Discover millions of ebooks, audiobooks, and so much more with a free trial

Only $11.99/month after trial. Cancel anytime.

Laura Bresson Le Origini
Laura Bresson Le Origini
Laura Bresson Le Origini
Ebook409 pages6 hours

Laura Bresson Le Origini

Rating: 0 out of 5 stars

()

Read preview

About this ebook

Scrivere questo libro non mi è mai costata fatica. Dal giorno in cui è nato e per tutte le migliaia di volte che ho aperto il suo file, ho sempre provato una singolare leggerezza occuparmene. Una volta seduta davanti al computer e dopo essermi assestata, rientravo delicatamente nella storia, ritrovandomi presto a continuare a raccontare quel mondo, dentro al quale, in un attimo, venivo trasportata.

Assentandomi dal mio presente, rimanevo a scrivere per ore e ore, e fin tanto che l’orologio mi segnava inesorabile il tempo di chiudere. In anni dedicati a questo romanzo, non ricordo di aver terminato la mia giornata con niente di scritto, impossibile. Nessun personaggio, situazione, amore, contesto mi hanno mai, una sola volta, trovato impreparata. Come una storia già vissuta, questo racconto è arrivato alla mia mente attraverso dei fotogrammi che, senza sosta, si sono sempre presentati precisi e puntuali. Un lavoro lungo, che ha richiesto molta attenzione e concentrazione, ma che non mi è mai stato difficile fare e che mi ha sempre dilettato continuare.

Il Romanzo

Una storia che nasce nella metà del diciannovesimo secolo con Felice Donati, in un nord est italiano contadino, con la sua gente semplice e fatta di pochi concetti: lavoro e famiglia. Più di cento anni di storia, raccontata attraverso le vite dei personaggi, alcuni collegati e stretti da un legame di sangue, che portano avanti la storia con i loro matrimoni, intrighi, raggiri e colpi di scena, seguendo un ordine cronologico che culmina con l’arrivo in scena della sua protagonista: Laura Bresson.

Una donna e una società che cambiano ed evolvono. Laura bambina, spensierata e gioiosa, crescendo, raggiunge la sua maturità fisica e psicologica; una società segnata dal lavoro fisico e dalle guerre che si muove verso la sua civilizzazione. Una modernità, però, che non arriva a ricoprire tutti gli aspetti della vita ma che sembra fermarsi a una estetica apparenza dove ancora molti modi di pensare e, soprattutto, di amare rimangono invariati.

Recensioni

★★★★★
“Non si sa esattamente che giorno, che anno, dove... Ma leggendo questo libro ci si sente a casa. Le pagine ci portano ai ricordi della nostra infanzia, tra mura e odori che a volte pare di percepire davvero. Ci si innamora dei personaggi come se fossero persone di famiglia e si vive assieme a loro ogni fatica ed ogni traguardo, con un sostegno sempre vivo nella mente del lettore. Un libro da cui traspare l'autenticità di sentimenti e bisogni che non cambiano mai nonostante l'evolversi delle generazioni.
Un libro autentico e senza tempo.”
Francesca Zorzi, fitness trainer, mamma, amante dei gatti e del mare

★★★★★
“La trama di questo romanzo ha uno sviluppo avvincente, l’autrice attraverso i dialoghi riesce a descrivere bene i personaggi facendo emergere chiari gli stati d'animo e il carattere di ognuno di loro.”
Federica Galvani, editor
LanguageItaliano
Release dateJun 25, 2021
ISBN9791280573049
Laura Bresson Le Origini

Related to Laura Bresson Le Origini

Related ebooks

Family Life For You

View More

Related articles

Reviews for Laura Bresson Le Origini

Rating: 0 out of 5 stars
0 ratings

0 ratings0 reviews

What did you think?

Tap to rate

Review must be at least 10 words

    Book preview

    Laura Bresson Le Origini - Siriana Venezian

    Antefatti

    Felice Donati

    Felice Donati era un signorotto dalla stazza ben piantata a terra, piuttosto basso di statura e con braccia, gambe e collo grossi e corti. Aveva un addome protuberante che negli anni si era talmente ingrossato da portarlo a camminare con il busto sbilanciato all’indietro. Il naso, che sorgeva al centro del viso, era largo alla radice e rotondo sulla punta e da entrambe le narici uscivano alcuni peli arricciati e scuri. Aveva una bocca piuttosto carnosa e i denti, sebbene del colore del fumo, erano sani e senza carie. Quando era appena un ragazzino sopravvisse completamente indenne, senza essere nemmeno stato sfiorato, all’epidemia che invece dilaniò in men che non si dica tutta la sua famiglia: padre, madre e tre sorelle più piccole. L’allora parroco del paese si preoccupò di sistemare l’unico superstite di quella sciagura, appunto il piccolo Felice, appena qualche ora dopo aver celebrato il funerale dell’intera famiglia.

    Ben sapendo che di Donati in paese ne era rimasto soltanto uno (un fratello del padre, vecchio e dalla fama di poco di buono, a cui era impossibile pensare di affidare un bambino!), il prete si mise a consultare gli archivi della parrocchia e attraverso il cognome della madre, che sapeva essere una forestiera, risalì al suo paese d’origine. Quindi convocò nei suoi uffici un amico della parrocchia e il suo compare, uomini svegli e forti, e spiegò loro che cosa intendesse fare.

    Al primo disse di prendere delle vettovaglie e dell’acqua che gli potessero bastare per qualche settimana, gli consegnò un piccolo sacchetto contenente delle monete, una busta con una lettera all’interno e infine un foglietto ripiegato due volte dove aveva scritto in grande il nome della città natale della madre del piccolo Donati, dove appunto l’uomo avrebbe dovuto recarsi; al secondo disse che, già il giorno seguente, avrebbe condotto il compagno e il ragazzino alla stazione.

    I due uomini, lungi dal discutere gli ordini del prete, obbedirono senza ribattere e già la mattina dopo, di buonora, caricarono il carro e con il ragazzino si diressero alla stazione. Mentre il conducente del carro se ne tornava a casa rilassato e contento per essere stato chiamato per il compito minore, il suo amico, seduto sul treno diretto verso est, alternava lo sguardo tra la scritta pulita e chiara impressa sulla busta che teneva in una mano – pur non sapendo leggere era al corrente che c’era scritto Per il parroco – e nell’altra il foglietto piegato a metà, con indicato il nome della città.

    Sarà stato per le preghiere della moglie che aveva lasciato andare il marito a malincuore per quella operazione che non si sapeva quanto lo avrebbe tenuto fuori casa, o per la benedizione del parroco alla partenza, o solo per la sua scaltrezza, qualità necessaria per portare a termine quella missione, comunque qualche tempo dopo, e prima del previsto, l’uomo fece ritorno al suo paese senza il ragazzo. Infatti, dopo qualche ora di treno, arrivati alla stazione dell’altra regione, mostrando il biglietto a qualche passante, l’amico del prete cominciò subito a chiedere un passaggio per quella città che, a detta del parroco che aveva consultato la mappa, doveva sorgere a ridosso del fiume e appena sotto i monti. Il Signore volle che, appena fuori dalla stazione e poco dopo essere scesi dal treno, incontrassero un uomo con un carro che si dirigeva proprio quel giorno in quel paese per svolgere delle commissioni, forse degli affari, a giudicare dal carico pieno di pezzi di pellami, che emanavano un odore difficile da scacciare da sotto le narici, anche molte ore dopo essere smontati dal suo mezzo. Arrivati nella tarda mattinata nella chiesa del paese, i due forestieri incontrarono il parroco, che sembrava fosse sul punto di consumare il suo pranzo, vista l’ora e il profumo che si era sparso in tutta la sagrestia, ma che non fece una piega nel farli subito accomodare nel suo ufficio, dove pur affamato ma anche incuriosito da quella visita, lesse tutto d’un fiato la lettera che gli era stata allungata. Fu semplice per il prete riconoscere il cognome che il suo collega menzionava più volte nella lettera, e collegarlo immediatamente, senza ricorrere agli archivi, alle uniche due persone che in paese lo portavano. Erano due sorelle di una certa età: una rimasta vedova senza figli, e l’altra zitella, che ora vivevano insieme nella casetta di famiglia, nella via principale del paese.

    Il parroco, assieme agli stranieri, poco dopo bussò alla casa delle parenti e scusandosi per l’ora, ma vista l’urgenza della cosa, chiese di poter parlare con loro. Le due sorelle, anche loro in procinto di iniziare il loro parco pasto, ma lontane dal pensare di mandare via il prete, fecero accomodare l’uomo e il ragazzo in cucina, mentre loro si diressero nel piccolo salottino assieme al loro riguardevole ospite che, appena seduto nella poltroncina, recitò quasi testualmente la lettera ricevuta. Ascoltata tutta la storia, entrambe le donne rimasero addolorate per la sorte toccata a quel nipote di cui prima di quel momento ignoravano l’esistenza, ma soprattutto rimasero sconcertate per la tremenda morte toccata alla sorella più piccola, che per amore era migrata così lontano, e di cui non avevano più avuto notizia. All’unisono accettarono di buon grado di prendersi cura del nipote, sottolineando che, non trattandosi di un neonato, non sarebbe stato così difficile tenerlo con loro. Non solo, quando poi si riunirono in cucina tutti insieme, osservando la costituzione del ragazzino, convennero ognuna per conto proprio che, capitato in un momento della loro vita in cui l’età si faceva sentire e soldi e cibo scarseggiavano sempre di più, quello fosse un miracolo venuto dal cielo. Le parenti, congedati il prete e l’uomo, entrambi alleggeriti per aver trovato una sistemazione al piccolo Donati, non lasciarono passare molto tempo prima di parlare con il giovane Felice che si mostrò da subito disponibile a fare dei piccoli e semplici lavoretti fuori casa, quel tanto che sarebbe servito ad aiutare loro economicamente, mentre lui avrebbe potuto iniziare a costruirsi un futuro.

    Le due donne, qualche settimana dopo quella chiacchierata, si incamminarono per l’unica segheria del paese, che sorgeva in alto, sul lato destro del fiume. Il padrone, vecchio amico di famiglia, uomo modesto e buono, provato anche lui dal racconto delle parenti sulla sorte toccata al loro nipote, non solo prese Felice da subito nella sua bottega come garzone, ma anche, se lo avesse voluto e nel tempo, gli avrebbe dato la sua disponibilità nel passargli tutta la sua conoscenza ed esperienza nel lavoro, dandogli così la possibilità di imparare un mestiere.

    Felice si dimostrò immediatamente sveglio e svelto, infatti non ci mise molto a imparare a intagliare, a levigare e a lucidare il legno. Anche se, a dire la verità, lui era più portato alla gestione generale della bottega, tanto che, da lì a qualche anno, si trovò a dare dei consigli molto preziosi al falegname sul come gestire i clienti e soprattutto i pagamenti, che a suo avviso avvenivano in tempi troppo lunghi. Quando poi lo conobbe meglio ed ebbe più confidenza, Felice suggerì al brav’uomo anche di pretendere molto di più dai suoi dipendenti, in fondo erano pagati per lavorare, mica per riposare, e se un lavoro andava finito, si doveva rimanere in bottega fino alla conclusione, anche alla sera se era necessario: prima si portava alla consegna un lavoro, prima si rientrava dei soldi.

    Il semplice falegname all’inizio fu incerto nell’accogliere tutti i consigli di Felice, per due motivi principali: non era nella sua indole essere troppo severo e aggressivo nei confronti dei suoi ragazzi o dei clienti e soprattutto tutti quegli avvertimenti venivano dalla bocca di un ragazzo troppo giovane per saperne più di lui. Ma, senza rendersene davvero conto, egli si trovava ad ascoltarlo, ammaliato dal carisma di quel ragazzo ultimo arrivato ma che sembrava avere un’esperienza e una capacità nel fare gli affari del tutto speciali. E in effetti, quasi trascinato ad attuare quei cambiamenti, il piccolo padrone dovette presto riconoscere che i profitti della sua bottega erano di gran lunga migliorati. Si lavorava molto di più per carità, alle volte anche alla domenica per cercare di consegnare un lavoro prima della fine del mese, e anche se avvertiva un leggero malcontento nei ragazzi per questo (la domenica non si era lavorato mai prima! E sua moglie gli rammentava anche che era peccato!), non poteva negare che i soldi erano più di prima. Felice gli consigliò infine che, siccome il suo lavoro era di buona qualità ma soprattutto la sua era l’unica bottega in tutto il paese, doveva alzare i prezzi.

    Per il giovane Felice Donati quella piccola e redditizia segheria fu davvero la sua palestra e fortuna, perché fu lì che scoprì e testò le sue doti migliori. Quando, appena ventenne, diventò un vero esperto del settore e abbastanza indipendente economicamente, lasciò bottega e zie e si trasferì nella bassa campagna, fuori il paese, dove, con i soldi guadagnati e quelli sottratti alle parenti, comprò del terreno, si costruì una piccola abitazione, una casupola di una stanza, e poco più in là il primo segmento della sua segheria. Questa ovviamente era più attrezzata e grande di quella del paese alla quale, con molta scaltrezza e poca morale, non fu difficile portare via tutti i clienti. E mentre Felice si faceva uomo e la sua segheria diventava la più grande e redditizia della zona, favorita anche dalla posizione geografica, fervente crocevia di scambi e commerci, il povero falegname lavorava sempre meno, ritrovandosi molto presto a chiudere del tutto e riducendosi, in poco tempo, alla fame.

    Se del talento negli affari del Donati si cominciò a parlarne tranquillamente a voce alta in piazza, con più discrezione e con meno fervore si discuteva del modo poco onesto con cui aveva fatto chiudere la segheria del paese e aveva avviato la propria, e in particolare poi di due sue singolari peculiarità: la sua tirchieria e le sue punizioni. Sulla prima non c’erano da spendere molte parole, non si potevano contare le ore e i giorni di festività lavorati dalla maggior parte dei dipendenti, senza ovviamente uno spicciolo aggiunto nella paga. Tra i ragazzi che lavoravano alla segheria del Donati, si parlava invece molto di più del dolore e dei segni vistosi e indelebili lasciati sulle loro pelli dal frustino del loro padrone. Non c’erano schiene o gambe in tutta la proprietà del Donati che non avessero provato quelle che lui chiamava le tredici frustate della saggezza. Felice era fortemente convinto che le punizioni fatte a quella maniera raddrizzavano tutti, anche il più distratto o poco redditizio dei dipendenti, a patto che fossero tredici, né una più, né una meno. Un uomo, dopo aver superato vivo la prova delle tredici frustate, aver provato il dolore atroce dei lividi sulla propria pelle, ed essersi visto per sempre segnato dalle cicatrici, avrebbe raffinato un tipo di saggezza che gli avrebbe impedito in futuro di sbagliare ancora. Queste erano le pecche più grossolane del Donati, se così le vogliamo chiamare, per il resto non c’era persona che non portasse una profonda riverenza per quell’uomo che era arrivato a dare da mangiare a così tante famiglie in tutto il paese e dintorni.

    Era già piuttosto potente e aveva una certa età, quando incontrò la sua prima, e quella che lui sempre definì, la sua unica moglie. Un amore fulmineo per una ragazza, figlia di una cliente del paese, molto più giovane di lui, dalla stazza e temperamento molto simili, una donna che, come nessun altro prima di lei, lo faceva stare al suo posto. Fu quando sposò la sua Maria che decise di lasciare la casupola e costruirsi poco più in là una casa vera e propria dove vivere con la sua giovane sposa. Purtroppo però un’altra terribile ondata di malattia gliela portò via assieme alla sua piccola figlia, nella stessa tragica e cinica maniera in cui gli erano stati portati via padre, madre e sorelle. Dovette passare molto tempo perché il Donati si riavesse da questa seconda sciagura, e nonostante durante il giorno non lo mostrasse, anzi mai prima di quel momento alla segheria era apparso così aggressivo e determinato nella gestione di persone o cose, dopo il lavoro diveniva un’altra persona. Mangiava sempre poco e quando si coricava a letto, pur molto stanco, non riusciva ad addormentarsi e rimaneva sveglio anche per tutta la notte a causa di quella solitudine, di quella tristezza e di quel senso di affanno che non smetteva di premergli all’altezza del petto. Una sera, in cui si sentiva talmente triste e arrabbiato da sembrargli che stesse impazzendo, capì che era ora di reagire e per questo si decise a chiedere un favore a un suo dipendente.

    Berto, disse il Donati al ragazzo dopo averlo chiamato in casa sua la mattina successiva. Portami qui tuo padre, ho da chiedergli un favore, ordinò dritto e senza preamboli.

    Certo, signore, gli rispose il ragazzo. Domani glielo porto qui, signore, aggiunse accennando a un sorriso per smorzare la tensione che provava.

    No! No, che domani! Oggi, adesso, vai! Corri a casa e portamelo qua, quasi gli urlò il Donati subito spazientito.

    Ah, sì certo, sì certo, signore, ribatté il ragazzo ancora più agitato per non aver compreso subito la richiesta del padrone. Corro, disse Berto uscendo fuori e prendendo la strada per andare a casa.

    Berto era un ragazzetto molto volenteroso e non si tirava mai indietro davanti agli ordini del suo padrone. Aveva un viso scarno e una fila di denti marci proprio sul davanti della bocca; le gambe, anch’esse molto magre quasi come due gambi di sedano, quando erano chiuse formavano un ovale quasi perfetto tra i calcagni e l’inguine. Aveva due occhi vispi e attenti e soprattutto, dopo aver visto la madre morire di parto e dopo essere rimasto solo in famiglia con il padre e l’anziana nonna, madre di suo padre, non ci pensava un solo secondo a lamentarsi di qualche guaio della vita, lui tendeva a sorridere sempre e per ogni cosa. Quando quella mattina fu chiamato molto presto in casa dal Donati, Berto fu titubante ma non impaurito. Sapeva con certezza che non gli sarebbero toccate delle frustate, non perché fosse sicuro di non aver sbagliato, quello mai, ma perché il Donati di solito puniva immediatamente dopo l’errore commesso e possibilmente davanti a tutti, così da far comprendere a ognuno la lezione. Quindi quella richiesta di andare a chiamare suo padre, pur non capendola, ovviamente lo aveva tranquillizzato.

    Bortolo Tasca, il padre di Berto, era un ometto basso e magro, con i capelli spettinati e completamente bianchi, aveva un viso segnato e sporco non si capiva se di una barba incolta o di fuliggine di focolare. Le sue gambe, quando unite, formavano un ovale ancora più perfetto di quello del figlio. Aveva lavorato presso la segheria e aveva speso una vita al servizio del Donati. Non solo, era stato Felice Donati a vendergli il pezzo di terra, appena fuori il confine della sua proprietà, proprio lungo la strada che portava prima a una contrada e poi dritto al paese, ed era stato sempre il suo padrone a prestargli i soldi per il materiale per costruirsi la casa. In realtà non è che fosse stato un grande affare per il padre di Berto, dal momento che pagò tutto davvero molto caro e non gli bastò il lavoro di una vita per ripagare quel prestito per un po’ di mattoni e cemento e per quel pezzettino di terra. Ma per il Bortolo, il signor Donati era un vero signore, guai a toccarglielo, e quando suo figlio quella mattina tornò a casa dicendogli che il suo vecchio padrone aveva bisogno di lui, non ci aveva pensato un solo secondo, prese giacca e cappello e si fece portare dal figlio dal Donati.

    Quando il carro raggiunse la proprietà, Bortolo Tasca lasciò che il figlio tornasse ai magazzini mentre lui si incamminò verso la casa del suo padrone. Si fermò in mezzo al cortile, a qualche metro dalla porta d’entrata e, contorcendo nervosamente il berretto nelle mani, rimase in attesa che il suo padrone si mostrasse.

    Bortolo! chiamò con autorità il Donati aprendo improvvisamente la porta di casa e mettendosi diritto a gambe larghe sulla soglia. Conosci qualcuno, hai delle conoscenze dico, parenti o roba del genere in paese? gli chiese.

    Sì signore, ho delle sorelle, spiegò a voce piuttosto alta, non sapendo se avesse dovuto avvicinarsi di più o rimanere lì dov’era.

    Ecco senti, vedi se loro o tu, o chi vuoi, mi tira fuori una famiglia con una brava figlia, sì una ragazza a modo, che sappia cucinare e fare i mestieri di casa, e buona a fare figli, ecco tutto, disse il Donati veloce. Hai capito? concluse rimanendo per un istante a guardare il Bortolo da lontano.

    Sì, sì, certo signore, una figlia, sì una brava ragazza, farfugliò nervoso il Bortolo cercando di ripetersi nella testa la richiesta del Donati e allo stesso tempo sentendo di doversene andare velocemente per non disturbare ulteriormente il padrone.

    Farò del mio meglio, signore, per informarmi di alcune ragazze del paese, concluse girando sui tacchi frettolosamente e andando dal figlio ai magazzini a dirgli che avrebbe preso il carro e che sarebbe tornato alla sera a riprenderlo per portarlo a casa. Infatti il Bortolo non perse tempo e andò dritto fino al paese per parlare con suo cognato Luigi Scalabron, noto commerciante di bestiame. Anche lui, come il Donati, era arrivato soltanto da qualche decennio nel loro paese, dove aveva conosciuto e sposato sua sorella, ma soprattutto dove, partito soltanto con qualche vacca, era negli anni cresciuto tanto che non si sapeva quante bestie oggi fossero di sua proprietà. Lo Scalabron, oltre a godere di una certa agiatezza, si era fatto un buon nome, sicuramente anche per il fatto di aver sposato una Tasca, tra le più antiche famiglie del paese e nota a tutti per essere della brava gente. Nonostante questo, il Bortolo nel tragitto per la casa di sua sorella non poté fare a meno di fare alcune considerazioni. Perché era vero che lo Scalabron risultava un uomo abbastanza onesto, per quanto quella professione lo potesse permettere ma, pur sapendo che non ci sarebbe stato padre in paese che non avrebbe dato in sposa una figlia al Donati, in cuor suo temeva che per qualche strana ragione suo cognato potesse rifiutare di dare al suo padrone una figlia, l’ultima che era ancora da sposare. Oppure pensava che il Donati stesso avrebbe potuto trovare qualche magagna sulla professione del cognato che lui ignorava in quel momento. Poi, lui neanche sapeva con esattezza l’età dell’ultima figlia di sua sorella; e se fosse stata troppo piccola? In fondo lui era il primo di dieci fratelli e quella sua sorella era l’ultima, poteva lei stessa essere sua figlia, figuriamoci la figlia! Infine fu assalito da un’altra considerazione: se suo cognato avesse detto di no, lui onestamente non avrebbe saputo a quali altre porte bussare. Questi pensieri e il terrore di deludere il suo padrone lo stavano facendo precipitare in uno stato di agitazione tale che quando arrivò a casa del parente a momenti non riusciva neanche a parlare. Soltanto quando sua sorella, ricordandosi dell’emotività di quel fratello più grande, gli si sedette vicino e lo incoraggiò a bere un sorso d’acqua, egli si calmò quel tanto da permettergli finalmente di spiegare il motivo della sua visita. I due coniugi rimasti in ascolto attenti, quando intesero le intenzioni del Donati per bocca del Bortolo, si sentirono lusingati e rilassati insieme. Quando il parente si presentò alla porta, la ragazza era già da qualche tempo in età da matrimonio e i genitori, specialmente la madre, avevano cominciato già da un po’ a fremere e a essere leggermente preoccupati per quella occasione che tardava ad arrivare, perché loro volevano sì che la ragazza trovasse marito, ma allo stesso tempo volevano ponderare molto bene l’eventuale pretendente. Infatti erano preoccupati che chi avesse scelto Mariarosa come sposa non fosse un uomo qualunque, ma una persona con almeno un po’ di sensibilità da poter vedere e apprezzare il carattere semplice e genuino della ragazza, e che non si soffermasse solamente sulle sue spiccate doti fisiche. Quando finalmente entrambi compresero quello che il Bortolo cercava di dirgli e che il pretendente era il signor Donati della segheria, la madre si rilassò in volto, e dentro di sé avvertì forte la gratitudine nei confronti del Signore che l’aveva ascoltata nelle sue preghiere e le aveva mandato un uomo maturo per quella figlia alle volte così leggera nel comportamento con l’altro sesso. Il padre d’altro canto non mostrò alcun cambiamento d’espressione nel viso, ma nascose immediatamente la paura che Donati non avrebbe trovato lui stesso o addirittura sua figlia alla sua altezza, cosa che non lo fece stare tranquillo per niente.

    Quando, appena qualche giorno più tardi, Felice Donati seduto al tavolo della casa del commerciante (che avendo la stessa sua stazza, seduti di fronte, occupavano da soli tutti e due i lati lunghi del tavolo) prima incrociò lo sguardo della ragazza, poco scostata da loro in piedi a fianco alla madre, e subito dopo ne guardò veloce tutta la sua figura intera, l’unico pensiero che gli si insinuò nella testa fu che delle doti fisiche così non si potevano vedere e gestire tutte insieme in una sola volta. Quello che il Donati avrebbe voluto capire in un primo momento era quali fossero gli aspetti della ragazza che lo avevano turbato di più. Sicuramente non era facile trovare in tutta la campagna una ragazza con una bocca così disegnata a cuore, naturalmente rosea e talmente grande da mostrare tutta la dentatura, perfetta e squadrata, solo in un accenno di sorriso. Probabilmente neanche una chioma di boccoli raccolti alti sopra la testa che le cadevano casualmente sulla fronte spaziosa e lucida, era certo, non se ne vedeva in giro, per non parlare del suo punto vita così stretto che se lui stesso l’avesse cinta con le mani forse le punte delle dita avrebbero potuto sfiorarsi. Nemmeno delle gote così alte e rotonde da sembrare due piccole palline e due grandi occhi marrone scuro che lo stavano osservando con un misto di timidezza e malizia, certo non erano comuni. Ma quello che avrebbe potuto fare desiderare Mariarosa a qualsiasi uomo sulla faccia della Terra, e che fece provare al Donati un desiderio irrefrenabile, quasi da non farlo stare seduto sulla sedia, era il petto, talmente prosperoso e sodo, proprio di una ragazza della sua età, che spingeva dentro il vestito della festa e che tirava fortemente tutto il tessuto in quel punto. L’abito era stato modificato dalla madre della ragazza per ordine del padre giusto per quel giorno. Luigi Scalabron aveva ordinato alla moglie di togliere quell’accenno di scollatura e di alzarla completamente fino al collo aggiungendo un pezzo di tessuto. Il motivo non lo rivelò a nessuno; ma Scalabron non volle per alcuna ragione sembrare che esibisse Mariarosa come si mostrano e si fanno sfilare le vacche lucidate e pulite per essere vendute alla fiera del bestiame, pur sapendo che quel che c’era da vedere lo si vedeva lo stesso. Quando la ragazza lasciò la stanza con la madre, dopo appena qualche battuta e davanti a un bicchiere di vino, i due uomini si misero d’accordo. Il Donati parlò per primo proponendo soltanto due date buone per le nozze, le due domeniche successive. Dal canto suo Scalabron si limitò a sceglierne una a caso perché gli premeva fare le nozze al più presto e porre un’unica condizione.

    Deve essere una grande festa! aveva ordinato il padre della sposa a Felice. È la mia ultima figlia e deve avere un matrimonio come si deve.

    Il Donati, in quella fase della sua vita, avrebbe fatto a meno di cerimonie, di banchetti e, soprattutto, di invitati, essendo quelle per lui delle seconde nozze, ma considerando che dote e costi del matrimonio erano a carico del padre della sposa, lasciò fare. Fu compito della madre comunicarlo a Mariarosa, la quale, desiderando fortemente un po’ di libertà e stanca di essere costretta, da lungo periodo oramai, sempre in casa, fu in parte felice e curiosa di cambiare vita e per questo di convolare a nozze.

    Mariarosa dello Scalabron

    La madre di Mariarosa conosceva molto bene pregi e difetti di quell’ultima figlia nella quale rivedeva, molto spesso, sé stessa quando era giovane. Anche lei aveva avuto un bel corpo un tempo, prima che tutte quelle gravidanze la lasciassero sformata e, soprattutto, era stata anche lei spensierata e leggera, prima che le fatiche della vita lentamente le portassero via tutto. Mariarosa era una ragazza genuina, altruista e gioiosa, raramente la si vedeva seria. Ma era anche ingenua, troppo leggera e alle volte tarda nel comprendere le cose più ovvie. Un esempio chiaro di questa sua incapacità a capire le situazioni e adattarsi alle evidenze era che i giochetti che faceva fin da piccola con il padre, una volta cresciuta, non andavano più fatti. La madre poteva garantire che suo marito, che aveva conosciuto bene da appena sposata, non era proprio un uomo dal carattere facile; nei primi anni di matrimonio e anche dopo che nacquero per prime le due figlie e poi i tre figli e per ultima Mariarosa, quando tornava da qualche fiera, e aveva concluso male qualche affare perdendo anche solo qualche soldo, entrava in casa così arrabbiato che non c’erano santi o madonne che lo facessero calmare, c’era solo da aspettare che la rabbia gli scemasse da sola, sperando anche velocemente e prima che gli venisse di sfilarsi la cintura per picchiare chi avesse soltanto versato un po’ di latte sulla tavola. Quando Mariarosa, la piccola di casa appunto, crebbe appena da arrivargli alla vita, in quei momenti di accessi e di sfogo, come d’istinto, lei faceva una cosa che nessuno avrebbe mai azzardato fare né prima né mai. Attendeva che il padre terminasse il giro di bestemmie e insulti tenendosi lontana nella stanza, poi appena lui si fermava pure solo per riprendere fiato, cercava il suo sguardo per sorridergli e non appena suo padre la guardava, un istante dopo quando gli intravedeva tutta la severità nel volto vacillare, gli correva incontro e gli andava addosso fino quasi a scontrarsi sulle sue gambe e veloce, da sotto, allungava tutte le braccia arrivandogli alle ascelle con le manine, e cominciava a fargli il solletico senza fermarsi portandolo così a ridere a crepapelle. Non solo, appena lui si ripiegava dal mal di pancia per le risate, Mariarosa arrivava addirittura a fargli le pernacchie sul collo, mentre la madre, le sorelle e i fratelli rimanevano tutti intorno alla stanza, a guardarli, sempre più increduli e non riuscendo mai del tutto a capacitarsi di come il padre potesse cambiare così d’umore. Per anni, tutti i componenti della famiglia avevano mostrato gratitudine a Mariarosa che riusciva tutte le volte a fare scemare l’ira spesso esagerata dell’uomo, ma con l’andare del tempo i sentimenti, per alcuni di loro, cambiarono. Tutte le figlie femmine cominciarono a essere invidiose fino a provare odio nei confronti della sorella, per quella preferenza spudorata che il padre aveva per lei e per quel suo fare particolare che le faceva palesemente risparmiare qualsiasi punizione o sfuriata. In sua madre, invece, si acuì un sentimento di fastidio che le crebbe dentro nel tempo e che capì soltanto quando Mariarosa fu quasi completamente formata e cresciuta. Infatti la ragazza, non comprendendo che gli scherzi al padre andassero a un certo punto interrotti, continuò ad alimentare con lui quella complicità che agli occhi della signora Scalabron era divenuta persino equivoca. In certi momenti, le era addirittura parso che suo marito si infuriasse talmente per niente da sembrare una scenata fatta apposta perché la figlia gli si scaraventasse addosso, come faceva da bambina, riuscendo anche a spingerlo fino alla poltrona dove lui fingeva di cadere, per farsi fare il solletico sotto le ascelle e le pernacchie sul collo. La moglie, di fronte a quelle scene e a quella figlia così leggera, rabbrividiva, non tanto per tutte quelle risate sempre più fragorose che suo marito faceva soltanto con Mariarosa, ma piuttosto per il ribrezzo e per la vergogna che provava ogni volta che vedeva gli occhi di suo marito che illanguidivano quando si posavano sui seni della figlia che sedutagli sopra si dimenava divertita.

    Un giorno la madre colse l’occasione per spiegare in un modo non troppo esplicito alla ragazza che non aveva più l’età per quel tipo di scherzi nei confronti del padre perché era cresciuta.

    Perché mamma? A mio padre piacciono i gridolini, le aveva risposto chiaramente delusa Mariarosa, senza comprendere per quale motivo avrebbe dovuto smettere di farli, quando, in quella maniera, riusciva a far tornare il sorriso a suo padre.

    La signora Scalabron lasciò cadere il discorso. Anche se non del tutto serena, si convinse che in fondo Mariarosa faceva divertire il padre in modo del tutto ingenuo e in totale buona fede.

    Da sempre la domenica mattina, tutti insieme, i componenti della famiglia Scalabron si recavano alla messa dove avevano loro riservato, con tanto di incisione del nome della famiglia, la seconda fila di banconi a destra per tutti i maschi della famiglia e a sinistra per tutte le femmine. Privilegio ricevuto per le numerose donazioni che il signor Scalabron faceva alla parrocchia per i poveracci del paese. Quando ad uno ad uno tutti i figli presero ognuno la propria strada e cominciarono a lasciare la casa, e lentamente morirono anche tutti i parenti del marito che avevano sempre vissuto con loro (due anziane zie ed entrambi i suoi genitori), la signora Scalabron continuò a recarsi alla solita messa, tutte le domeniche, con la sua ultima figlia, Mariarosa. Il signor Scalabron, invece, preferiva non incontrare ogni volta tutto il paese e perdersi in chiacchiere inutili, così diceva, perciò andava da solo alla messa del primo mattino. La madre, forse concentrata più a prendersi una pausa, in quella fase della sua vita in cui la casa si era svuotata e aveva molto meno da sgobbare e nessuno di prossimo da sposare, non aveva riflettuto sul fatto che Mariarosa, anche se non era ancora in età da marito, era completamente sbocciata. Tanto che appena la ragazza metteva un piede nella navata centrale della chiesa non c’era uomo, giovane o vecchio, in fila nei banchi a destra in attesa dell’inizio della funzione, che non solo alzasse la testa su di lei, ma che la seguisse con lo sguardo fino a quando raggiungeva il suo posto davanti. Per quasi tutto l’inverno la signora Scalabron cercò di ignorare quello che scorgeva a volte con la coda dell’occhio, camminando appena un passo dietro alla figlia nella navata della chiesa.

    Si risvegliò improvvisamente e del tutto da quella rilassatezza che si era concessa specialmente da quando, per ultima, era morta sua suocera, una domenica in cui proprio sul suono della campanella che annunciava l’entrata del prete, la signora Scalabron interruppe le sue preghiere alzandosi dall’inginocchiatoio e, girandosi verso la figlia per invitarla a fare lo stesso, la sorprese ancora in ginocchio e con la testa completamente girata verso il lato destro della chiesa, mentre ammiccava e sorrideva a tutti quegli uomini. La signora Scalabron per un momento credette che le venissero meno i sensi.

    Mariarosa! sussurrò la madre muovendo poco la bocca e non alzando del tutto la testa per guardarla. Smettila! E rigirati immedia-tamente! Guarda che il Signore ti vede! Devi confessarti… Devo parlare con il Don… le sibilò tutto insieme con il magone in gola.

    Mariarosa si rigirò verso l’altare e chinando completamente la testa si chiese in silenzio che cosa avrebbe dovuto confessare. Lei aveva incollato lo sguardo sull’unico ragazzo che, in mezzo a tutti quegli uomini, non l’aveva fissata così spudoratamente ma le aveva regalato soltanto un sorriso, per poi riabbassare timido la testa. Mariarosa quando lo scorse e ne incrociò, seppur per un solo istante, gli occhi, lo trovò così bello e così delicato che si sentì battere forte il cuore. Avrebbe voluto poter vedere di più il viso di quel ragazzo, ora nascosto da un folto ciuffo di capelli neri corvini, caduti sulla fronte e sugli occhi e soffermarsi su quel sorriso così dolce e timido. Quando sua madre la distolse da lui si rigirò, si sedette colma di emozioni tutte nuove, e sperò in cuor suo di poterlo rivedere ancora.

    Dopo quell’episodio la signora Scalabron decise nuovamente di parlare a Mariarosa per dirle che le ragazze per bene stanno al loro posto e non spetta a loro sapere quando sarà l’ora per sposarsi né tanto meno è loro compito di andare in cerca di un marito. Pertanto doveva immediatamente fermare quegli ammiccamenti che le aveva visto fare in chiesa e poi, facendosi ancora più severa, colse l’occasione di dirle che i giochi con suo padre dovevano finire in quel preciso istante. Stabilì che da quel momento in poi sarebbero arrivate in chiesa con netto anticipo, entrando dalla porta laterale e occupando i posti per prime nei banchi ancora vuoti in modo da risparmiarsi il passaggio in mezzo a tutti. La messa alla domenica e qualche sporadica uscita in qualche bottega, sempre con lei, sarebbero state le uniche uscite concesse alla ragazza, finché, si disse la madre, non fosse arrivato il giusto momento per darla in sposa a un uomo come si deve che la prendesse con sé, alleggerendola, in fondo, anche di un peso.

    Mariarosa dal canto suo, se poteva accettare di non fare più gli scherzi a suo padre, perché si sentiva cresciuta, trovava invece insensato non poter incontrare ancora quel ragazzo, che l’aveva fatta emozionare tanto. Però, entrando in chiesa così presto e prima di tutti e sentendosi tirare veloce dalla madre alla fine della messa per andare subito a casa, le fu impossibile rivederlo.

    Rinchiusa in casa, Mariarosa, non sapendo che cosa fare, scoprì per caso i pochi

    Enjoying the preview?
    Page 1 of 1