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Le ragazze di Vivaldi
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Le ragazze di Vivaldi

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Da trecento anni la musica di Antonio Vivaldi incanta il pubblico.

Meno nota del suo genio musicale è la sua figura di primo piano nella società veneziana; il giovane prodigio dai capelli rossi riusciva a far svenire le donne con la grandiosità travolgente delle sue esibizioni di violino, specialmente dopo aver scambiato i suoi panni di abate con quelli audaci della celebrità.

Attraverso le parole di un amico d'infanzia, Domenico Trapensi, "Le ragazze di Vivaldi" narra la storia affascinante del periodo in cui Vivaldi lavorò come insegnante di musica al conservatorio di Venezia, di chi si innamorò di qualcosa di più delle sue lezioni di violino e del suo amore per altre ragazze durante i viaggi nelle città italiane del suo tempo.

LanguageItaliano
PublisherNext Chapter
Release dateJul 29, 2021
ISBN9798201311056
Le ragazze di Vivaldi

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    Le ragazze di Vivaldi - D.P. Rosano

    Venice once was dear, the pleasant place of all festivity. Lord Byron

    29 luglio 1741,

    Vienna

    Riposa ora sotto la molle terra bruna.

    Mentre guardo in basso, verso il tumulo appena spalato ai miei piedi, si fanno strada verso di me le note della sua ultima composizione. Ricordo il nostro incontro dell'altra sera, mentre sedevo sulla piccola sedia accanto al fuoco nel suo studio. Chiacchieravamo come fossimo amici; lui sorrideva, raccontava piccoli aneddoti, soprattutto su stesso, e a me toccava dissimulare il mio astio.

    Ancora una volta sono solo con lui. I becchini se ne sono andati; tutte le sue ragazze, gli adulatori mi hanno lasciato da solo su questa collinetta nel cimitero di Bürgerspital per porgergli rispettosamente l'ultimo saluto. Ma il rispetto se ne è andato da un pezzo: sono qui per guardarlo un'ultima volta dall'alto.

    Non può più darmi noia con i suoi racconti pieni di boria. La mia mente è concentrata sulla vendetta, non quella impulsiva che si accende in un'esplosione di rabbia, ma quel tipo di vendetta che è eterno. Guardo in alto verso il cielo azzurro e spero. Forse gli angeli che sono accorsi al suo cospetto quando il respiro gli è venuto a mancare per l'ultima volta lo hanno riconosciuto. Forse hanno visto il volto da cui i cieli

    Le ragazze di Vivaldi

    li avevano messi in guardia. Forse allora lo hanno scagliato giù, in basso, invece di innalzarlo.

    L'altra sera lo fissavo alla luce fioca dei candelabri al pianoforte, la testa che gli oscillava dolcemente a ritmo di musica. La melodia che aveva composto era delicata, struggente e

    – dovevo ammetterlo – incantevole. Le vibrazioni che si riverberavano dal pianoforte creavano lievi volute nell'aria che si facevano strada verso di me. Il suo grande talento aveva sempre fatto credere a ogni individuo che si trovasse in una stanza di essere lui il pubblico per cui la musica era stata composta.

    Ma quando guardai Antonio e vidi il lieve sorriso che gli increspava le labbra, mi ricordai ancora una volta che lui suonava solo per se stesso.

    Mi spostai sulla sedia, incrociando la gamba sinistra, quella zoppa, sull'altra, accomodandomi di nuovo mentre anche lui si spostava sul registro grave dello strumento, accarezzando dolcemente i tasti e facendo scivolare delicatamente le dita dal bordo d'avorio.

    Ero lì l'altra sera perché Antonio aveva appena finito di comporre la nuova partitura e mi aveva invitato nel suo misero monolocale vicino a Stephansplatz per ascoltarla. Aveva un insaziabile bisogno di approvazione ed io gli fornivo quel pubblico a cui poter dimostrare di essere ancora il genio che il mondo ricordava. Non che la considerasse il suo capolavoro, ma cercava l'apprezzamento di qualcuno e il caso vuole che mi trovassi a Vienna in quel periodo. Sorridendo spazientito, avevo accettato ma  erano altre le ragioni che avevo per fargli visita.

    Dopo il mio arrivo rimanemmo seduti un'ora passando in rassegna le notizie del giorno e le storielle annesse: nessuno di noi era particolarmente interessato a quello che si diceva in giro, ma usavamo la conversazione come lo spadaccino para i colpi dell'avversario aspettando che si presenti l'occasione giusta per lanciare l'affondo.

    La candela tremolava e i piccoli ceppi crepitavano nel camino. Non che fosse necessario scaldare la stanza, non a luglio, ma le fiamme basse del focolare emettevano nella stanza un bagliore fioco e scarno sufficiente a illuminare il suo viso e i tasti del pianoforte su cui poggiavano le dita.

    Quella sera la nostra conversazione era simile a quella di due uomini di  una certa età che si ritrovavano a condividere il tempo e i ricordi di una vita. Se un estraneo in quel momento fosse stato sull'uscio, sarebbe stato indotto a pensare che io e Antonio fossimo amici, e non lo si sarebbe potuto biasimare. Ma nonostante gli anni trascorsi insieme, non era l'amicizia a riunirci.

    La verità era che amavamo entrambi la stessa donna. Una delle sue avventure, nel suo caso. Ma la mia sposa: la donna che  Avevo amato sin da quando, a ventun anni, l'avevo vista in fasce. La bambina che avevo visto crescere e diventare donna, i cui occhi scintillanti e le lunghe trecce bionde mettevano in pericolo ogni uomo che avesse la ventura di incrociarne lo sguardo.

    Nonostante i tanti pretendenti, lei aveva scelto me, un uomo con la gamba claudicante, i capelli grigi, radi, e molti anni in più. E il miracolo, in tutto questo, era che lei mi amava.

    Ma amava anche la sua musica. Ne era stregata, e lui usava quelle melodie per adescare Rachel proprio come aveva adescato le altre.

    Alla fine ero io colui che avrebbe fatto pagare Antonio Vivaldi per i suoi peccati.

    Giugno 1693, Venezia

    La nascita di Antonio nell'anno Milleseicentosettantotto era stata segnata dal malocchio. Quel giorno c'era stato un terremoto in città, il primo dopo tanto tempo, e si diceva che la sua salute fosse stata da subito cagionevole. Appena uscito dal grembo materno, Antonio tossì e balbettò, con il petto che sussultava cercando il respiro: la sua famiglia pensò che non sarebbe arrivato al tramonto. Così la levatrice lo battezzò quel pomeriggio, atto condannato dai sacerdoti di Venezia come empio e contrario alla volontà di Dio. Ma la madre di Antonio, che con fatica si stava riprendendo dalle complicanze del parto, temeva che il piccino - che allora respirava - le morisse tra le braccia e andasse all'inferno senza un vero e proprio battesimo.

    Antonio Vivaldi nacque il mio stesso anno. La sua famiglia, a differenza della mia, non era illustre: il padre era un semplice barbiere.

    Giovanni Vivaldi si dava da fare cercando di racimolare qualche soldo per sfamare la sua famiglia, e quel giorno non era a

    casa. Venne a sapere da un amico in piazza della nascita e del battesimo.

    Il piccolo Antonio sopravvisse. Trascorse molti anni della sua giovinezza con un'insufficienza respiratoria, un destino che lo avrebbe seguito anche in età adulta. Quando eravamo piccoli, come spesso avviene, le ricchezze dei nostri genitori sembravano solo un dettaglio: non facevamo distinzioni tra chi aveva di più e chi di meno, quando eravamo in compagnia. Io provavo compassione per la difficile situazione di Antonio, ma mio padre mi aveva convinto che la cosa non fosse affar nostro.

    Non ci badare, diceva, è solo un musicista. Negli anni, ogni volta che parlavo con Antonio, la sua voce

    pareva sempre aprirsi un varco tra i respiri, a volte quasi come un sibilo. Prestavo attenzione cercando di decifrare le sue parole, ma erano quelle di mio padre a rimbombarmi in testa.

    Il padre di Antonio possedeva un discreto talento musicale, che gli dispensava un certo sollievo dal lavorare come barbiere dei poveri. Le sue abilità con gli strumenti musicali erano modeste, sufficienti a dare ad Antonio e agli altri otto figli un'entratura nel mondo dei concerti e delle opere, ma non abbastanza da consentirgli di distinguersi nella classe alta dei maestri a Venezia.

    Sebbene cercasse del talento nella sua discendenza, Giovanni non nutriva alcuna speranza di trovare un'autentica eccellenza musicale nella sua prole. Pensava che ognuno di loro avesse sprecato la sua occasione – o semplicemente che non fossero all'altezza.

    Ma Antonio era diverso. Sin da piccolo aveva dimostrato una straordinaria capacità nel suonare il violino. I genitori gli avevano proibito gli strumenti a fiato:

    il respiro corto e affannoso non gli avrebbe mai permesso di arrivare al successo.

    Aveva solo quindici anni quando i genitori lo offrirono in sacerdozio alla Chiesa. Probabilmente la madre era ancora terrorizzata del malocchio che diceva aleggiasse sulla sua vita. Il padre di Antonio, invece, era più pragmatico. Con altri otto figli a carico, il maestro Giovanni desiderava soltanto che il figlio trovasse una stabile carriera nei paramenti.

    Quell'anno Antonio aveva già messo all'opera il suo genio musicale nella scrittura di un inno liturgico. Laetatus sum era una composizione brillante e giocosa che abbinava a una squisita orchestra impennate vocali, e che pareva portare il cielo  in terra. Forse le aspettative di Giovanni nei progressi del figlio erano state ben riposte. Ad ogni modo, il sacerdozio e gli studi annessi avrebbero dovuto avere la precedenza, e nessuno era in grado di dire quanto un percorso avrebbe potuto influenzare l'altro.

    Dicembre 1696, Cattedrale di San Marco, Venezia

    Ci esibimmo entrambi a un concerto di Natale nella basilica di San Marco, la cattedrale più bella di tutta la cristianità. Presi posto nella quarta fila dei violini, sentendo un'eccitazione nervosa nelle mani e nelle dita mentre aspettavo in silenzio che venisse annunciato il giovane Maestro Antonio Vivaldi, per applaudire compostamente sotto le arcate ricurve della gloriosa chiesa bizantina. Era una piccola figura, un giovinetto orgoglioso che teneva sempre la schiena ben dritta per sfruttare al massimo la statura modesta che il Signore gli aveva donato. Ma ogni volta che si alzava per suonare il violino, Antonio si trasformava. Non era più il giovane alle prese con il respiro affannoso e le gambe corte. Quando suonava, era un fuoriclasse che raccoglieva i sospiri delle donne e i sorrisi raggianti della sua famiglia.

    Eravamo in trenta a suonare, quel giorno. Tutti maschi, un avvenimento inusuale di per sé. A Venezia c'era un conservatorio, o meglio una scuola di musica, collegato all'

    orfanotrofio. Il prefetto della scuola non perdeva tempo a insegnare musica ai ragazzi, che venivano invece avviati ai mestieri. Era alle orfane che veniva impartita la musica; poteva quindi sorprendere che in quel concerto a San Marco non ci fosse nessuna ragazza. Ma suonare nella cattedrale era riservato ai ragazzi di Venezia, soprattutto quelli delle famiglie il cui successo nel commercio determinava il destino della città.

    Riflettevo su tutto questo dal mio oscuro anfratto verso il fondo dell'orchestra quando vidi Antonio fare il suo ingresso a sinistra dell'altare. La sua famiglia non era ricca né importante. Eppure, già in tenera età lui aveva raggiunto la fama in quello che da sempre consideravo il lavoro della mia vita. Era stata la sua maestria nella musica a portarlo lì sull'altare di San Marco per il concerto di Natale, un privilegio che pensavo riservato alle famiglie notabili della nostra città. Per un momento, avrei scambiato volentieri i miei abiti pregiati con il suo panciotto di seconda mano.

    Il nervosismo abbandonò le mie mani, mentre pensavo a tutto questo. Ma la sensazione che prese il suo posto mi

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