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Il terzo allegato
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Il terzo allegato

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About this ebook

Un’epidemia che diventa pandemia. Una mente visionaria e un freddo burattinaio sono le uniche risorse di uno Stato che riesce nell’immane compito di assicurare la continuità della specie. Superate le ultime remore fu data esecuzione al Terzo Allegato, la più sporca manovra che un governo sia mai stato in grado di concepire a danno dei propri cittadini.
In un pianeta ormai spopolato, l’Italia evita l’estinzione e a realizza lo sputtanamento istituzionale di una repubblica democratica.
LanguageItaliano
Publisherrazione ILZ
Release dateJul 7, 2021
ISBN9791220823142
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    Il terzo allegato - Gioachino Ventura

    Gioachino Ventura

    Il terzo allegato

    IL TERZO ALLEGATO

    Proprietà letteraria riservata Copyright ©2021 razione ILZ

    Tutti i diritti sono riservati a norma di legge e delle convenzioni internazionali.

    Nessuna parte di questo ebook può essere riprodotta e diffusa con sistemi elettronici, meccanici o di altro tipo senza l’autorizzazione scritta del collettivo razione ILZ.

    Autore : Gioachino Ventura

    Copertina : Alessandro De Felice

    Prefazione : Nicola Furia

    Impaginazione digitale e cartacea : Alessandro De Felice

    Questo libro è un’opera di fantasia. Ogni riferimento a fatti e persone realmente esistenti è puramente casuale.

    Sito web : www.razioneilz.com/

    Pagina Facebook : https://www.facebook.com/collettivo.ilz/

    UUID: a83eea72-3c13-44fb-86f4-4f65bd20cd02

    Questo libro è stato realizzato con StreetLib Write

    https://writeapp.io

    Agli amici del bar,

    che sanno già tutto

    e ancora non lo sanno.

    Sappi, dunque, che gli uomini sono come li vogliono i tempi

    Shakespeare, Re Lear

    Sono passati otto anni e una vera pandemia dalla prima stesura di questo libro, pandemia che alla data della pubblicazione è ancora in atto. Era il 2013 e con ironia mi apprestavo a vaticinare una grottesca vicenda che io stesso stentavo a giustificare, sebbene assistito da ciò che in un’ucronia distopica rappresenta una vera e propria licenza di uccidere: la fantasia. A rileggere adesso le vicende descritte in questo libro, ne esco con le ossa rotte e l’orgoglio di scrittore distopico ai minimi storici. Per una volta di più la realtà ha superato la fantasia, riducendo ciò che credevo essere un capolavoro visionario al rango di semplice cronaca, ingenerando il sospetto che questo libro sia stato scritto dopo la pandemia. Eppure otto anni fa c’erano già tutte le premesse che mi hanno spinto a scegliere un’epidemia come stress test per una Repubblica decotta e una classe politica tragicamente inadeguata. Una repubblica in cui i piani pandemici erano scaduti nemmeno fossero mozzarelle e i politici rimpiazzati da supplenti di rango accademico. E se è vero che gli uomini sono come li vogliono i tempi, in questi tempi deliranti c’è poco da stare allegri.

    Buona lettura a chi avrà il fegato di andare oltre queste righe.

    G. Ventura

    Presentazione

    Questa è una storia di zombie, ma senza zombie.

    L’unico morto vivente che si trascina goffo e claudicante è l’apparato burocratico di uno Stato già defunto ancor prima della pandemia.

    Nella cruenta resurrezione, uomini grigi si compatteranno in orde ebeti, avanzando, confusi e barcollanti, tra i dedali tortuosi dei pubblici uffici, armati solo di fascicoli impolverati, appendici, cavilli e codicilli con i quali tentano di erigere una barriera semantica alla distruzione planetaria.

    Anonimi impiegati statali, barricati nei loro archivi muffiti, osserveranno impotenti ed indifferenti la mattanza del genere umano, insensibili a grida e ringhi provenienti da strade insanguinate. E staranno lì, immobili e increduli, sfogliando disperatamente i testi sacri della pubblica amministrazione, al fine di razionalizzare la follia della fine del mondo, dare un senso, una definizione, una soluzione farraginosa seppur solo formalistica all’incomprensibile.

    E l’apocalisse incomberà, potente e catartica, su siffatti esseri amorfi, incollati alle poltrone, protetti dalle scrivanie e defilati da montagne di carte. Uomini freddi, imperturbabili, privi di emozioni, incapaci di empatia. Burattini mediocri messi lì da burattinai affaristi ed imbroglioni al solo scopo di agevolare le loro manovre truffaldine. Funzionari blasonati ed inamovibili geneticamente indifferenti ai disagi dei cittadini ma abilissimi nel rendere complicate semplici problematiche.

    Dovranno essere proprio costoro a fronteggiare la minaccia mortale ed ergersi a protettori del popolo. Un popolo di navigatori, artisti, poeti e pensatori. Un gregge anarchico di persone avulse alle responsabilità, desiderose di essere comandate ma nel contempo libere di criticare gli ordini, di interpretarli a proprio piacimento e di aggirali furbescamente.

    E siffatte autorità per nulla autorevoli, agiranno nell’unico modo che conoscono, perdendosi, così, in contorti labirinti fatti di commi, sotto-commi e allegati. Da variegate angolature partoriranno fantasiose congetture spazianti all’infinito in deduzioni e contro deduzioni, senza alla fine approdare ad alcuna decisione.

    Questa è una storia di zombie, ma senza zombie.

    Perché non serve alcuna apocalisse per scorgere quegli angoscianti occhi bianchi sul pianeta Terra…

    Nicola Furia

    Introduzione

    Ammetto che il tema ispiratore di questa prova d’autore apocalittico si è palesato in corso d’opera a mia insaputa. Invocare l’assenza di premeditazione ed escludere che l’evento possa in qualche modo definirsi preterintenzionale, rende piena confessione. Non è andato oltre le intenzioni, non era proprio nelle intenzioni. Finalmente ho scoperto sulla mia pelle l’essenza di quella formula dal suono così accattivante: l’eterogenesi dei fini.

    Mi ci sono immerso con entusiasmo, desideroso di dare un contributo a questo genere di nicchia. Le pagine scorrevano a meraviglia e sulle ali dell’entusiasmo sono giunto alla drammatica resa dei conti, quando chi scrive si fa lettore e giudice di se stesso.

    Col mento all’insù per inquadrare negli occhiali da presbite il monitor, indugiavo sulle schermate con apprensione che via via degradava in ansia conclamata: la storia avventurosa e un po’ (tanto) splatter che mi ero ripromesso di raccontare, sembrava essermi sfuggita di mano. Provai a stampare, nella speranza che il contatto fisico con la carta e la mutata prospettiva di lettura ad occhi bassi potessero restituirmi il controllo su quanto scritto. Peggio.

    Ecco l’apocalisse, nel vero senso della parola, quello biblico, dove apocalisse sta per rivelazione. Nonostante le contromisure adottate, la lettura del testo restituiva un lavoro privo di quelle immagini insostenibili che tanto eccitano gli appassionati. Niente colpi di scena e agguati nel buio, niente dettagli truculenti. In fondo sono un commercialista mancato, non un medico patologo. E stavo mancando clamorosamente il contatto coi lettori. Inconsciamente, a causa forse di sempre più remoti ricordi universitari, mi sono ritrovato a descrivere l’apocalisse da un punto di vista, come dire, burocratico. A chi potrebbe mai interessare questo approccio così distante dall’ortodossia apocalittica? Clamorosamente fuori tema come nemmeno alle medie…

    Eppure, a pensarci bene, cos’è l’apocalisse nell’accezione comune del termine, e cioè inteso come catastrofe, se non una situazione di emergenza il cui governo è disciplinato a norma di legge? Ecco, allora, che l’inconsapevole penna ha evocato qualcosa di più tangibile della realtà virtuale di un’apocalisse prossima ventura: la fragilità della Democrazia. E non solo. Ha reso presentabile l’opera grazie all’alone di serietà che promana da quel termine così politicamente corretto. Insomma, se qualcuno storce il naso dovrebbe ricredersi. L’apocalisse accade tutti i giorni, basta leggere un giornale senza chiedersi per chi suona la campana. A onor del vero non è sufficiente leggere, bisognerebbe anche capire ciò che si legge ma lasciamo stare, non è più tempo di miracoli. In troppi ormai quella campana non la sentono più, coperta da una sirena che ha fatto credere loro nell’immortalità.

    E allora, con un pizzico di sano opportunismo ho corretto il tiro. Per colmare le innumerevoli lacune su argomenti sfiorati alla lontana diversi lustri or sono, ho compiuto ardite incursioni in una giungla di regolamenti e formule semantiche, lacci e lacciuoli, leggi, usi e consuetudini precisi nella loro definizione e al contempo fuorvianti se affrontati senza le dovute cautele. E mentre in maniera improvvida mi addentravo nei meandri dell’ordinamento dello Stato e dei suoi organi, funzioni e attribuzioni, allo stesso tempo riscoprivo il fascino della fine architettura normativa di tutti quei pesi e contrappesi, distribuiti e centellinati con cura maniacale dai Padri costituenti. Come effetto collaterale venivo travolto dall’attualità dell’antipolitica, la panacea invocata nelle piazze, nei bar, nei talk show, che sedimenta meschina e ruffiana come melma sul fondo di uno stagno. Il cavallo di battaglia di taluni avventizi della politica. Costoro mirano a coinvolgere tutti insieme appassionatamente nella palude che naturalmente richiama il generico termine politica. Quella politica da bar sport, dove gli avventizi si fanno avventori per mietere facili consensi prima che, a furia di rimestare, lo stagno ritorni palude.

    Nel leggere le mie pagine quasi non le riconoscevo. Ma quale apocalisse, déjà vu piuttosto! Leggevo di quanto sia facile mandare tutto in malora, di come l’emergenza strumentalizzata ad arte possa spingere verso l’abisso. Una legge, un provvedimento, un refuso addirittura e tutto cambia. Un’altra legge ancora e ti spingono un po’ più in là, verso una serie di punti di non ritorno fittizi il cui limite, però, tende davvero al fatidico non ritorno. È già successo. Succede e succederà ancora. E non deve essere per forza qualcosa di apocalittico.

    Per non mandare sprecato tanto impegno, con eroico spirito di sacrificio affido al lettore paziente e comprensivo l’insegnamento tratto da questo incidente di percorso. Perché non è vero che si scrive per se stessi. Se si racconta una storia è perché qualcosa la si vuol dire, e senza nemmeno troppa umiltà. E io la dico.

    Tenere gli occhi aperti, bisogna. Perché il primato delle attività umane è della politica.

    Diffidare di chi afferma il contrario, bisogna. Perché o è in malafede oppure è davvero ingenuo. Nell’un caso o nell’altro, rappresenta comunque un pericolo o meglio, declinando in politichese stretto, una rischiosa deriva qualunquista.

    Chiedo scusa a Gaetano Mosca se ho abusato del suo buon nome nell’attribuirgli l’aforisma della prossima pagina. Null’altro che un espediente per suscitare il sospetto in chi ancora non lo sa, che la politica è vera e propria scienza. E come tutte le scienze che si rispettino, non ammette apprendisti stregoni.

    Terlizzi, lì 3 dicembre 2013

    IL TERZO ALLEGATO

    Eva colse una mela, e nel farlo pose deliberatamente in

    atto una precisa scelta politica. E ci furono conseguenze.

    Basterebbe questo a sancire il primato della politica al

    di sopra di ogni altra attività umana.

    (Gaetano Mosca)

    [1] Pensiero di Gaetano Mosca appositamente inventato dall’Autore

    parte prima

    GENESI DI UN’APOCALISSE

    Ciò che vedrai scrivilo in un libro e invialo alle sette Chiese.

    (San Giovanni, Apocalisse 1,11)

    Signore e signori, buonanotte.

    Al termine del telegiornale la regia passò sulla camera centrale dello Studio cinque. Panoramica in campo lungo, col presentatore poggiato alla scrivania visibilmente distratto. Braccia conserte, gambe incrociate. Voci indistinte fuoricampo.

    Stacco sul primo piano. Il capo chino, l’aria rassegnata e stanca. Sfumata da un ombra di cautela, una voce su tutte:

    «In onda…», annunciò il regista senza gli usuali punti esclamativi.

    Quasi controvoglia si mosse verso la telecamera, derivando e scarrocciando nei primi passi nemmeno fosse ubriaco.

    Ritorno in campo lungo. Ristabilì il controllo stringendo le mani l’una nell’altra ed ebbe il buon gusto di non sfregarle col suo caratteristico gesto untuoso. Un professionista.

    Misurando ogni passo arrivò al segnale dell’inquadratura in piano medio e lì si fermò. Sollevò le mani giunte fino a toccarsi le labbra e sfiorando l’estasi, strinse ancor più le spalle fin quasi a nascondere la cravatta tra i risvolti della giacca. Poi, con un movimento del tutto naturale, si sporse impercettibilmente in avanti e guardò diritto in camera, nell’assoluta certezza di toccare il cuore di ogni singolo italiano incollato al televisore. A quel punto, però, qualcosa si ruppe nella ferrea disciplina dell’ anchor man di punta della RAI Radiotelevisione Italiana. Sopraffatto dall’idea che il pianeta stesse rallentando e il tempo lì lì per fermarsi e lasciare esposte per l’eternità le sue ultime parole, fu travolto dal panico. Le mani giunte presero a tremare con tutti gli avambracci, tanto da costringersi ad abbassarle e a stringerle forte. Fu solo un attimo: come in preda a un riflesso condizionato la bocca si ridusse a una fessura e con quella smorfia la muscolatura del volto ritrovò il giusto tono. Ringraziò per la cortese attenzione e con l’espressione più contrita di cui era capace, prese commiato dai suoi telespettatori affidandosi letteralmente nelle mani del Signore:

    « Che Dio ci aiuti», proferì grave e solenne, tanto da fare di quella preghiera un epitaffio.

    Terminava così la più lunga diretta della storia della televisione italiana. La puntata fiume di Porta a Porta, diffusa a reti unificate e della durata di sei giorni, ridusse il Centro di Produzione RAI di Via Teulada a un bivacco e polverizzò tutti i record di gradimento. Il sequestro delle frequenze private e dei canali satellitari fece del primo canale della televisione nazionale l’unica opzione possibile, con Bruno Vespa nella parte del mattatore forte di un indiscutibile cento per cento di share. Di tanto in tanto la sparuta redazione del Tg Uno diffondeva notiziari dai toni drammatici, con annunci e servizi filmati forniti a mo’ di veline direttamente dall’unità di crisi predisposta dal Governo.

    L’inquietante aria tratta dall’opera di Roberto Lupi Armonie del pianeta Saturno, che ai tempi del bianco e nero annunciava la fine delle trasmissioni, chiuse la diretta e i tecnici predisposero le apparecchiature per la diffusione di un messaggio della Protezione Civile. Il comunicato riportava l’elenco delle Zone di Garanzia allestite in tutto il territorio nazionale, da trasmettere a oltranza autonomia del gruppo elettrogeno permettendo. L’ultima edizione del telegiornale, infatti, riferiva di forti preoccupazioni espresse dai vertici dell’ENEL. Si accennava a gravi disordini in Francia e a potenziali incidenti sulla rete di interconnessione con l’estero. Troppo fresco il ricordo del devastante blackout che colpì l’Italia nel settembre 2003, causato dal crollo di un albero che troncò di netto una linea ad altissima tensione. In quell’occasione gli italiani appresero dell’esistenza del Piano di Difesa del GRTN (Gestore Rete Trasmissione Nazionale), le cui linee d’intervento contemplano l’attuazione del Piano di ripartizione ciclica delle interruzioni del carico. Se necessario, si sarebbe proceduto di lì a poco alla sospensione del servizio in vaste aree del Paese.

    Con quella frase banale pronunciata da un Bruno Vespa sfatto e con un’inedita barba di due giorni, la RAI interruppe le trasmissioni sine die e sull’Italia calò un velo di silenzio mediatico che come un sudario l’avvolse da Nord a Sud.

    Dopo nemmeno mezz’ora dalla fine del Tg Uno scattarono le prime protezioni del piano di difesa del sistema elettrico. Esse innescarono una violenta reazione che dette il via ad un inarrestabile effetto domino. Centinaia, forse migliaia di relè e meccanismi automatici scattarono inesorabilmente e nel volgere di appena tre minuti si determinò il collasso dell’intera rete elettrica nazionale.

    Era il 26 aprile 2013.

    Risveglio

    «Cazzo!»

    La ciminiera della centrale termoelettrica a olio combustibile tossiva in lontananza nuvolette nere e dense. Sembravano segnali di fumo provenienti dalla terra di nessuno.

    Gianco scese di corsa per prendere il binocolo e tornare sulla terrazza della

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