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Rapsodia di una Rondine
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E-book481 pagine7 ore

Rapsodia di una Rondine

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Info su questo ebook

Un romanzo ricco di suspense, prospettiva storica, trame imprevedibili e intrighi familiari.
La storia dei protagonisti, Toni ed Elsa, è narrata da un duplice “io narrante” che guida il lettore attraverso gli intrecci di due viaggi in tempi e luoghi diversi, nella speranza di ritrovarsi.
Elsa, la figlia di Toni, non si dà pace per il mancato ritorno del padre, deportato in un campo di lavoro in Germania durante la guerra. Seguendo gli indizi sulla sua infanzia scovati in uno scrigno e guidata dal sesto senso, Elsa intraprende un viaggio nel passato di Toni, che la porta fino a Venezia, dove qualcuno le intima di lasciar perdere la ricerca, perché coinvolge una famiglia potente. Gli intrighi del passato aiuteranno Elsa a comprendere il presente?
 
LinguaItaliano
Editorelisadiblas
Data di uscita7 giu 2021
ISBN9791220811934
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    Anteprima del libro

    Rapsodia di una Rondine - Lisa di Blas

    immaginazione.

    TONI

    Era pur sempre meglio che morire.

    Sto cadendo. Sento una lunga, interminabile, spaventosa vertigine di vuoto sotto le gambe. Qualcosa mi attrae con prepotenza verso il basso. Non smetto di scendere, vorrei urlare, ma la bocca non emette suoni. Mi sento soffocare, l’aria rimane tra il diaframma e l’esofago e non riesce a farsi strada fino alla gola, per trasformarsi in grido. Muovo gli occhi, voglio vedere cosa mi aspetta in fondo, ma la nuca è bloccata e sento un dolore lancinante, come un gancio conficcato nella carne, e non posso guardare verso il basso. Temo e al contempo desidero disperatamente vedere dove finirò. All’improvviso mi fermo, qualcosa o qualcuno mi trattiene dall’alto. Mi sembra di stare a faccia in giù sulla superficie dell’acqua, la parte immersa nel liquido è fredda, ma la schiena rimane fuori ed è calda, come accarezzata da raggi di sole sulla pelle. Un’eco impercettibile si avvicina, una goccia d’acqua che cade leggera su una superficie. È il mio cuore che batte ancestrale dentro un utero sconosciuto, sospeso tra la nascita e la morte. E poi la sensazione di vuoto e di pressione nel petto fa spazio a un improvviso e potente soffio d’aria nei polmoni, che si trasforma in un respiro lungo e disperato. Il dolore è intenso e lacerante, ma la consapevolezza di aver ripreso a vivere prevale, annientando le altre sensazioni. Respiro piano e cerco le mie mani che non sento più. Quando finalmente le trovo, le strofino lentamente tra di loro, mi fanno male. Mi tocco il viso gelato, le gambe come morte, il petto indolenzito. Voglio sapere se sono realmente vivo. È un freddo di quelli che ti congelano l’anima e dolcemente ti fanno scivolare dormendo fino alla morte. Credo di avere appena percorso il cammino in direzione opposta. Mi sono svegliato e devo vivere.

    Socchiudo gli occhi per concentrarmi e addentrarmi nel punto più profondo e remoto della mente, voglio scongelare anche i pensieri che galleggiano nel limbo della mia testa annebbiata. Ricordo rumori, ma non riesco a vedere nulla. Dei passi, il fango, la paura, il filo spinato del campo di lavoro. Sono fuggito! All’improvviso le immagini scorrono veloci ammucchiandosi una sopra l’altra e il respiro diventa sempre più rapido. Uno a uno riaffiorano i ricordi: correvo come la lepre che fugge dai cani, correvo e inciampavo per ore. Poi devo essere caduto qui, in questo fosso tra i rovi che graffiano la mia pelle, mentre cercavo di seminare chi mi dava la caccia. Sentivo rumori costanti alle spalle e sapevo che qualcuno mi stava seguendo tutto il tempo, o almeno così mi sembrava. Ho corso tanto, fino allo stremo, per un tempo indefinibile, fino all’ultimo spasimo. Sono scivolato quando ho deciso di lasciare la strada principale per far perdere le mie tracce ed entrare nel bosco. Sì, dev’essere andata così. Devo aver perso conoscenza e ora non riesco a percepire nemmeno il tempo. Lentamente le pupille si abituano all’oscurità e alcune forme imprecise iniziano a delinearsi intorno a me. Alzo lo sguardo, anche il bulbo dell’occhio fa fatica a muoversi, sembra congelato. Il collo dolorante scricchiola come un vecchio pavimento, vorrei inclinarlo a destra e a sinistra per sgranchire le ossa, ma non ci riesco. Mi sfioro con le dita la nuca indolenzita e sento un grosso bernoccolo. Vedo soltanto un groviglio di foglie e rami sopra la mia testa. Provo ad alzarmi, ma mi contorco dal dolore, tutto il corpo è bloccato. Respiro profondamente, forse così l’ossigeno farà pompare bene il cuore per rimettere in moto le membra. In moto. Se riesco a tornare a casa mi comprerò una moto, e porterò Angelina al mare. Che pensiero leggero. Un pensiero che mi dà vita, mi ricarica, mi fa gonfiare il cuore e risveglia anche il mio stomaco sopito. Ho una fame nera. Da quando è iniziata la guerra, la fame è la mia instancabile e insaziabile compagna di viaggio, non mi lascia mai.

    Spinto dall’esigenza di rifocillarmi al più presto, cerco di riattivare la circolazione massaggiandomi le gambe e le braccia per potermi alzare. Anche un’operazione così semplice diventa complessa in questo momento, mi sento a pezzi. Lentamente, appoggio le mani sulla terra e sollevo il busto per poter guardare oltre il bordo del fosso, ma non vedo nulla, il buio è troppo profondo. Finalmente, seppure barcollante, riesco a ergermi e mi arrampico appoggiando i piedi su alcune radici che escono dalla terra. Riesco a vedere la strada. Da un lato scorgo la macchia nera del bosco, dall’altro soltanto campi privi di alberi. Torno a sedermi dov’ero, in cerca del calore e della forma a conca che ha lasciato il mio corpo sulla terra e sulle foglie. Attendo che la notte si porti via l’ultimo strascico. Socchiudo gli occhi, stavolta consapevole e felice di poterli riaprire.

    Ed ecco che si avvicinano le prime luci dell’alba, intravedo un lieve bagliore in fondo alla landa malinconica e infinita che si staglia davanti ai miei occhi, in quella punta remota dove si posa lo sguardo, che più in su non può. Mi sembra di stare in una nebbia fuligginosa e gelida, sospeso tra tempo e spazio. Non so dove sono, che giorno è, quanto sono rimasto qui. So solo che fa troppo freddo e che mi devo muovere, o mi trasformerò di nuovo in una roccia del paesaggio. Quello che mi turba e non mi fa uscire ancora è il silenzio che mi circonda. È quel silenzio sottile che non ti permette di pensare, perché la paura ti attanaglia e ti grida nelle orecchie. Non è un silenzio di tranquillità, come quello che sentivo tanto tempo fa, la domenica mattina presto, quando in casa tutti gli altri ancora dormivano e l’unico suono che interrompeva l’imperturbabilità e la gloria delle prime ore del mattino era il gorgoglio dell’acqua che bolliva nel tegamino sul fuoco. E poi il tintinnìo delicato di un cucchiaino che gira il primo caffè della giornata, nella mia tazzina preferita, quella bianca con i disegni blu che mi regalò per un compleanno la mia bella Elsa, mia figlia. L’aveva scambiata con un altro bambino del quartiere, cedendo in cambio un grappolo d’uva americana dolcissima che cresceva formando un tetto di foglie fitte sopra al nostro pollaio. Mi ricordo quando me la porse, con quelle sue manine piccolissime e perfette. Perfette come lei, chissà quanto sarà cresciuta ora, sarà una ragazza ormai. Quanto vorrei sentire la sua risata cristallina adesso! E invece quello che sento è soltanto un silenzio carico di brutte storie, di troppi anni di violenza nella sua forma più spietata e incomprensibile: la guerra. Ma io sono scappato, ce l’ho fatta. Non so quando, forse ieri o qualche giorno fa. Non so nemmeno se me lo voglio ricordare, non è più importante. Adesso sono qui, e significa che ho una possibilità. Anzi, ho tutte le possibilità, perché sono ancora vivo.

    Una volta in piedi, muovo lentamente le gambe e le braccia per scrollarmi di dosso il gelo, e il sangue ricomincia ad animare il resto del corpo fino ad arrivare ai miei pensieri e mi mostra un’immagine, una foto fulminea davanti agli occhi. Non ero solo quando sono scappato, eravamo in tre. Era buio e stavamo correndo assieme. Dove sono tutti? Non riesco a vedere altro. Mi blocco e cerco di pensare. Eccoli, li vedo! Siamo in un passaggio sotterraneo con l’acqua fino al collo. Qualcuno mi chiama e mi dice di tenere il fucile più in alto. Ora li vedo bene! Milo e Petr! I miei compagni di prigionia, i miei amici. Un cecoslovacco e un ungherese con i quali ero andato subito d’accordo nel campo di lavoro dov’ero prigioniero. Parlavo soprattutto con Petr, l’ungherese che aveva lavorato in Austria alla Wiener Philharmoniker, l’orchestra filarmonica di Vienna, e masticava un po’ di italiano, imparato da un collega napoletano che suonava il violoncello. Suonavamo assieme nel campo di lavoro di Halle, loro erano professionisti e io un improvvisato, ma mi dicevano che ero bravo. Mi facevano ascoltare un pezzo soltanto una volta e si stupivano sempre di come riuscissi poi a seguirli, ripetendo gli spartiti quasi alla perfezione. È una mia abilità, sentire la musica con il cuore e ricordarmela per sempre. Petr rideva e diceva: «Le note ti scorrono nelle vene, Toni! Quando finisce la guerra tu vieni con noi e andiamo a suonare in tutta Europa con le migliori orchestre!». Magari, Petr, magari. Fortunatamente, nel campo di lavoro i tedeschi non ci avevano sequestrato gli strumenti e potevamo continuare a suonare anche là dentro. La musica piaceva anche a quei maledetti. <