Per non dare nell’occhio, i tre amici si misero a chiacchierare allegramente del più e del meno, passando accanto ai vigilanti che si stavano dirigendo verso il Doppio Scacco.

    Il corto mantello nero obliquo, l’armatura brunita del miglior metallo, le verghe dell’acciaio scurito più fine mai creato, gli occhi gelidi di chi deve far rispettare la legge, le barbe raccolte in elaborati ferma-barbe a forma di rune o di animali mitologici, le tre Cappe non si curarono minimamente dei tre passanti casuali, procedendo a passo di carica. Decine di passi più dietro comparì un tipetto che correva loro dietro; probabilmente era il Nano che aveva avvertito le guardie, e ora si stava affannando per godersi lo spettacolo di vergate nere sugli elmi di cuoio degli sventurati avventori della locanda. Man mano che si avvicinava sgambettando, i tre amici riconobbero subito Flek Lingualaida o, com’era meglio conosciuto in tutte le bettole sotto il monte Gund-Kheled, Palleflosce, Non-una-parola o Nerospione. Tristemente famoso per la sua lingua lunga, Flek era una delle vedette delle Cappe Nere. Queste figure si piazzavano, spesso non viste, nelle taverne o nei luoghi dove più probabilmente potevano nascere risse o insubordinazioni e, se si scatenava qualche parapiglia, correvano a perdifiato nelle piazzole di appostamento dei tutori dell’ordine per avvertirli. Ebbene, Flek era la più famosa delle vedette, tanto che chi lo riconosceva non mancava di mollargli un ceffone dietro al collo pelato o, molto più sovente, il Lingualaida poteva risvegliarsi il giorno dopo della sua imboscata tra i rifiuti della bettola in cui aveva deciso di fare il guastafeste, pieno di lividi e con qualche dente in meno. Una di quelle volte in cui si era ritrovato coperto di sudiciume, si accorse anche di aver ricevuto una brutta botta a un’anca che lo avrebbe lasciato zoppo per il resto della vita, come si vedeva dal modo in cui correva dietro alle tre Cappe Nere che aveva chiamato stavolta.

    «Una volta credo di aver letto una cosa che diceva grosso modo così», bisbigliò ai suoi amici Bathol, che stava fissando la corsa del Nano zoppo, decantando: «che cos'è il genio? È fantasia, intuizione, decisione e velocità di esecuzione». Detto questo, giunsero in prossimità di un piccolo vicolo stretto e buio, una di quelle viuzze dove di solito va chi cerca di smaltire una sbornia in santa pace o dove vengono buttati sacchi e sacchi di rifiuti che, prima o poi, la nettezza urbana della città recupera per alimentare le fiamme delle fucine naniche. Arrivati nel vicolo, Bath scaraventò a terra Flek sotto gli occhi sbigottiti degli altri due amici, che si ricomposero subito per dar man forte al compare e sfogare un po' della violenza che la Vedetta aveva fatto nascere e crescere in così poco tempo.

    Poche dozzine di battiti di cuore, qualche urlo soffocato da un guanto infilato giù per la gola e decine di pugni sullo stomaco dello sventurato, e i tre amici uscirono dal vicolo con un sorriso che andava da orecchio a orecchio.

    Dopo essersi soffiato le nocche per un pugno assestato con un po’ troppa irruenza a uno dei tanti ossi plurifratturati della vedetta, Andrej chiese: «Blyat, non ho assolutamente voglia di andare a dormire! Nonostante tutto, ho ancora il fuoco nelle vene!».

    «Vero!», confermò Bathol, «Non possiamo concludere la serata così. Ho lavorato come un mezzorco oggi, e non voglio darla vinta alle Cappe Nere».

    I due si girarono verso Rem, che di solito aveva la soluzione pronta in questi casi, e infatti la sua risposta non si fece attendere: «Andiamo al Covo?».

    «Blyat, ci vuole un po’ di gelo per freddare gli ardenti spiriti!», esclamò entusiasta Andrej, «ma prima passiamo da un mio amico trappista che mi deve un favore... non sia mai che vi faccia gelare lo stomaco!».

    Così Andrej passò immediatamente al comando, guidando gli amici in un dedalo di viuzze e budelli di pietra che conosceva solo lui. Il Nano era cresciuto tra quei vicoli, tanto da conoscerli ancora a menadito. Oltretutto, ogni sera tirava fuori un amico che gli doveva un favore, che di solito era un Nano che era stato vittima di atti di bullismo dalla sua gang quando erano più giovani e adesso, per metterci una pietra sopra o per non farsi malmenare ancora come un tempo, dava un po’ dei propri averi ad Andrej.

    Arrivarono infine presso una casa bassa e parecchio lunga. A una prima occhiata solo la parte frontale dell’abitazione era adibita a dimora; il resto doveva essere un magazzino o un laboratorio. Infatti, Andrej spiegò: «Questa è una delle migliori distillerie di Grappanera di questo monte, blyat». Bussarono dal pomello battente a forma di boccale. Poco dopo, dallo spioncino si affacciarono due occhi assonnati che guardarono di sottecchi Rem e Bath, ma si illuminarono appena videro Andrej. Quindi la piccola finestra venne chiusa e il portone rinforzato si aprì, palesando un largo Nano panciuto in vestaglia da letto, barba e i pochi capelli rimasti neri come la notte. Fece calare sulla spalla di Andrej una pacca che avrebbe potuto distruggere un barile, parlando in un dialetto che gli altri due amici faticavano a comprendere.

    Tra risate e parole incomprensibili, il proprietario di casa e Andrej scomparvero dietro la porta che venne richiusa sonoramente alle loro spalle, lasciando gli altri due di sasso a guardarsi in faccia, senza comprendere appieno quel che era appena successo. Rimasero interdetti per qualche minuto, cercando dentro la propria testa una spiegazione plausibile, quando Rem cercò di riprendere in mano la situazione e allungò la mano per bussare di nuovo e chiedere lumi. Ma la porta venne spalancata di nuovo e, insieme ai due Nani, arrivò anche una zaffata di malto e ginepro, ingredienti fondamentali per della buona Grappanera.

    I due, intanto, continuavano a parlare in quel loro strano dialetto, ma dopo un’altra manata sonora il proprietario di casa mise in mano ad Andrej due barili di piccole dimensioni e un terzo che andò tra le braccia di

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