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Biglietto di terza classe
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Biglietto di terza classe

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About this ebook

Lina ha poco più di vent’anni. Per sfuggire alla miseria lascia la sua Valtrebbia, si imbarca sulla Prinzess Irene per New York, inseguendo il sogno di una vita migliore.

Il viaggio in mare aperto non è confortevole ma pieno di insidie e di pericoli.

Il 25 febbraio 1904 sbarca a Ellis Island – L’isola delle lacrime. Dopo umilianti controlli l’attende la estenuante ricerca di un lavoro, la non facile esistenza da cittadina americana. Non sa ancora cosa il destino ha in serbo per lei e per chi le sarà a fianco: affronta le contraddizioni di un grande paese, la lotta per i diritti della donna, lo sfruttamento del lavoro minorile. Troverà l’amore della sua vita, ma dovrà pagarlo a caro prezzo.
LanguageItaliano
PublisherPubMe
Release dateJul 15, 2021
ISBN9788833669526
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    Biglietto di terza classe - Silvia Pattarini

    cover-image, Biglietto di terza classepage1image30482352

    COLLANA GLI SCRITTORI DELLA PORTA ACCANTO

    SILVIA PATTARINI

    Biglietto di terza classe

    ROMANZO

     Immagine 10

    Pubblicato da Pubme © – Collana Gli scrittori della porta accanto

    Seconda edizione 2021

    ISBN:

    Copyright © 2021 Gli scrittori della porta accanto

    Responsabile editoriali: Davide Dotto

    Elaborazione grafica copertina: Stefania Bergo

    Progetto grafico e impaginazione: Stefania Bergo

    Immagine di copertina: Shutterstock

    Impaginazione ePub: Valentina Gerini

    © Tutte le immagini sono di proprietà dell’autrice e/o della sua famiglia.

    Per essere informati sulle novità

    della collana Gli Scrittori della Porta Accanto

    visitate il sito: www.gliscrittoridellaportaaccanto.com

    Questa è un'opera di fantasia.

    Ogni riferimento a fatti, luoghi o persone è puramente casuale.

    È vietata la riproduzione completa o parziale dell’opera ai termini e alle condizioni alle quali è stato acquistato o da quanto esplicitamente previsto dalla legge applicabile (Legge 633/1941)

    Alla memoria dei miei antenati,

    per la memoria

    dei miei figli.

    Nonna

    L’occhio mio

    Accarezza mesto

    Il giallo e l’arancio

    Del giorno che

    Inesorabile

    Volge al tramonto

    Come te, nonna.

    PRIMA PARTE

    1.

    1903

    Arrivò un’altra lettera, a lei toccò l’ingrato compito di leggerla. A fare la differenza erano le notizie che conteneva. Riportarne di buone le risultava facile, ma quando non era così, si sentiva in colpa verso i famigliari.

    Aveva imparato a modificare qualche parola di sua iniziativa, per edulcorare il tutto. La frase ho perso il lavoro si trasformava in un più accettabile sto cercando una nuova occupazione.

    Le era capitato di mentire senza pudore sulla sorte di qualcuno. Non era riuscita a riportare a una madre che il figlio era morto sul lavoro. Si era limitata a riferire che il giovane era rimasto vittima di un grave incidente e che al momento non era in grado di inviare denaro. Il tempo avrebbe fatto il resto, e la povera Pireina avrebbe imparato ad aspettarsi il peggio.

    Quella volta, però, in preda ai rimorsi di coscienza, era corsa al confessionale. Il reverendo l’aveva rimproverata, poi assolta con una settimana di rosari da recitare la sera.

    Il prete non capiva. Come poteva una ragazza di diciassette anni assumersi una responsabilità così gravosa, riportare a una madre della morte del figlio? Spettava alle autorità, non a lei.

    D’altro canto Lina era l’unica ragazza della zona a saper leggere e scrivere. Per buona sorte era una persona riservata, non andava a spifferare in giro i fatti altrui.

    Ogni volta che giungevano lettere dalla lontana Merica, tutti correvano da lei, impazienti di sapere.

    Riconoscenti le portavano piccoli doni: chi delle uova quando era la stagione, chi della frutta o della verdura, chi un pane che in certi giorni di carestia non era cosa da poco, o chi, non avendo nulla per contraccambiare il favore, si limitava a ringraziarla: «pradess at ringràsi».

    Qualcuno le chiedeva di rispondere, quindi le capitava di spendere buona parte di tempo prezioso, a scapito di mansioni ben più urgenti. Non se la sentiva di rifiutare un favore a un vicino di casa, era fatta così. Le sue faccende avrebbero aspettato.

    Quelle persone erano analfabete, lo sapeva bene. Lo scrivano più vicino distava sette chilometri a piedi; un vero ficcanaso, voleva sempre sapere il perché e il percome.

    Lina, invece, era discreta. E confidava nel proverbio una mano lava l’altra. Sapeva che quel favore sarebbe stato restituito.

    Nel complesso era affascinata dal Nuovo Continente, ne aveva lette e sentite di tutti i colori. Qualcuno dotato di fervida fantasia si divertiva a descrivere Nuova York con "Case che arrivano a toccare il cielo, non si salgono le scale a piedi ma si entra in una porta magica che trasporta fino alla cima del palazzo".

    Altri parlavano di acqua che esce dai rubinetti dentro le case, e di luce in casa. Raccontavano di cibo e lavoro per tutti. Insomma, una vera pacchia!

    Il genovese stava diffondendo in giro un vero e proprio mito della Merica. Erano almeno un paio di mesi che bazzicava nella zona. Lo conoscevano tutti, ma nessuno sapeva il suo vero nome, così lo apostrofavano "Al genuès". Ogni giorno cambiava paese, si spostava lungo la Valtrebbia. Si posizionava in una zona di forte passaggio nei dintorni della piazza principale.

    Con fare teatrale, esponeva alle ingenue folle ciò che di allettante e positivo avrebbero incontrato gli emigranti nella nuova patria. Era un abile oratore, parlava per ore e ore. Le frasi che uscivano sotto quei baffoni neri erano di gran lunga più attraenti delle parole che usava il reverendo Franco nelle sue prediche.

    Nugoli di giovani lo attorniavano e ascoltavano tutt’orecchi, meravigliati.

    «Alla Merica le strade sono lastricate d’oro, non ci credete? Chiedetelo alle zitelle che hanno trovato marito, anche le zoppe e le orbe si sono maritate! E i loro figli frequentano le scuole. Di lavoro ce n’è. Chiedetelo a chi è già partito, vi confermerà che ci sono ponti enormi, sospesi per aria con cavi d’acciaio.»

    I più anziani non si fidavano di lui e lo guardavano con sospetto. I giovani lo ammiravano.

    Il suo era un compito facile: la maggior parte di quelle genti viveva tra stenti e fatiche, quindi non aveva nulla da perdere, piuttosto qualcosa da guadagnare una volta giunti nel nuovo mondo. Raggirare quelle persone era un gioco da ragazzi. Non era preda dei rimorsi, lo pagavano per questo.

    Sapeva bene che grazie alla sua opera di convincimento, e non solo la sua a dirla tutta, in pochi decenni migliaia di giovani attraversarono l’oceano, incrementando i profitti delle compagnie di navigazione. La sera, quando si coricava nella branda alla locanda, pensava che la sua fosse un’occupazione gratificante. Non proprio pulita, ma nei limiti della legalità.

    Centinaia di agenti come lui erano sparpagliati in tutta Italia, col compito di convincere i giovani a partire per la Merica.

    Il fine giustifica i mezzi pensava, lavandosi così la coscienza.

    I paesani ignoravano che talvolta il genovese non si limitava a convincere aspiranti emigranti. In certi casi consigliava agli stessi di rivolgersi a tipi di sua conoscenza, «persone di fiducia», ribadiva, per chiedere prestiti in denaro per l’acquisto dei biglietti. Ci era cascato pure Ricu Marogna e lo aveva ringraziato di vero cuore.

    «È un signore, se hai bisogno ti aiuta» aveva raccontato un giorno all’osteria In Vino Veritas, tra un asso di spade e un re di denari. Solo quando il figliolo era giunto alla Merica, intuì che il prestito ottenuto era gravato da interessi usurari. E una sera che il vino rosso era entrato in circolo e la lingua correva senza inibizioni, ecco spuntare la nuova versione: il genuès era tutt’altro che un galantuomo.

    «Al ma farghà una vota, ma sal ciapp ag fo’ vedd la stria

    Era stato fregato una volta, ma se l’avesse incontrato l’avrebbe sistemato a dovere.

    Tra gli amici di bevute all’osteria aveva cantato "L’è un trapanant", un imbroglione.

    La questione si era conclusa con una bella ipoteca che pendeva sul suo tugurio e con la messa in vendita di bestiame e masserizie. Il suo figliolo avrebbe dovuto lavorare dieci o quindici anni prima di estinguere il debito contratto. Era scoppiato in lacrime davanti a tutti, il povero Ricu. Nel frattempo del genuès si erano perse le tracce.

    "Il tele fon. Cosa sarà mai questo tele fon?"

    Con la sua fantasia di umile contadina, Lina non riusciva proprio a immaginare una forma adatta a questo apparecchio. Qualcuno lo descriveva simile a un bicchiere con un filo, dentro il quale si parlava. Dall’altro capo qualcuno sentiva e rispondeva.

    Come è possibile parlare dentro un bicchiere?

    Di certo la gente si divertiva a fare burle, ma sua sorella le confermò l’esistenza di quell’oggetto.

    Se tu ciavesti il tele fon non servirebe piu scriversi delle lunghe lettere, ma si potrebe parlarci subito! Capisi? Tu senti la mia voce come se io sarei li vicino a te e io sento la tua come se saresti cui vicino a me!

    Che diavoleria sarà mai?

    Nonostante gli sforzi non s’immaginava una forma per questo tele fon.

    La curiosità cresceva ogni giorno di più, tant’è che sarebbe partita all’istante per raggiungere la sorella solo per vederne uno.

    A quel punto le tornavano alla mente le cose terribili che aveva letto non solo nelle lettere, ma sui giornali. Il viaggio per mare non era certo una passeggiata, poteva accadere di tutto: persone colpite da epidemie di varicella, morbillo, meningite o polmonite morivano sulle navi e i corpi venivano gettati in mare nella notte. Si raccontava di madri che avevano visto morire i piccoli figli sul bastimento. Straziate dal dolore, si erano gettate in mare con loro. Per non parlare di naufragi dovuti al mare in tempesta, addirittura si era sparsa la voce di un traghetto che proprio nella baia di New York era stato distrutto da un terribile incendio, causando oltre cento morti e altrettanti feriti.

    Sua sorella era partita qualche anno addietro col marito Giulio insieme a migliaia di italiani che, come loro, senza un soldo ma carichi di speranze, andavano alla Merica in cerca di fortuna.

    Ho trovatto un buon lavoro preso una familia benestante, anno il tele fon e devo sempre rispondere io, se cene fose uno anche li potremo sentirsi molto speso. La paga è discreta e la mia padrona è molto generosa tuti i giorni mi lassia portare a casa liavanzi e mi regala senpre dei panni che non usa piu e anche dele scarpe mollto bele, e ora mi annodatto anche una casa in afitto… Una bela casa con acua che esce dal rubineto e di sera non serve neanche la lucerna perché cela luce, con un letto comoddo di piume doca e quando piove non piove neanche dentro.

    Poi la domenica andiamo tuti a Messa in una grande Cattedrrale, grande tre volte il duomo di Bobbio e fano tute le proccesioni come limò.

    Lina devi proprio venire anche tè alla Merica, il lavoro te lo catto io che conosco dei signori che ci serve una che sa cucire bene e io ciodeto che la mia sista è anche una bravisima sartora, vieni che ti aspettano, e magari ti trovi anche un marito.

    P.s. sorella si dice sista in mericano.

    Tua sista Emilia.

    Lina non era altissima. Due occhi azzurri, incastonati tra le palpebre, scintillavano con l’ardore dei vent’anni.

    Raccoglieva i capelli castani in una morbida crocchia fermata al centro della testa, sopra un volto ovale con la fronte bassa e un bel colorito roseo. Aveva un corpicino esile, due braccia magre terminavano con mani affusolate e dita lunghe, un po’ screpolate dal frequente contatto con acqua e cenere.

    Da bambina, la sfortuna si era accanita contro di lei.

    Un giorno si adoperava ad aiutare il padre ad accatastare i covoni di grano. Scivolò su una pietra appuntita provocandosi una terribile frattura al ginocchio sinistro. Per il medico non esisteva rimedio.

    Senza girarci troppo attorno, aveva prospettato ai genitori l’amputazione dell’arto, incurante del grave trauma psicologico che una simile notizia avrebbe arrecato a una bambina di dieci anni.

    Lei, stesa nella branda dietro la tenda, aveva udito le terribili parole pronunciate da quell’omone vestito di tutto punto: «Bisogna tagliare! non c’è altro da fare».

    E a capo chino aveva allargato entrambe le braccia. Sperava di avere capito male, ma quando i suoi occhi incontrarono quelli di suo padre, si rese conto di aver inteso fin troppo bene. Si era guardata la gamba ed era scoppiata in un pianto a dirotto. Suo padre era scappato fuori di corsa, a pugni chiusi, imprecando contro i santi del paradiso e i diavoli. Sua madre lo aveva rincorso, segnandosi per tutte le bestemmie che gli uscivano dalla bocca, e lo aveva pregato di smettere.

    E lei, povera piccola, come avrebbe fatto ad aiutare i genitori nelle faccende e a giocare ancora con gli amici?

    Sarebbe diventata una storpia, l’avrebbero derisa per tutta la vita. Era una condizione frustrante e inaccettabile.

    Suo padre non digeriva l’idea di vederla soffrire così.

    In cerca di una soluzione alternativa a quel che considerava un barbaro rimedio, Rinaldo aveva saputo che nel convento di Bassano, vicino a Rivergaro, delle brave suore della carità curavano i bisognosi.

    Una mattina caricò la figlia sul carretto trainato da un mulo e ce la portò, ben determinato ad affidarla alle cure delle monache.

    2.

    Dieci anni prima

    Rinaldo bussò alla porta del convento.

    S’affacciò all’uscio una giovane con un lungo abito nero. La grande cornetta bianca sul capo disegnava ai lati due ampi triangoli e ombreggiava il viso perlaceo.

    La religiosa scrutò in volto lo sconosciuto. La barba incolta di qualche giorno, il cappellaccio rovinato e unto sormontato da una lunga piuma di pavone dai colori sgargianti, l’ombra cupa nei suoi occhi azzurri, lasciavano intuire che si trattasse di un forestiero.

    Senza dargli il tempo di parlare lo invitò ad andarsene: «Se vuole qualcosa da mangiare deve passare tra un paio d’ore, ora, mi dispiace, non abbiamo nulla da offrirvi, signore».

    A quelle parole inaspettate, l’uomo replicò: «Mi perdoni sorella, non sono qui a chiedere l’elemosina. La mia bambina qualche giorno fa è caduta su una pietra appuntita e ha una gamba dolorante e malconcia. Mi hanno suggerito di chiedere a voi. Il dottore dice che l’unico rimedio è quello di tagliare la gamba. Non posso credere che non esista un altro modo. Vi prego sorella, per favore, aiutateci! Siamo disperati».

    La giovane a quelle parole riconobbe l’accento della valle ed ebbe un fremito. Scansò l’uomo e cercò con lo sguardo la bambina.

    Notò subito la benda bianca intrisa di sangue. La piccola coricata su un vecchio carretto di legno, priva di forze, esibiva un volto ceruleo e sofferente.

    Intuì il reale motivo della preoccupazione di quel poveraccio e, con evidente imbarazzo, esclamò: «Attendete un attimo, chiamo la Madre superiora».

    In pochi minuti arrivò suor Lucia.

    Non appena vide la bambina sdraiata sul carretto, così pallida in viso e la gamba con una fasciatura improvvisata, provò una morsa al cuore. Le tornò alla mente un giovane soldato, ferito in guerra alcuni anni prima, che non era riuscita a salvare. Il suo istinto le suggerì di intervenire subito.

    Si avvicinò al vecchio carretto malandato. Con le mani giunte in preghiera, scrutò negli occhi l’uomo che tratteneva a stento le lacrime. Prese fiato e coraggio per sdrammatizzare: «Vediamo un po’ cosa ha combinato questa bella bambina» esclamò con voce simpatica e rassicurante. Con delicatezza le sfiorò la gamba dolorante.

    «Ahi! Mi fa male» si lamentò la piccola con gli occhi gonfi di lacrime.

    La donna intuì subito che la situazione era grave, ma non voleva infliggere al padre, già abbacchiato di suo, ulteriori preoccupazioni.

    Grazie al cielo il Signore l’aveva dotata di garbo e diplomazia, e si sforzò di misurare le parole per lasciare trapelare un margine di speranza.

    «Poverina! Hai proprio una brutta ferita, ma vedrai che con l’aiuto di nostro Signore riusciremo a guarirti.»

    «Guarirò, suora?» chiese una vocina sottile, a cui s’aggiunsero un paio di occhietti azzurri e lucidi.

    «Ma certo cara, stai tranquilla» rispose la donna che prese a sbendare la rudimentale fasciatura insanguinata.

    «Come ti chiami?»

    «Lina» risposero all’unisono padre e figlia.

    Alla vista della lesione, la donna non nascose la sua preoccupazione: «La ferita si sta infettando».

    Le posò la mano sulla fronte.

    Allarmata esclamò: «Sua figlia ha la febbre, bisogna intervenire con le cure adeguate. Suor Angelica… Presto! Prepari subito l’infuso di sambuco e radice di salice, e chiami le altre» urlò rivolgendosi alla consorella più giovane che annuì e non perse tempo.

    Altre accorsero e, con Rinaldo, scaricarono la bambina dal carretto e la trasportarono all’interno del convento.

    La badessa prese da parte l’uomo, per non farsi sentire dalla creatura.

    «Credo di potervi aiutare, però devo essere franca con voi. Dovrete lasciarla qui.»

    L’uomo non batté ciglio, l’aveva condotta fin lì apposta, perché fosse curata.

    «Se volete potete rimanere qui con lei per un po’. La brutta ferita necessita di medicazioni frequenti. Prima di tutto dovremo curare l’infezione, per evitare che degeneri e causi complicazioni più gravi. Una volta guarita occorrerà del tempo per la ginnastica di riabilitazione, che sarà la cosa più complicata per una bambina. Le prometto che faremo del nostro meglio per curare questa piccola creatura.»

    Le parole della suora sollevarono il morale ormai a terra di Rinaldo, che già immaginava Lina con le grucce.

    «Credete che ci siano delle possibilità che la mia bambina guarisca, senza dover tagliare la gamba?»

    La religiosa allargò le braccia.

    «Chi può dirlo, solo il buon Dio lo sa. Noi faremo il possibile.»

    Rinaldo tirò un sospiro di sollievo.

    «Ora pensiamo a curare l’infezione, poi speriamo bene. Intanto voi pregate, pregate perché nostro Signore aiuti la vostra figliola. Siamo nelle sue mani divine!»

    «D’accordo! Pregheremo! Io e mia moglie e tutti i miei figli pregheremo, pregheremo notte e giorno se sarà necessario. Per vedere di nuovo mia figlia camminare farò qualsiasi cosa.»

    A quel punto Rinaldo si sentì in imbarazzo. Ricordava le bestemmie pronunciate e si vergognò di se stesso. Sua moglie aveva ragione, non doveva comportarsi come un miscredente. Sperò nella bontà e nel perdono del buon Dio.

    «Grazie, mi sdebiterò. Per ora accettate questa forma di formaggio, in segno di riconoscenza. Non vi offendete mica vero?»

    L’uomo consegnò un fagotto, che portava infilato in una tasca sulla schiena, tra le mani impacciate della suora. La religiosa abbozzò un sorriso e lasciò intendere che il piccolo dono era ben accetto.

    In seguito Rinaldo si rivolse alla figlia.

    «Dovrai restare qui con queste brave suore per un po’, così ti cureranno e guarirai presto, vedrai. Appena potremo io e la mamma verremo a trovarti per vedere come stai. Ora però devo tornare a casa. Ciao bambina mia, comportati bene, mi raccomando» le diede un bacio sulla fronte e sospirò, mentre si allontanava col cuore in gola, per nascondere le lacrime. Nell’arco di pochi passi lei lo richiamò.

    «Papà! Papà! Aspettate un attimo, voglio abbracciarvi ancora una volta.»

    Una grande lacrima solcava il suo visino tondo dalle gote pallide e incandescenti. Suo padre le si avvicinò e lei lo strinse forte forte tra le braccine mormorandogli con un filo di voce:

    «Mi mancherete, voi e la mamma. Portatele un bacio da parte mia. Vi voglio tanto bene a entrambi.»

    Distolse lo sguardo mentre il padre si allontanava da lei e, si avviava verso l’uscita.

    Poi si voltò di scatto e posò gli occhi su quella mano grande, segnata dal tempo e dalle fatiche, che la salutava. Scoppiò a piangere a dirotto. L’uomo, richiamato dai gemiti della figlia, s’arrestò di colpo, indugiò qualche istante e tornò indietro: «Mi fermerò anch’io fino a quando ti sarà passata la febbre».

    Suor Lucia, che aveva assistito alla scena, aveva confidato in un gesto simile.

    «Ha fatto la scelta più giusta, il Signore gliene renderà merito.»

    Lina ebbe la febbre alta per diversi giorni. Rinaldo e le suore la curarono con costanza, con infusi e unguenti a base di erbe officinali e tante preghiere. Alla fine le orazioni sortirono l’effetto desiderato: una mattina si svegliò sfebbrata e anche la gamba pareva stare molto meglio.

    Il padre, che non l’aveva lasciata sola un attimo, decise che era giunto il momento di tornare a casa. Lina invece rimase ancora al convento per la ginnastica di riabilitazione.

    Alle pazienti sorelle, l’arduo compito di rimetterla in piedi. Trascorsero così due lunghi anni, e le suore riuscirono a farle accettare quella nuova condizione di zoppa, perché così sarebbe rimasta per tutta la vita.

    A Suor Lucia, ben dotata di acuto spirito d’osservazione, non sfuggì la tristezza che velava gli occhi della piccola. Doveva fare qualcosa per risollevarle il morale. Non poteva permettersi un crollo psicologico, non era all’altezza di gestirlo. Doveva inventarsi qualcosa, magari proporle un’attività che la distogliesse dai pensieri cupi. Provò a insegnarle a cucire e ricamare.

    «Se non puoi usare le gambe, userai le braccia» le ricordava spesso la monaca. Nonostante i ripetuti tentativi, anche positivi, perché la bambina mostrava una certa abilità con ago e filo, il suo umore non migliorava.

    «Sei diventata brava a cucire e a ricamare. Ti piace questo lavoro?»

    Le domandava vedendola assente, persa nei suoi pensieri.

    «Sì» rispondeva abbozzando un sorriso affettato, per non deludere chi si era adoperata a insegnarle quel mestiere.

    In realtà cucire, in quel momento particolare non la entusiasmava più di tanto. Pensava sempre alla povera gamba zoppicante, agli amici che giocavano e correvano sereni, alle corse nei campi, ai salti in mezzo ai boschi. Era consapevole che non sarebbe più riuscita ad arrampicarsi sul fico, facendo a gara con le sorelle a chi arrivava prima, e nemmeno sul ciliegio. Inutile girarci attorno: era una storpia e l’avrebbero derisa per tutta la vita.

    Quei pensieri si insinuavano nella sua mente di bambina e rischiavano di rovinarle l’esistenza. Si rintanava nella stanzina dove piangeva di nascosto.

    L’umore della piccola non migliorò, così suor Lucia si giocò l’ultima carta. L’impresa si mostrava tutt’altro che semplice, ma non era da lei sottrarsi alle difficoltà.

    «Da oggi proveremo a usare anche la mente» le disse un giorno la badessa, che non sapeva più a che santo votarsi per strapparle un sorriso.

    Lina rimase di stucco: «Cosa vuol dire suor Lucia?»

    «Ti piacerebbe imparare a leggere e scrivere?»

    Sul volto della bimba si disegnò un grande sorriso, una nuova luce s’accese negli occhi.

    «State dicendo sul serio? Mi insegnerete a leggere e scrivere?»

    «Ci proviamo piccola mia, però dipenderà da te!»

    «Che bello! Che bello!» trillò la ragazzina euforica, che prese a saltellare su una gamba sola. Poi accorse in braccio alla suora e la strinse in un sincero abbraccio.

    I risultati non tardarono ad arrivare e furono sorprendenti, non solo apprendeva con interesse, ma scomparve la tristezza dagli occhi e si ripresentò la serenità, tipica di ogni bambina della sua età. Motivata al pensiero della bella figura che avrebbe fatto con amici e familiari.

    Anziché deriderla o vergognarsi di una figlia zoppa, sarebbero stati orgogliosi di lei, poteva tornare a sorridere.

    Suor Lucia captò la trasformazione del suo umore. Era riuscita nel suo intento.

    «Che bello vederti sorridere – le disse un giorno, durante una lezione – Abbiamo trovato qualcosa che ti interessa davvero. Brava, anche questo è tutto giusto.»

    La bambina, gratificata, aveva appena terminato la lettura dell’alfabeto scritto in modo corretto e ordinato, con bella grafia sul quaderno.

    Nel giro di qualche mese imparò a leggere e scrivere come si deve.

    Lina era consapevole della fortuna che aveva avuto: i familiari non avrebbero mai potuto mandarla a scuola.

    Per studiare ci volevano molti soldi e loro non ne avevano, erano solo dei contadini, grandi di cuore e di spirito ma tanto, tanto poveri.

    Si impegnò per imparare al meglio che poteva, così avrebbe fatto una bella sorpresa ai genitori.

    Quando giunse il tempo di tornare a casa, suor Lucia le regalò della carta da lettera con un pennino, un calamaio pieno

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