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Olimpiadi di Toronto 2112
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Olimpiadi di Toronto 2112

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Fantascienza - racconti (253 pagine) - Come sarà lo sport nel futuro? Quali sfide oggi impensabili attenderanno gli atleti olimpici del prossimo secolo? Undici tra i migliori scrittori italiani di fantascienza offrono le loro risposte.


Una sfida calcistica tra le rappresentative della Terra e di Marte. La drammatica scalata in bici del Mons Olympus, la cima più alta del Sistema Solare.

Francesco Totti protagonista di un videogioco fin troppo realistico. Juventus contro Real Madrid e Milan contro Borussia Dortmund in contesti molto diversi da quello odierno.

Olimpiadi di Toronto 2112 contiene questi e altri appassionanti momenti di sport (individuali e di squadra) ambientati sulla Terra del futuro o, per citare il maestro Battiato, su mondi lontanissimi, come quello sabbioso di Mondo9 in cui saremo spettatori di un’epica gara tra navi.

Undici autrici e autori indossano pantaloncini e scarpette per dare vita al libro più “sudato” della storia della fantascienza.


Ingegnere chimico napoletano classe 1972 con la passione per lo sport, il rock e la fantascienza, Andrea Pelliccia ha pubblicato Up & Under – Racconti di rugby (2011), Quando c’era Paolo Valenti (2013), editi da Absolutely Free, e Tragedie sorelle (2021), edito da Cento Autori. Ha curato per Delos Digital La vittoria impossibile (2018), la prima antologia di racconti di ucronia sportiva pubblicata in Italia, e ha curato per Cento Autori Federer Nadal Djokovic – I dominatori del tennis (2020).

È direttore della collana di saggistica sportiva Raccontando lo sport di Cento Autori e della collana di narrativa sportiva Short Sport di Delos Digital. Collabora con il portale Fantascienza.com e con Delos Science Fiction, la più antica rivista online italiana.

LanguageItaliano
PublisherDelos Digital
Release dateJul 13, 2021
ISBN9788825416909
Olimpiadi di Toronto 2112

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    Olimpiadi di Toronto 2112 - Andrea Pelliccia

    Sport e fantascienza, distopia e realtà

    Andrea Pelliccia

    Nel 2020 le Olimpiadi di Tokyo, previste dal 24 luglio al 9 agosto, non si svolsero a causa di una pandemia provocata dal virus SARS-CoV-2.

    Sembra il brano di un libro di fantascienza distopica. E in effetti questo che vi accingete a leggere è un libro di fantascienza. Ma, lo sappiamo tutti, la realtà ha superato la fantasia di molti scrittori e scrittrici dediti alla visione apocalittica del futuro.

    Questo implica che molta letteratura di fantascienza (soprattutto distopica) letta o riletta oggi, alla luce delle recenti vicende del genere umano, possa sembrarci meno improbabile e distante da noi di quanto lo fosse in passato. Il discorso vale anche per quest’antologia di fantascienza, il cui filo conduttore è lo sport, per quei racconti (e ve ne sono) in cui la narrazione poggia su una distopia.

    Sport e fantascienza, dunque. Un connubio non certo inedito e che vale la pena analizzare per illustrare le radici alla base di quest’antologia.

    Gli appassionati italiani di fantascienza (specie quelli di lungo corso) forse ricordano un'antologia apparsa nel nostro paese nel 1985. Urania numero 993, il titolo Le Olimpiadi della Follia. Il volume, curato dalla premiata ditta Asimov, Greenberg e Waugh, è la traduzione di The Science Fictional Olympics, pubblicato da Signet negli Stati Uniti e in Canada a giugno del 1984, poche settimane prima dell'inizio delle Olimpiadi di Los Angeles (che, a differenza di quelle di Tokyo 2020, si svolsero regolarmente). Nel saggio introduttivo Asimov pone l'accento su una differenza sostanziale tra le Olimpiadi dell'antichità e quelle moderne. Le prime avevano un valore simbolico talmente elevato da indurre, durante il loro svolgimento, la fine di tutte le guerre. Le seconde hanno un valore simbolico talmente elevato da divenire lo specchio dei conflitti e delle tensioni tra le nazioni: si pensi al boicottaggio ad opera degli Stati Uniti e di altre sessantaquattro nazioni delle Olimpiadi di Mosca del 1980 (la causa scatenante era stata l'invasione sovietica dell'Afghanistan pochi mesi prima dell'inizio dei Giochi) e il boicottaggio, quattro anni dopo, delle Olimpiadi di Los Angeles da parte dei paesi del blocco sovietico (con l’eccezione della Romania). Venendo ai nove racconti notiamo che questi sono incentrati sulla competizione più che sullo sport. Competizione che, in certi casi, prevede anche la morte come destino degli atleti coinvolti. Pertanto, anche se Asimov & co. si sono impegnati nel mettere assieme un'antologia di racconti che coniughino fantascienza e sport, il risultato può dirsi raggiunto solo in alcuni casi. Infatti, per quanto fervida possa essere la nostra immaginazione, è difficile pensare a gare olimpiche in cui si fronteggiano, fino a restare annientati, eserciti di creature simili a insetti (I guerrieri di Kokod di Jack Vance); oppure gare in cui si combatte contro la morte per aggiudicarsi un pezzo di terreno in un pianeta Terra sovraffollato e degenerato: è questa la trama di Corsa a ostacoli di un Robert Sheckley meno in forma (termine quanto mai indicato dato l'argomento) del solito.

    Restando nel mondo Urania, abbiamo altri esempi di commistione tra sport e fantascienza in forma di romanzo. Boston 2010: XXI Supercoppa di Gary K. Wolf, Urania 712 (Killerbowl, 1975) è incentrato sul football americano, diventato nel 2010 uno sport gladiatorio, con atleti che, armati come se andassero in guerra, si scontrano non in uno stadio ma per strada. Genoa-Texcoco: zero a zero di Mack Reynolds, Urania 484 (The Rival Rigelians, 1967), di sportivo ha in realtà solo il titolo italiano (oltre alla bella copertina di Karel Thole), poiché racconta la rivalità tra due pianeti: Genoa, con un sistema sociale paragonabile a quello dell’Italia del feudalesimo, e Texcoco, assimilabile alla civiltà azteca precolombiana.

    Tornando ad Asimov, il racconto La professione (The Profession, 1957) parla esplicitamente di Olimpiadi. Queste non si basano su gare sportive, ma su prove in cui occorre dimostrare l'abilità nella propria specializzazione lavorativa (una delle prove più appassionanti è quella di metallurgia). La posta in palio per il vincitore di ciascuna specialità è l'ambito trasferimento in un pianeta lontano dalla sovraffollata e malsana Terra. Il fatto che gare del genere possano essere classificate come Olimpiadi è del tutto legittimo: lo stesso Asimov nel saggio introduttivo al già citato Le Olimpiadi della Follia ci ricorda quanto segue.

    Noi ci immaginiamo i Giochi Olimpici come gare soprattutto atletiche, ma gli antichi Greci non si limitavano affatto alle gare di muscoli. Essi ritenevano che l’intero corpo, testa e muscoli, fosse importante, e fra le competizioni c’erano anche rappresentazioni di tragedie e di commedie, e la lettura di opere letterarie.

    Negli stessi anni veniva pubblicato il celebre Le sirene di Titano (The Sirens of Titan, 1958), secondo romanzo di Kurt Vonnegut, in cui viene descritto uno sport inventato dall’autore: la Pallamazza Tedesca. Winston Niles Rumfoord è un miliardario eccentrico amante delle esplorazioni spaziali. Nel corso di uno dei suoi viaggi si imbatte a poca distanza da Marte in un infundibulo cronosinclastico, luogo in cui le nozioni di tempo e spazio non hanno più senso e dove Winston verrà a conoscenza del senso della vita sulla Terra. Ecco il passaggio in cui viene raccontato lo sport.

    A scuola i bambini studiavano pochissimo, perché la società di Marte non sapeva che farsene di loro. Passavano così quasi tutto il tempo a giocare a pallamazza tedesca.

    La pallamazza tedesca si gioca con una palla sgonfia grande come un grosso melone. La palla non è più elastica di un cappello da dieci galloni pieno di acqua piovana. Il gioco somiglia un po' al baseball, con un battitore che manda la palla nel campo dei giocatori avversari e fa di corsa il giro delle basi; e con gli esterni che cercano di prendere la palla e frustrare gli sforzi del corridore. Nella pallamazza tedesca, però, ci sono solo tre basi: la prima, la seconda e la casa base. E il battitore non ha nessuno che gli lanci la palla. Si piazza la palla su un pugno e la colpisce con l'altro. Se un esterno riesce a colpire il corridore con la mazza quando questi è tra le basi, il corridore viene eliminato e deve lasciare subito il campo.

    Il responsabile della grande importanza che la pallamazza tedesca aveva assunto su Marte era, naturalmente, Winston Niles Rumfoord, che su Marte era responsabile di tutto.

    Riferendoci a tempi più recenti, ricordiamo The Games, romanzo d'esordio (2012) di Ted Kosmatka, finalista del Premio Locus 2013 come migliore opera prima. Le Olimpiadi dei Gladiatori sono uno degli eventi più seguiti nella Terra del futuro. I combattimenti hanno un'unica regola: i contendenti non devono possedere DNA umano. Il genetista Silas Williams, responsabile della progettazione della finora imbattuta squadra degli Stati Uniti e preoccupato per i miglioramenti ottenuti dalle squadre delle altre nazioni, ricorre a un nuovo super-computer per progettare il codice genetico di un gladiatore invincibile. Il risultato è una macchina fin troppo evoluta che seminerà panico e terrore.

    Ancora fantascienza e Olimpiadi nel racconto della scrittrice sudafricana Lauren Beukes, Slipping, contenuto nell'edizione 2014 di Twelve Tomorrows, interessante antologia della MIT Technology Review curata da Bruce Sterling. Le Olimpiadi immaginate dalla Beukes sono riservate ad atleti resi più abili grazie alla bioingegneria: alla protagonista sono stati rimossi alcuni organi interni per ridurne il peso e sono state applicate due lame per aumentarne la velocità. Viene subito da pensare a Oscar Pistorius, peraltro connazionale della Beukes.

    Lo sport e la fantascienza si sono incontrati non solo sulla carta stampata ma anche sul grande schermo. Rollerball, tanto per cominciare. È un film del 1975 diretto da Norman Jewison (di cui è stato fatto un remake nel 2002): in un futuro in cui non ci sono più guerre e crimini, l’aggressività è tenuta a bada con giochi e sport, il più seguito dei quali è il Rollerball. Le squadre sono schierate lungo una pista ad anello, gli atleti si muovono con pattini e motociclette; lo scopo del gioco è centrare con una palla di metallo una buca magnetica.

    Nel 1990 il compianto Rutger Hauer è il protagonista di Giochi di morte (Blood of Heroes), film in cui le squadre si fronteggiano in uno sport violento e sanguinario, con contatti fisici che rimandano all'hockey e al rugby.

    Un altro caso, meno noto, è Future Sport, film TV prodotto dal canale americano ABC nel 1998 e apparso in Italia in DVD. Nel 2025 lo sport più in voga è il Future Sport: molto simile (anche per violenza) all'hockey, con la differenza che gli atleti si spostano sul campo di gioco concavo su hoverboard (gli skateboard a levitazione già apparsi in Ritorno al futuro) e rollerblade.

    L’esempio più recente è Cosmoball, kolossal russo del 2020 in uscita negli Stati Uniti e in Europa nel 2021, in cui una squadra di quattro umani dotati di superpoteri sfida in uno sport spettacolare una squadra di alieni che minacciano la Terra a bordo di un’astronave enorme che incombe sul nostro pianeta.

    E, a proposito di sport inventati e portati sul grande schermo, non va dimenticato il Quidditch, lo sport praticato nel mondo magico di Hogwarts e presentato in Harry Potter e la pietra filosofale, il primo film della serie (2001). Una partita è disputata da due squadre di sette giocatori, che si muovono a bordo di scope volanti. Si usano tre tipi di palle: la pluffa, che viene contesa dalle due squadre e deve essere lanciata nei tre cerchi posti sui pali alle estremità del campo; i bolidi, sfere magiche di metallo che hanno il compito di disarcionare i giocatori; il boccino d'oro, sferetta che deve essere catturata da due cercatori. La cattura del boccino (che può durare anche più giorni) rappresenta la fine della partita.

    Dal grande al piccolo schermo. In Battlestar Galactica le astronavi sono dotate di un'area per il gioco della Triade, un misto tra pallacanestro e rugby che si disputa su un campo con quattro lati. Lo scopo delle due squadre che si fronteggiano è lanciare una sfera d'argento in una delle buche poste su ciascun lato del muro. Nel remake del 2004 il gioco è ancora presente, ma con alcune varianti. Ha assunto il nome di Piramide e si gioca su un campo con tre lati; può essere giocato uno contro uno oppure a squadre. Si segnano punti lanciando la palla nella rete posta al vertice di uno dei tre lati.

    Anche i creatori di Star Trek si sono divertiti a immaginare sport a bordo delle astronavi. L'Anbo-jyutsu, presentato in The Next Generation, è un'arte marziale. I combattimenti si svolgono in un'arena circolare, i contendenti utilizzano come arma di attacco e difesa una mazza che porta a una delle estremità un sensore di prossimità, indispensabile per rilevare la posizione dell'avversario poiché viene indossata una maschera che impedisce la vista.

    Lungo excursus tra sport e fantascienza per dimostrare che il libro che avete tra le mani non ha la pretesa di costituire una novità. Però, a suo modo, è un unicum. Da quanto mi risulta, questa è la prima antologia composta da autrici e autori italiani in cui lo sport incontra la fantascienza in tutte le sfaccettature: gare in un futuro distopico, su pianeti vicini e lontani, con sport reali e sport inventati. E poi, a parte Le Olimpiadi della Follia, non risultano esservi altre antologie di fantascienza incentrate sullo sport. Insomma, possiamo vantare il pregio dell’originalità. Confidiamo anche nella qualità, avendo coinvolto in questo progetto scrittrici e scrittori noti (in alcuni casi vincitori di premi) e meno noti, ma agguerriti e talentuosi.

    Un’ultima considerazione sul titolo scelto per questo libro. Qualcuno avrà già colto il riferimento alla musica rock. A chi è a digiuno della materia diciamo che Olimpiadi di Toronto 2112 è un omaggio a uno dei gruppi che meglio ha saputo coniugare rock e fantascienza: i Rush, canadesi di Toronto. E 2112 è una delle loro opere più riuscite: una suite che occupa per intero la prima facciata (si diceva così quando c’erano i long-playing) del disco omonimo.

    Si parte. Buona lettura!

    Le regole del gioco

    Andrea Ferrando

    Primo Inning

    Cerco di non respirare e di tenere la testa immobile con le mani sulle ginocchia.

    Il vento proveniente da nord ha spinto qui l’olezzo dell’aria di città, costringendo ognuno di noi a sopportare il peso che l’aria aperta fa gravare sui nostri polmoni. Attendo che i getti ad altezza uomo soffino fuori potenti la loro miscela depurata per permettere ai giocatori di dare il meglio anche esposti all’atmosfera terrestre.

    Nello stadio, pieno all’inverosimile, il pubblico rumoreggia eccitato come un neonato alla vista dei capezzoli. I contatti on line ci riempiono la testa con il loro riverbero. Sento sulla pelle quella scossa che solo gli incontri determinanti ti fanno sentire.

    Mi calco per bene il berretto e scatto alla testa della mia squadra. Alla nostra destra, gli avversari corrono nella medesima formazione, come un corpo di ballo la sera della prima. Mi tocco la visiera in direzione del loro capitano che ricambia il saluto senza alcun sorriso. Nessun avversario è cordiale con me. Ma non me ne curo, sono troppo occupato a mantenere il respiro regolare nell’aria contaminata. Manca qualche sponsor per avere gli stessi impianti di depurazione del campionato, ma il chip mi dice che il livello è ancora a quantità accettabili.

    Arrivati al monte di lancio, ci disponiamo in unica fila rivolta verso il pubblico della tribuna d’onore, chiuso da una vetrata ermetica proprio sopra la casa base.

    Durante l’inno della nazionale avversaria, scruto il settore importante del pubblico.

    Riconosco il Presidente, che non si è mai perso nessuna partita della manifestazione. Ci fa piacere sia venuto a sostenerci, anche se il suo viso non è felice come dovrebbe essere per i risultati che abbiamo ottenuto. Forse la pressione che ha sulle spalle è eccessiva, non è abituato a un palcoscenico così grande. Come i miei compagni, o il nostro manager.

    Il nostro inno lo ascoltiamo con gli occhi serrati, come sempre. Mi trapassa come una lama di ghiaccio il cuore. Una serie di brividi si dipana lungo la schiena, lasciandomi ogni volta senza fiato e colmo di energia.

    Ritorniamo come razzi verso il dug-out per le ultime indicazioni.

    Il coach Bono ci riunisce e, come al solito, lascia a me il compito di parlare.

    – Van, ti abbiamo sostenuto al nostro meglio fino a questo punto. Siamo qui come una squadra ma sappiamo che senza di te non saremmo arrivati da nessuna parte.

    Sono il più giovane, ma senza dubbio sono quello più abituato a contesti del genere.

    – Ragazzi, chi pensava che saremmo stati qui qualche settimana fa?

    – Nessuno! – fa una voce dal mucchio.

    – Veramente, quando abbiamo visto il tuo nome tra i nostri, un po’ ci credevamo – fa quell’impertinente di Precoda.

    – Grazie a tutti. Mettiamocela tutta per l’ultima volta e, soprattutto, divertiamoci!

    Quattro anni prima

    Durante la pausa alla fine dell’inning, vado a presentarmi al padre di Santieri che ride con la mamma di Goncalves.

    – Sono Gualtiero, il padre di Van Pardini, piacere.

    – Piacere, ah il grande Van! Suo figlio ha un bel talento, me lo lasci dire!

    – Gli piace molto il gioco…

    – Anche al mio. D’altronde, è il sogno di tutti giocare nella lega principale…

    – Veramente a Van piace proprio giocare a baseball.

    – Ma i soldi che si possono guadagnare non sono da trascurare.

    Ho già sentito troppe volte i loro discorsi. Spazio con lo sguardo per il resto della tribunetta, vedo un gruppetto con i panini in mano, sono i genitori degli avversari, i pochi che sono venuti a sostenere sul campo i loro ragazzi. La maggior parte di loro, e anche dei nostri, preferisce seguire da remoto le riprese che i droni diffondono in rete. Si connettono e danno un’occhiata distratta sui loro minuscoli schermi, pronti a mandare messaggi in diretta al manager o diffide alla federazione se pensano che il loro piccolo sia stato in qualche modo danneggiato. Anche se si rendono conto di non saper neanche di cosa stanno parlando, come mi disse una volta Ada, la zia di Cortelezzi, lo fanno solo per farli rigare dritto.

    Ma l’abbonamento allo stream costa troppo per me e collegarmi a qualche flusso pirata non mi permetterebbe di capire in pieno il gioco. E poi, offrendomi di fare l’autista per la squadra mi guadagno anche qualche spicciolo in più. Non fanno mai male.

    Finalmente li vedo: stanno in disparte, come se fosse possibile non notarli. Anche loro hanno preferito venire di persona, anche se hanno tutti le trasmissioni in diretta disponibili alla migliore risoluzione possibile. Sono i due osservatori della squadra più importante del paese, non staccano gli occhi dal campo e parlottano tra loro, come se fossero da soli. Se si sono mossi per venire fin qui, vuol dire che c’è qualcosa di importante da verificare; è gente che si muove solo se fiutano qualche cosa di grosso.

    Mi si stringe il cuore. Van ha appena sparato un buon fuori campo, ma ha anche fatto vedere che si distrae come se preferisse pensare ai fatti propri piuttosto che concentrarsi sulla partita. E questi sono particolari che non sfuggono a gente del genere.

    È il nostro turno in difesa. La partita fila via tranquilla, Van sa come si eliminano i battitori, un paio di curve, qualche ball per rifiatare, una sassata improvvisa e siamo a un out. Stesso copione con il tipo dopo, un ragazzetto minuto con un’area di strike grande come un francobollo. Ma a Van non manca per certo la precisione. Qualche volta difetta in killer instinct, ma in partite come questa è in grado di dare il meglio di sé.

    Mi avvicino. So che non vogliono essere importunati. D’altronde stanno lavorando. Ma non mi è mai dispiaciuto quando qualcuno viene a parlare al conducente. Due chiacchiere non hanno mai ucciso nessuno, tanto più ora che tutto il sistema di guida è automatico. E i filmati delle partite si possono vedere da ogni angolazione con calma, in uno di quelli uffici con le scrivanie di mogano enormi e le segretarie con le gonne microscopiche.

    – Bella partita, vero?

    Fanno finta di non sentirmi, come se questo potesse fermarmi.

    – I blu hanno un po’ troppi fuori quota, secondo me.

    Quello con due grossi baffi bianchi alza di un millimetro l’angolo sinistro della bocca. È quello il pertugio in cui mi insinuo.

    – In campionati di questa leva, la differenza di età si fa sentire.

    Baffone mi guarda come se mi fossi materializzato lì con una sorta di teletrasporto.

    – Questa regola è necessaria per il gioco, lo so, ma certe squadre se ne approfittano proprio. I bianchi sono troppo sfavoriti.

    Baffone si decide a considerarmi.

    – Non è questione di differenza di età, guardi. Già a dodici anni si vede chi ha la stoffa. Basta saperlo distinguere.

    – Ci mancherebbe, non mi permetterei mai di dubitare dell'esperienza. Ma, guardate, ci saranno almeno venti centimetri e venti chili di differenza tra i blu e i bianchi!

    A questo punto anche il piccoletto, quello che non ha smesso per un attimo di prendere appunti sul suo pad, decide di averne abbastanza.

    – Mi scusi, ci pagano per questo e sappiamo valutare tutte le variabili in gioco.

    – Non ne dubito, ma questi sono grossi il doppio!

    Il piccoletto tira su gli occhi dal taccuino elettronico.

    – Ad esempio, il lanciatore dei blu! Lo ha guardato? Non mi interessa quanti anni ha, magari ne ha un paio in più del limite. Ma ha visto che braccio che ha? E quello ce l’ha perché ha talento! E anche la testa! Tutti quei piccoletti che ha eliminato li avrebbe fatti fuori anche se avessero avuto il doppio dei suoi anni. Quello è ciò che cerchiamo noi. Non stupide discussioni su fuori quota o cose del genere!

    – Ho capito, ho capito. Era solo per fare due chiacchiere…

    Alzo le mani in segno di resa e torno al mio posto defilato, ma dentro di me il cuore batte a mille. Il lanciatore di cui parlavano con così grande trasporto è il mio Van.

    La sera a cena prendiamo anche il dolce. Uno in due.

    Secondo inning

    Non abbiamo iniziato bene. Questi qui sono un po’ rognosi. Il pubblico è con noi, come in tutta la manifestazione. I compagni mi dicono che è merito mio, che sono famoso. Sul 2-5, parte bassa del secondo inning, tocca a me, il line-up non può mentire.

    Il tabellone mostra il mio ologramma con sotto il mio numero, il 42: Van Pardini alla battuta.

    Prendo la sincrobat e la sincronizzo sulla mia frequenza. Scarico tutte le caratteristiche e le analizzo mentre mi avvio verso la zona di battuta. È un attrezzo facile ma che non dà grande spinta. Poco male, di quello mi occuperò io.

    Basi piene.

    Sugli spalti la gente è tanta, è il record per un incontro in questa manifestazione.

    Fisso un punto dietro al mio avversario. Lo faccio sempre, anche se il coach dice di tenere gli occhi sulla palla. Ha ragione, ma intanto c’è tempo: è un lanciatore che si prende i suoi secondi per pensare. Ne ho osservato i filmati mentre ero nel dugout.

    La prima palla è un ball. Come al solito. Nessuno vuole farmi battere, soprattutto con le basi piene.

    Con la coda dell’occhio cerco di capire che tipo di palla ha usato. Forse una fuzzball, ma non posso esserne sicuro.

    – Bambino d’oro, come ci si sente a giocare con le persone normali?

    Il catcher cerca di innervosirmi, come se non ci fossi abituato.

    – Non lo so ancora, homeless, il tuo amico sul monte non è capace di lanciare una palla nella mia area.

    – Noi poveracci dobbiamo arrangiarci, non siamo mica come voi ricconi!

    – Almeno state attenti a non essere sanzionati per condotta anti sportiva.

    42 mesi prima

    Sei mesi, un campionato e diverse coppie di osservatori. Uno alto con uno basso, uno vecchio con un giovane, un buono con un acido, un ubriacone con un astemio, un gay con una donna. Tutti a vedere Van. Tutti a esaminare mio figlio.

    Se c’è una cosa che non gli è mai mancata è la freddezza. Nonostante ogni volta il traguardo sembrasse essere a un passo, c’era sempre stato bisogno di un altro miglio da percorrere.

    Fino a oggi.

    La sede della squadra è un palazzo a vetri a due passi dallo stadio. Quello stadio dove nei miei sogni io, ormai vecchio ma pacificato, vado a godermi la folla che idolatra mio figlio.

    – Capisce, l’investimento che la società ha deciso di fare non è piccolo.

    – Ci mancherebbe, so benissimo gli sforzi che voi state facendo. E penso che mio figlio li valga tutti. D’altronde, mi pare che tutti i vostri osservatori siano concordi.

    – Non sarebbe qui se così non fosse.

    – E allora, non capisco questa richiesta…

    Mi agito sulla poltroncina profumata, quell’ufficio lussuoso mi mette in una specie di imbarazzo, come se mi volesse comunicare che non è il posto adatto a me.

    – Lo facciamo soprattutto per la salute di suo figlio. Poi ci sono dei vantaggi per noi, non lo nascondo.

    – Me lo spieghi un’altra volta, perché io vedo mio figlio e sta benissimo. Non ha alcun bisogno di un impianto.

    – Solo a livello preventivo. Lo facciamo con tutti. Un semplice chip microscopico. Servirà a suo figlio per monitorarsi. Una semplice app e saprà in ogni momento i

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