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La Guerra della Rosa Nera, Volume Secondo
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La Guerra della Rosa Nera, Volume Secondo
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La Guerra della Rosa Nera, Volume Secondo

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L’epilogo della duologia ufficiale ispirato ai giochi da tavolo Black Rose Wars e Nova Aetas di Ludus Magnus Studio
Italia, 1522. La Guerra della Rosa Nera è al suo culmine e il destino della piccola Irene sta per essere scritto, inevitabilmente. La Santa Inquisizione a Roma, la lotta per il territorio in Centro Italia, le mire espansionistiche del Doge spargono sangue tra i popoli umani e non. In questo delicato equilibrio, i quattro potenti incantatori prescelti per la conquista del titolo di Gran Maestro della Loggia, si sono preparati alla Guerra. Ma prima di tutto dovranno affrontare e superare i loro limiti.

“La Guerra della Rosa Nera, Volume Secondo” è l’epilogo del progetto editoriale in collaborazione con Ludus Magnus Studio. I personaggi e le ambientazioni dei giochi da tavolo “Black Rose Wars” e “Nova Aetas” prendono vita grazie alla penna di Marco Olivieri. In un mondo fantasy rinascimentale, stretto dalla morsa del conflitto, i quattro prescelti riusciranno a entrare in contatto con i segreti magici più oscuri. E la piccola Irene sta finalmente per conoscere chi sarà la sua guida all’interno della potente Loggia della Rosa Nera.
LanguageItaliano
PublisherMyth Press
Release dateJul 30, 2021
ISBN9788885465121
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    Book preview

    La Guerra della Rosa Nera, Volume Secondo - Marco Olivieri

    CREDITI

    Prima Edizione Digitale – Giugno 2021

    Vi invitiamo a visitare la nostra pagina facebook, quella dell’autore Marco Olivieri e a lasciare un commento sulla vostra esperienza di lettura.

    Qualsiasi riferimento a cose o persone reali è puramente casuale.

    www.mythpress.eu ~ shop.mythpress.eu.

    Myth Press© è un marchio concesso in esclusiva a

    Creative Place via Giulio Salvadori 28 – 52100 Arezzo

    Editore Luigi D’Acunto

    Curatore editoriale Mirko Biagiotti

    Autore Marco Olivieri

    Illustrazione di copertina Simone Denti

    Revisione a cura di Filippo Gliozzi

    La Guerra della Rosa Nera di Marco Olivieri è ispirato a Black Rose Wars, un gioco di Marco Montanaro edito da Ludus Magnus Studio LLC.

    Testi revisionati da Andrea Colletti e Luca Bernardini

    Link al sito - https://ludusmagnusstudio.com/black-rose-wars/

    Ringraziamo la Ludus Magnus Studio LLC per il supporto che ci ha concesso con questo progetto.

    ISBN 978-88-85465-12-1

    Anno Domini

    MDXXII

    1522 D.C.

    Prologo

    Torino... 15 Novembre.

    Una saetta squarciò il buio della notte, rischiarando con una luce sinistra l’intera città di Torino, mentre la furia della pioggia continuava a inondare d'acqua ogni vicolo. Al riparo della cupola sulla cima di un campanile, Irene rimase sorpresa da come quel bagliore improvviso non fosse riuscito a rivelare nulla dell'aspetto dell'imponente uomo che aveva davanti. Sembrava come se la lunga cappa scura che ricopriva il volto e il corpo del Custode fosse capace di assorbire ogni fonte di luce che si posasse su di essa.

    «Dunque, è deciso» affermò quest'ultimo con tono cupo, mentre una sfera di energia verdastra continuava a roteare con sempre maggior velocità nel palmo della sua mano.

    Irene avrebbe potuto replicare: almeno, così le era stato consentito. Poteva ancora voltarsi, aprire la porta che si trovava a pochi passi da lei e ridiscendere la lunga scalinata che l'aveva condotta in cima a quel campanile, dove la sua maledetta curiosità l'aveva spinta a ficcarsi nel più catastrofico guaio in cui si fosse mai trovata. Eppure, ora che poteva andarsene e lasciarsi tutto alle spalle, non ci riusciva. Qualcosa dentro di lei sembrava volerla trattenere lì, anche se non avrebbe saputo dire bene cosa fosse. Forse il Custode le aveva scagliato contro qualcun altro dei suoi sortilegi capaci di annebbiarle la mente, oppure doveva solo ammettere a se stessa di essere stata rapita da quel mondo di cui aveva intravisto a malapena uno stralcio… ovvero, il mondo della magia.

    Prima di quella notte non sapeva nulla di concreto a riguardo, ma le sole voci che circolavano su coloro che riuscivano a servirsene, rendevano l'argomento ogni volta più intrigante. Maghi, incantatori, stregoni… molti erano gli appellativi con i quali venivano etichettati e, nonostante fossero banditi dalla Chiesa come abomini della fede da mettere al rogo, aleggiava su di loro quel fascino misterioso da cui Irene si era sempre sentita irresistibilmente attratta. Soprattutto dopo che la sua vita era cambiata in modo tanto drastico.

    La sua infanzia era trascorsa felicemente in campagna e aveva sempre avuto la convinzione che quello sarebbe stato il suo futuro, anche se non apprezzava le insistenze di sua madre nel cercare di convincerla a diventare una brava donna di casa. Un giorno, però, abbandonato il contado, sua madre ebbe l’opportunità di andare a servizio in una delle più grandi magioni di Torino e, dovendo crescere da sola una figlia, non se la lasciò scappare. Il luogo in cui si ritrovarono a vivere sembrava, però, nascondere qualcosa di mistico e ancestrale.

    Sin dall'arrivo, Irene aveva subito intuito che tra quei lussuosi saloni deserti e i lunghi corridoi silenziosi si celavano dei misteri che solo le pareti potevano raccontare. Nessun padrone si era mai presentato loro, né a nessun altro dei servitori già presenti. Loro referente per la gestione della struttura era un uomo imponente e misterioso che tutti identificavano con l'appellativo di Custode. Di lui non si sapeva null'altro e nessuno aveva mai osato chiedere. La paga era ottima e il lavoro rispettabile, il resto non contava.

    Per Irene, invece, il resto era tutto.

    La sua indole curiosa l’aveva portata a indagare e fare domande in giro, e l’unico che si era sbottonato più degli altri era stato un vecchio ubriacone di nome Giulio, la cui storia più bizzarra parlava di uno strano rituale esoterico che si teneva ogni dieci anni in cima a quel campanile e che, guarda caso, si sarebbe ripetuto proprio qualche mese dopo il loro arrivo.

    Ogni altra ragazzina di appena undici anni avrebbe ascoltato quella storia strampalata e sarebbe andata a dormire fantasticando su ciò che sarebbe potuto succedere durante il rito, ma non Irene.

    Giunto il giorno predestinato, lei aveva atteso il momento della notte nel quale tutti, compresa sua madre, dormivano profondamente. Poi era sgattaiolata via dalla sua stanza e si era intrufolata nella torre, risalendo, con non poca fatica, l’impervia scalinata a spirale che conduceva in cima al campanile. Purtroppo, una volta arrivata a destinazione, il Custode aveva messo subito fine alla sua avventura segreta.

    Da quel momento aveva avuto inizio un vero e proprio incubo.

    Avvolto in un mantello scuro che non rivelava nulla del suo aspetto, l’imponente uomo non l’aveva redarguita come si sarebbe aspettata, bensì le aveva mostrato quattro strani individui di fronte ai quattro accessi della magione, che sembravano attendere pazientemente nonostante la pioggia scrosciante. Il motivo per il quale si trovavano lì era competere in quella che il Custode aveva definito come la Guerra della Rosa Nera, ovvero uno scontro tra i migliori incantatori del mondo. Il vincitore sarebbe stato insignito del titolo di Gran Maestro della Loggia, ricevendo in sorte un immenso potere fuori da ogni comprensione; mentre Irene sarebbe diventata la sua apprendista.

    In realtà, non aveva idea né di cosa fosse la Loggia della Rosa Nera, né di cosa significasse esserne membri, ma, grazie a uno strano sortilegio ipnotico, aveva avuto un assaggio della difficile vita di quei quattro maghi e, stranamente, non ne era rimasta affatto intimorita. Ciò che aveva visto l'aveva incuriosita ulteriormente e voleva, doveva, saperne di più. A tal proposito, però, il Custode aveva chiarito con tono fermo che, qualora avesse deciso di andare oltre, non sarebbe più potuta tornare indietro.

    In cuor suo, Irene sapeva bene che la scelta più giusta da fare sarebbe stata quella di andarsene da quel luogo il più velocemente possibile, ma il suo istinto le diceva tutt'altro.

    Una folata di vento agitò la sua veste da notte, accarezzandole i lunghi capelli scuri. Un brivido gelido le attraversò il corpo, ma la ragazzina ignorò il freddo e scacciò la tensione del momento con un profondo respiro, sussurrando poi un debole «Sono pronta».

    Subito dopo, il rombo di un tuono si confuse con le altisonanti parole incomprensibili pronunciate dal Custode, che riecheggiarono per alcuni istanti su tutta la città di Torino. Un forte bagliore verde acceso ricoprì ogni cosa e ci fu solo silenzio.

    Anno Domini

    MDXVII

    1517 D.C.

    Capitolo 1 – Tessa

    Foresta di Mantoverde... 3 Agosto.

    Del gruppo di dieci uomini che Jacopo Adoaldi aveva mandato in avanscoperta, solo un giovane ragazzo di nome Piero era riuscito a far ritorno; l’espressione stravolta sul suo viso arrossato sembrava dovuta a qualcosa che andava ben oltre la lunga corsa che aveva dovuto affrontare. Senza neanche concedergli un attimo di riposo, Jacopo pretese che quel superstite fosse portato immediatamente nella sua tenda personale, per riferire tutti i dettagli di ciò che aveva visto.

    «Avevate ragione, capitano» esordì il ragazzo con il respiro ancora affannoso. «Il loro accampamento è a sud, nel cuore della foresta, a due giorni di marcia da qui. Casolari spartani costruiti tra gli alberi, come se la natura vi fosse cresciuta sopra. Abbiamo cercato di avvicinarci il più possibile, ma ci hanno scoperto»

    «Chi vi ha scoperto?» gli chiese Jacopo con tono deciso.

    Piero sembrò titubante, quasi temesse di dare una risposta sbagliata. Il suo sguardo timoroso passò dal capitano agli altri due sottufficiali presenti all’interno della tenda, ma la persona che più di ogni altra sembrava metterlo maggiormente in soggezione era l’unica che se ne stava in disparte a riscaldarsi davanti a un braciere acceso. Nessuno, eccetto Jacopo Adoaldi, sapeva il suo vero nome, ma tra il resto della compagnia di mercenari era conosciuta come la zingara. Era una donna dai lunghi capelli ricci, di un nero corvino come la pece, e occhi dalle iridi vitree come luce riflessa su di uno specchio d’acqua. Si agghindava sempre con ampie vesti sgualcite e vistosamente usurate dal tempo, in cui tintinnavano un’infinità di catene e altri gingilli metallici appesi. Dal modo in cui fissava i carboni arroventati che aveva davanti non sembrava affatto interessata al discorso, anche se si diceva che avesse la capacità di vedere e sentire ogni cosa in ogni luogo.

    «Avanti, ragazzo, sputa il rospo, non abbiamo tutto il giorno!» A istigare il ragazzo era stato un uomo calvo e dal volto corrucciato, il cui occhio sinistro era stato strappato via dal fendente di una lama per poi essere sostituito da una cucitura posticcia. Dal mento gli partiva una lunga barba scura, talmente sudicia da avere rimasugli di un cibo consumato chissà quanti giorni prima.

    Davanti a quel volto inquietante che ora lo squadrava da vicino, Piero sembrò ancor più intimidito.

    Il corpo massiccio di quell’uomo era protetto da una grezza armatura composta di pesanti piastre metalliche, sul cui spallaccio destro era raffigurato il leone alato di San Marco che denotava il grado di comandante degli stratioti: spietati e avidi mercenari al soldo della Serenissima Repubblica di Venezia. La loro fama era ben nota a tutti, ma ancor di più lo erano le gesta del loro comandante, capace di ridurre in poltiglia il cranio di un uomo con un solo colpo della sua mazza ferrata, interamente ricoperta di piccoli spuntoni acuminati. «Allora? Si può sapere cosa aspetti a parlare?» proseguì l’omaccione con fare innervosito, senza però ottenere alcuna risposta.

    «Non dare peso alle parole di questo brontolone spelacchiato» Per fortuna di Piero, l’altro sottufficiale era intervenuto in suo soccorso, avanzando verso di lui con un sorriso irriverente nascosto sotto ai baffi scuri e un boccale di vino stretto nella mano destra. «Diventa sempre intrattabile prima di una battaglia» proseguì rifilando una pacca sulla spalla dello stratiota, che sembrò innervosirsi ancora di più.

    Piero conosceva bene anche quell’uomo, perché costui era senza ombra di dubbio il comandante che avrebbe voluto servire. Sempre disteso e scherzoso, era a capo dei rinomati Balestrieri della Serenissima, ovvero un gruppo scelto di mercenari provenienti, come gli stratioti, da Venezia ma, a differenza di loro, estremamente abili nel tiro con la balestra.

    Agli occhi di Piero, l’aspetto di quel balestriere non sembrava rispecchiare lo stereotipo del soldato. Se si faceva eccezione per la giubba di cuoio ricoperta da chiodature metalliche e una piccola faretra piena di dardi che gli pendeva dal fianco sinistro, lo si sarebbe potuto scambiare per una persona qualunque, con un taglio corto di capelli piuttosto comune e un atteggiamento totalmente rilassato.

    «Ora fatti un sorso, amico» gli disse, porgendogli l’altro boccale di vino che era poggiato sul tavolo, «poi raccontaci con calma tutto quello che hai visto nella foresta».

    La tensione sul volto di Piero si allentò, poi il ragazzo decise di fare come gli era stato consigliato. Fece un lungo sospiro, quindi trangugiò in una sola sorsata l’aspra bevanda contenuta nel bicchiere e iniziò a parlare.

    «Non saprei dire con esattezza quello che ho visto. È accaduto tutto molto in fretta»

    Anche se era rimasto in disparte, gli occhi di Jacopo non avevano mai smesso di scrutare quelli del ragazzo. «Vai avanti» gli disse, mostrando un’evidente nota di impazienza.

    «Sì… Beh… ecco… dunque, da un paio d’ore ci eravamo inoltrati nel folto della foresta, seguendo minuziosamente le istruzioni che ci avevate fornito voi, capitano, quando, a un tratto, siamo stati bersagliati da una pioggia di frecce»

    «Arcieri…» lo stratiota sputò a terra con fare disgustato. «Quanti ne avete contati di quegli schifosi codardi?»

    Il ragazzo fece una pausa. «Non saprei dare un numero preciso, perché se ne stavano rintanati dietro gli arbusti o all’interno delle cavità di alcuni tronchi. Ma se dovessi ipotizzare, direi almeno una trentina o forse più…»

    «Quindi, fammi capire» intervenne il comandante dei balestrieri con espressione turbata: «sono bastati solo trenta arcieri per abbattere un’intera pattuglia di esploratori?».

    «Beh… veramente, no… » il nervosismo di quei ricordi iniziò a far sudare Piero. «Appena abbiamo iniziato a sentire il sibilo delle frecce, ce la siamo data a gambe. Ho visto Antonio davanti a me accasciarsi a terra dopo essere stato colpito alla schiena e un altro paio di noi hanno subito la stessa sorte, ma poi… » il ragazzo fece una pausa, ingoiando rumorosamente.

    «Poi, cosa?» lo incalzò lo stratiota facendosi sempre più vicino, mentre una vena pulsante di rabbia si gonfiava sul cranio pelato.

    «Poi ci siamo imbattuti in un contingente di…» Piero sentì la gola farsi improvvisamente secca. Purtroppo non c’era più neanche una goccia di vino nel suo boccale.

    «Dannazione!» Il grosso soldato veneziano batté entrambi i pugni sul tavolo di legno, facendo sobbalzare la caraffa assieme agli altri calici lasciati vuoti. «Vedi di parlare, ragazzo, o quant’è vero Iddio ti strapperò la lingua con le mie mani e poi te la ficcherò in gola!»

    Il volto del giovane esploratore impallidì di terrore davanti alla furia di quell’unico occhio. Quindi intervenne Jacopo Adoaldi a placare gli animi, poggiando una mano ferma sulla spalla del suo sottufficiale per allontanarlo dal tavolo. Lo stratiota eseguì l’ordine implicito sbuffando sonoramente, senza però aggiungere altro. Poi il capitano tornò a rivolgersi al ragazzo impaurito. «Non aver timore di raccontare ciò che hai visto, perché l’ho visto anch’io» quindi si accarezzò mestamente la profonda cicatrice che segnava la sua guancia sinistra. «Ora però, voglio che sia tu a descriverlo a tutti noi»

    Piero riuscì a trovare conforto in quelle parole, quindi fece un profondo respiro e riprese da dove aveva interrotto. «Mostri, capitano, non saprei come definirli diversamente» i volti dei due sottufficiali si fecero perplessi, mentre sul braciere scoppiettò qualcosa proprio davanti alla zingara. «Avevano… beh, sì, ecco… loro… erano uomini, possenti uomini, in parte, ma con le gambe che sembravano quelle di una specie di capra, perché, insomma… per via degli zoccoli. Poi i loro volti, come posso dire, sembravano sformati, pelosi, allungati e con delle cose simili a… corna. Addosso non avevano delle vere armature, solo pezzi di metallo sparsi che li coprivano a malapena ed erano armati di lance lunghe che sapevano maneggiare come mai avevo visto fare prima»

    «Ti sei forse ubriacato con un solo bicchiere, ragazzino?» chiese lo stratiota, quasi infastidito da quella che sembrava una presa in giro.

    «No, signore, lo giuro…» replicò Piero con una mano sul petto, «che io finisca tra le fiamme dell’inferno se sto mentendo!».

    «Dunque sono stati loro a uccidere i tuoi compagni?» chiese il balestriere, accarezzandosi i baffi.

    «No, signore, appena li abbiamo visti arrivare ci siamo sparpagliati per non dar loro la possibilità di colpirci. Siamo esploratori e sappiamo che l’importante è fare in modo che almeno uno di noi sopravviva per riferire ciò che ha visto»

    «Allora, chi è stato?»

    «Beh… i… i cavalieri» quella risposta lasciò di stucco i due sottufficiali.

    «Ci stai dicendo che queste bestie sanno anche andare a cavallo?» proruppe lo stratiota, facendosi di nuovo avanti dal fondo della tenda in cui era stato relegato.

    «No, signore, è solo che…» Piero sapeva che non gli sarebbe stata concessa più nessuna pausa, quindi si fece coraggio. «I cavalli… loro stessi erano i cavalli»

    Il racconto del ragazzo proseguì per altri dieci minuti, con dettagli sempre più inquietanti sulle caratteristiche dei mostri e sulle loro incredibili abilità belliche, concludendosi con la fortunata fuga che lo aveva portato a trovare un ruscello in cui gettarsi e nel quale i suoi inseguitori parevano aver rinunciato a immergersi. Quando non ebbe più nulla da dire, gli venne concesso di tornare nella sua tenda; Piero non fu mai così lieto di potersi distendere nel suo scomodo giaciglio da campo.

    Jacopo aveva ascoltato molto attentamente ogni parola senza mai intervenire. Voleva che i suoi sottufficiali conoscessero con esattezza cosa li avrebbe attesi, ma voleva anche che fosse una voce diversa dalla sua a farglielo sapere.

    «Dunque il prete mezzo-scuoiato aveva ragione» osservò lo stratiota, grattandosi la lunga barba. «Le sue parole non erano solo i vaneggiamenti di uomo torturato. In quella foresta si annida davvero il male primordiale»

    «Io dico di filarcela finché siamo in tempo» Il tono pragmatico del balestriere mal celava un evidente timore. «Se sono dei veri demoni, come possiamo anche solo sperare di riuscire a scalfirli?»

    «Siete entrambi in errore» la voce decisa di Jacopo ammutolì i suoi sottoposti. «Se fossero davvero invincibili come credete, perché mai dovrebbero nascondersi per attaccare dietro agli anfratti del sottobosco? E per quale motivo si dovrebbero proteggere con armature o con scudi durante un combattimento? No, se fossero realmente invulnerabili, sarebbero spavaldi e inflessibili. Invece hanno mostrato prudenza e anche timore… ed è per questo che noi vinceremo. Perché noi quel timore non lo abbiamo»

    «Ma non sappiamo neanche quanti siano» obiettò il balestriere, «quella immensa foresta potrebbe nasconderne migliaia».

    «Il numero dei loro guerrieri non supera neanche la metà dei vostri» sussurrò la voce sottile della zingara, gelando le espressioni dei due sottufficiali, «di questo potete esserne certi».

    Nessuno dei due replicò. Jacopo non poteva sperare in un intervento più propizio da parte di Esmeralda. Qualsiasi cosa dicesse, quella donna sembrava riuscire a convincere chiunque.

    «Avete sentito, dunque?» aggiunse il capitano, con sguardo carico di determinazione. «Siamo in netta superiorità e, quando tra due giorni raggiungeremo la loro foresta, li rispediremo uno dopo l’altro nell’inferno dal quale sono venuti!»

    Il comandante degli stratioti si fece contagiare dall’entusiasmo, battendosi un pugno sul petto prima di emettere un breve urlo gutturale. Il balestriere non condivise le loro stesse emozioni, ma non si oppose neppure. Entrambi ricevettero le proprie direttive, poi uscirono dalla tenda per riferire i dettagli agli altri soldati, lasciando il capitano da solo con la zingara, la quale era tornata a guardare nel braciere pieno di carboni ardenti che aveva davanti.

    «Dunque, il prete aveva ragione» disse Jacopo, ripetendo le medesime parole del suo sottufficiale. «I Primaevi sono davvero nascosti in questa foresta»

    La zingara si voltò di scatto verso il capitano. «Io, avevo ragione» sibilò irritata. «Ti avevo confermato che avremmo trovato il Sangue di Gea e così è stato. Quello schifoso prete sfigurato e le sue farneticazioni su di un presunto Diavolo Bianco nascosto nella foresta sono stati solo un mezzo per arrivare fin qui»

    «Tutto questo è comunque piuttosto strano» Il capitano si carezzò la cicatrice con fare pensieroso. «Se il Sangue è davvero tra quegli alberi, perché non lo hanno ancora portato via?»

    «I Primaevi sono stati incauti» sottolineò la zingara, chiudendo gli occhi e ispirando una voluttuosa nuvola di vapore. «Hanno fatto ricorso al Sangue di Gea per ottenere qualcosa di molto potente, ma in questo modo lo hanno vincolato inesorabilmente a quel luogo»

    Molto spesso, Jacopo lasciava cadere nel vuoto le criptiche parole di Esmeralda, ma in quel caso c’era una questione che doveva assolutamente chiarire. «Mi stai dicendo che il Sangue di Gea è diventato inamovibile?»

    La zingara arricciò le labbra, accennando un vago sorriso di scherno. «Placa le tue paure, mio giovane capitano, e preoccupati più che altro di come sbarazzarti dei Primaevi. Al resto penserò io»

    Quella stessa sera…

    «Arrivano!» Il grido che provenne dall’esterno della capanna raggelò il sangue di Tessa. Perfino Artas e il capitano Kohl, completamente assorti nello studio della mappa sulla quale era riprodotta la foresta di Mantoverde, ebbero un sussulto di preoccupazione nel sentire quell’esclamazione. Poi, il telo in pelle d’orso posto all’entrata si scostò con uno strattone irruento, e un fauno guerriero con il viso aggrottato fece il suo ingresso. «Sono in marcia, somma Sciamana, e saranno qui tra un paio di giorni» disse con

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