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L ultima vita: Un'indagine di John Adderley
L ultima vita: Un'indagine di John Adderley
L ultima vita: Un'indagine di John Adderley
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L ultima vita: Un'indagine di John Adderley

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About this ebook

Uno straordinario noir nordico già venduto in 15 paesi. Primo capitolo della serie di John Adderley, L’ultima vita è un esordio che vi toglierà il respiro.

2019. L’agente in-filtrato dell’FBI John Adderley si sveglia in un letto d’ospedale, piegato dal dolore. Dopo aver scoperto la sua vera identità, il capo del cartello nigeriano di Baltimora ha cercato di ucciderlo. Il terrore lo invade quando nota che nel letto a ¬fianco, distante solo un braccio, si trova l’uomo che poche ore prima gli ha puntato una pistola alla testa...

2009. Karlstad, una tranquilla cittadina della Svezia, viene scossa dalla scomparsa della giovane Emelie Bjurwall, ereditiera di una ricchissima famiglia locale. Dopo giorni d’indagini, la polizia accusa di omicidio un ragazzo che vive nei sobborghi. Tuttavia il corpo della ragazza non viene mai trovato e il presunto delitto rimane irrisolto. Una volta dimesso dall’ospedale, John deve abbandonare la sua vita e cancellare ogni traccia di se stesso il prima possibile. La sua vita è appesa a un ¬filo. Avvisato della riapertura del cold case Bjurwall, John chiede di farsi trasferire nel corpo di polizia investigativa di Karlstad attraverso il programma di protezione testimoni. In Svezia ha trascorso l’infanzia insieme alla madre, e a guidare il suo interesse per la scomparsa di Emelie c’è un inconfessabile motivo personale. Dovrebbe mantenere un basso pro¬filo e non farsi notare, ma più si avvicina alla soluzione, più l’ombra del cartello si ingigantisce.

Adorato dai librai indipendenti, ha vinto uno dei più prestigiosi premi dedicati alla narrativa poliziesca. Un romanzo che riesce a combinare le gelide atmosfere del crime nordico e il ritmo travolgente del thriller americano.

L’esordio di due scrittori di talento che hanno unito le loro idee e i loro stili: un sodalizio che cambierà le regole del poliziesco scandinavo.
LanguageItaliano
Release dateJul 1, 2021
ISBN9788830530492
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    L ultima vita - Mohlin & Nyström

    PRIMA PARTE

    2019

    &

    2009

    1

    Baltimora, 2019

    Disteso a letto, l’uomo fissava il soffitto bianco. I contorni del pannello di cartongesso scolorito lentamente si stavano schiarendo. La macchia sembrava un fantasma, o forse un palloncino… in ogni caso una forma che avrebbe potuto disegnare un bambino.

    John sapeva di essere al confine tra sonno e veglia, ma non aveva idea di quanto tempo fosse stato alla deriva tra quei due mondi.

    Provò a girare la testa per vedere dove si trovasse. Un secondo dopo, fu investito da un’ondata di dolore, il cui epicentro era localizzato sulla nuca e si irradiava lungo tutto il resto del corpo. Chiuse gli occhi e cercò di trovare un posto dentro di sé dove potersi sentire al riparo. Un posto che non esisteva.

    Attese che il dolore si attenuasse e decise di provare a percepire la stanza con gli altri quattro sensi. Il suo olfatto decifrò la presenza di un detergente, ma privo del profumo sintetico che spesso hanno i prodotti di quel tipo. Niente limone o fiori di prato, solo un odore di pulizia clinica, disinfettante.

    Dalla sua sinistra gli giungeva all’orecchio un bip ripetuto a intervalli di pochi secondi, probabilmente emesso da qualche apparecchio tecnico posizionato all’altezza della sua testa.

    Con una mano, afferrò piano la struttura in acciaio del letto e vi lasciò scorrere le dita, finché non incontrarono qualcosa che sembrava essere un filo. Lo prese e lo sollevò abbastanza per poterlo vedere.

    All’estremità c’era un cilindro di plastica con un bottone rosso. Lo premette e aspettò che succedesse qualcosa. Dopo pochi secondi, sentì il rumore di una porta che si apriva e dei passi che si avvicinavano. Una donna in camice bianco con i capelli raccolti in uno chignon basso, si chinò sul letto.

    «È sveglio, John? Mi sente?»

    Lui annuì impercettibilmente e ricevette in cambio un sorriso.

    «È all’ospedale Johns Hopkins di Baltimora» continuò la donna. «L’abbiamo operata per alcune ferite d’arma da fuoco al petto.»

    Mentre ascoltava l’infermiera, si rese conto del dolore da intervento chirurgico. Era diverso, meno esplosivo di quello che provava al collo, ma più fastidioso. Una sorta di secondo strato di sofferenza.

    La donna continuò ad aggiornarlo sulle sue condizioni: era arrivato al pronto soccorso ventiquattr’ore prima, incosciente, e aveva perso molto sangue, ma i chirurghi erano riusciti a fermare l’emorragia interna. I due proiettili gli avevano trapassato il corpo senza danneggiare organi vitali.

    «Acqua» riuscì a dire, colto di sorpresa da quanto debole fosse la sua voce.

    L’infermiera vestita di bianco prese dal tavolo un bicchiere con una cannuccia e lo aiutò a portarselo alle labbra. Aveva una gran sete e succhiò più acqua di quanta ne riuscisse a inghiottire. Tossì, e la donna dovette pulirgli il mento con un tovagliolo.

    «È difficile bere quando si è completamente distesi. Vuole che inclini il letto?»

    Lui annuì. L’infermiera premette un bottone sul muro e la testiera si alzò lentamente.

    E poté vedere la stanza. Accanto al letto, alla sua sinistra, c’era un’asta su rotelle con dei flaconi da endovena. Contò tre tubicini trasparenti che introducevano nel suo organismo una miscela di farmaci attraverso un foro nell’incavo del braccio. Il segnale acustico che aveva udito proveniva da uno strumento che controllava respirazione e ossigenazione del sangue.

    Le tende chiuse davanti alle due finestre erano sottili e lasciavano entrare più luce di quanto avrebbe gradito. Anche la porta del corridoio aveva un pannello di vetro, incassato in alto e abbastanza grande da fargli scorgere il poliziotto di guardia fuori.

    Girò la testa dalla parte opposta e notò un altro letto. A quanto pareva, non era l’unico paziente.

    Quando vide il viso, il dolore dietro la testa gli esplose di nuovo.

    Là, a pochi metri di distanza, c’era l’uomo che ventiquattr’ore prima gli aveva puntato una pistola alla nuca.

    2

    Karlstad, 2009

    Ancora la segreteria telefonica. Heimer sapeva che Sissela avrebbe visto che la stava chiamando, anche se era quasi mezzanotte. Teneva il cellulare praticamente incollato alla mano, e squillava a ogni ora del giorno. Quando un continente chiudeva la giornata di lavoro, un altro l’iniziava, e lei era sempre disponibile, come ogni buon comandante nei confronti della sua truppa.

    Ma quando lui – suo marito – cercava di contattarla, non rispondeva mai. Filtrava le chiamate, come si diceva nel gergo del business. A volte era tentato di farsi prestare un cellulare da qualcuno dello staff e chiamarla soltanto per vedere se avrebbe risposto.

    Heimer guardò fuori dall’enorme finestra panoramica e fu sorpreso di quanto l’acqua fosse scura. Emelie sarebbe tornata presto a Stoccolma e l’estate sarebbe ufficialmente terminata. Pensò a come aveva a malapena riconosciuto la figlia quando era andato a prenderla alla stazione la settimana prima di Midsummer, la festa tradizionale del terzo weekend di giugno. La trasformazione in una perfetta studentessa di Economia era avvenuta così in fretta che ora quasi non riusciva a ricordare che aspetto avesse prima.

    Sissela si era naturalmente dimostrata felicissima il giorno in cui Emelie aveva iniziato le lezioni l’autunno precedente: dimenticato il passato, l’erede dell’azienda di famiglia avrebbe studiato in uno dei migliori atenei di Svezia. Heimer non ne era stato del tutto convinto. Durante l’estate si era sforzato di ricomporre la loro relazione e riconquistare la fiducia di Emelie dopo quello che era successo. Ma lei si era rifiutata di dargli una possibilità.

    Chiamò di nuovo Sissela. Perché diavolo non rispondeva? Non capiva che, se le telefonava tre volte in un’ora, si trattava di qualcosa d’importante?

    Si sedette sull’isola della cucina e rifletté su che giornataccia aveva avuto. Era iniziata con una lite a colazione. Durante l’anno accademico, le notizie da Stoccolma erano state positive. Emelie aveva raccontato di aver superato gli esami e che andava d’accordo con i compagni di corso. Heimer aveva espresso alcuni dubbi alla moglie riguardo ai risultati degli esami: la figlia aveva ereditato la sua dislessia, e Heimer sapeva quanto fosse stato difficile per lui tenere il passo con le nozioni teoriche della facoltà di Architettura. Ma Sissela aveva respinto le sue obiezioni e gli aveva chiesto perché non avesse più fiducia nella sua unica figlia.

    Ieri i castelli in aria erano crollati. Un socio in affari di Sissela, amico del preside della facoltà di Economia, aveva lasciato intendere che in università Emelie era fonte di preoccupazione: aveva frequentato poco, e negli ultimi tempi non l’avevano quasi vista a lezione. Ovviamente Sissela aveva chiamato il preside e non aveva mollato finché il poveretto non le aveva parlato apertamente di sua figlia: dei sessanta crediti che avrebbe potuto ottenere nel corso di due semestri, era riuscita ad acquisirne soltanto ventiquattro, e agli ultimi due esami non si era nemmeno presentata.

    La colazione di quella mattina si era trasformata in un controinterrogatorio in cui Emelie era stata messa faccia a faccia con le sue bugie. Heimer aveva cercato di calmare la moglie, ma Sissela sembrava essersi dimenticata della situazione psicologica che aveva afflitto sua figlia negli ultimi anni e di quanto fossero stati vicini a perderla per sempre.

    La mattinata si era conclusa con Emelie che si era chiusa nella sua stanza e poi era uscita di casa con uno zaino. Subito dopo se n’era andata anche Sissela, abbandonandolo tra le macerie di quella che avrebbe dovuto essere una famiglia, lasciato solo a sistemare tutto, come al solito.

    Aveva trascorso la mattinata nella cantina dei vini, cercando di mettere ordine. Negli ultimi mesi era stato pigro con la compilazione dell’inventario, e l’assicurazione era valida soltanto se l’elenco delle bottiglie veniva tenuto aggiornato. La terapia aveva funzionato e, quando si era allacciato le scarpe da ginnastica per correre i dodici chilometri prescritti dal programma di fitness del venerdì, si sentiva meglio. Un miglioramento che però non era durato a lungo. Dopo la cena, che aveva cucinato e mangiato da solo, l’ultima illusione relativa alla nuova vita di sua figlia era andata in pezzi.

    Heimer era entrato nella stanza di Emelie. Non aveva intenzione di curiosare, voleva solo trascorrere un po’ di tempo lì. A volte lo faceva, da quando la figlia si era trasferita a Stoccolma, per ricordare che una volta erano stati loro due contro il mondo.

    Con un gesto improvviso aveva aperto il primo cassetto della scrivania: era rimasto socchiuso, e il suo impulso era stato di chiuderlo bene – o almeno così disse poi a se stesso. Invece lo aveva aperto ed era stato subito attratto da una pila di vecchi fogli di appunti, che sembrava sistemata in modo sospetto. Aveva sollevato le carte e trovato un sacchetto di polvere bianca.

    Ne era rimasta un po’ sul fondo; ci passò sopra un dito per raccoglierne una parte, premendoselo poi sul labbro superiore e riconoscendo immediatamente il sapore chimico e amaro della cocaina.

    Da quel momento, aveva provato a chiamare la figlia almeno otto volte, senza successo. Nel profondo di sé se lo sentiva già da tempo, ma aveva girato la testa dall’altra parte. La nuova Emelie era troppo perfetta. Ogni volta, i terapeuti avevano ricordato a lui e Sissela che il recupero da una malattia psichiatrica è lungo e spesso costellato di avversità. Ma per sua figlia, il soggiorno a Björkbacken era sembrato miracoloso. Una ragazza di diciannove anni, con un pessimo atteggiamento e un’inclinazione alla droga, era entrata da una porta e ne era uscita da un’altra, nei panni di una giovane donna che si era iscritta alla facoltà di Economia e desiderava mettersi in gioco nell’azienda di famiglia. Ed erano bastati appena sei mesi.

    Heimer lasciò la cucina e iniziò a vagare senza meta per la casa. Le suole delle scarpe di cuoio scricchiolavano sul parquet di legno chiaro facendolo sentire come l’unico ospite di una festa a cui non aveva partecipato nessuno: vestito in modo esagerato con camicia e giacca quando avrebbe potuto benissimo girare in pantofole e vestaglia. Era completamente solo.

    Indossò un paio di pantaloni di cotone beige e la polo nera che aveva comprato a Milano: aderiva alla perfezione al suo torace tonico e scolpito grazie alle ore passate a correre. Non c’erano molti uomini di quarantotto anni in forma come lui. Certo, l’attaccatura dei capelli si era ritirata e la pelle intorno agli occhi si era increspata di piccole rughe. Ma il suo viso gli piaceva: stava invecchiando bene.

    A volte, quando lui e Sissela partecipavano a qualche vernissage a Stoccolma, comprava di nascosto le riviste di gossip: godeva nel vedersi fotografato, e gli piaceva paragonare se stesso e Sissela ad altre coppie della stessa età. I Bjurwall erano una coppia difficile da battere, quanto a status sociale e buon gusto.

    Tornò in cucina e si fece un panino, ma riuscì a mangiarne soltanto metà. I suoi pensieri tornarono a Emelie e a dove poteva trovarsi in quel momento. Quella mattina era uscita di casa furiosa, e Heimer voleva riuscire a parlarle serenamente, ora che il grosso della rabbia era scemato.

    Tornò nella stanza della figlia e si sedette sul letto. Lo colpì quanto poco la nuova Emelie somigliasse alla vecchia. Camicette bianche e maglioni di cachemire erano riposti su grucce accanto a felpe nere e T-shirt di gruppi musicali. Una borsa di Burberry era posata sul pavimento accanto a una cassetta gialla di dischi in vinile. E poi il contrasto più netto di tutti: il MacBook di moda in una custodia di pelle accanto a un PC fisso con tre monitor e cuffie degne di un pilota di caccia.

    La foto sopra la scrivania ricordava un’altra epoca: il gruppo delle Striker Chicks alla prima gara a cui avevano partecipato, al festival d’informatica Dreamhack di Jönköping. Emelie era a destra, più alta delle altre ragazze della squadra di tutta la testa. All’epoca aveva i capelli biondi tinti di scuro e un taglio corto alla paggetta. Il trucco pesante le conferiva un aspetto da dura, con i due piercing sul labbro superiore che avevano sconvolto Sissela.

    Heimer distolse lo sguardo dalla foto. Voleva uscire di nuovo a correre. Voleva drenare tutta l’energia dal suo corpo e sentire il sapore del sangue in bocca. Voleva dimenticare che uomo senza palle era stato, anche se solo per un breve periodo.

    Poi sentì aprire la porta al piano di sotto, il tonfo sordo di una borsa che cadeva sul pavimento piastrellato e il tintinnio delle grucce che oscillavano l’una contro l’altra sull’attaccapanni. Infine passi stanchi sulle scale.

    «Mi verseresti un bicchiere d’acqua, tesoro?»

    Heimer andò in cucina e vide Sissela togliersi i tacchi alti e sprofondare nel divano del soggiorno adiacente. Parlava biascicando leggermente, ma gli bastò per capire che era ubriaca.

    «Certo» disse, sforzandosi di non mostrare quant’era irritato per l’irreperibilità della moglie durante tutta la sera. Emelie aveva bisogno del loro sostegno, quindi sarebbe stato stupido attaccare con un’altra litigata.

    Premette un bicchiere contro il dispenser sulla porta del frigorifero. Mentre versava l’acqua fredda e frizzante, osservò sua moglie sul divano: i capelli biondo platino con la ciocca ostinata che rifiutava di restare a posto dietro l’orecchio; il naso dalla forma aristocratica che – Heimer lo sapeva bene – la rendeva orgogliosa; e il mento, che in quei giorni si accarezzava di continuo. Il chirurgo nell’ultimo intervento aveva teso troppo la pelle, dandole un aspetto non del tutto naturale per una donna sopra i quarant’anni, come diceva spesso lei lamentandosi. Heimer evitava di commentare, ma pensava tra sé che era proprio quello il problema della chirurgia plastica: se Sissela avesse voluto sembrare naturale, avrebbe dovuto tenere il mento com’era prima.

    Posò il bicchiere d’acqua su un sottobicchiere decorato con una stampa di Josef Frank, per proteggere il tavolino.

    «Grazie» disse Sissela, bevendone metà in un sorso. «Scusa, sono in ritardo. Il meeting è durato un’eternità e mi ero completamente dimenticata che alla fine ci sarebbe stata una degustazione. Sono riuscita a portarti qualche bottiglia. Il nuovo ragazzo nel consiglio d’amministrazione è comproprietario di un vigneto in Sudafrica, e quando gli ho parlato della tua passione per il vino, ha insistito per fartene avere una cassa.»

    «Salutalo e ringrazialo da parte mia» disse Heimer, sedendosi sulla poltrona Lamino.

    Odiava quando sua moglie si comportava così. Cosa le aveva fatto pensare che le bottiglie di quel furbastro sarebbero state degne di trovare posto nella sua cantina? Possibile che non capisse la cura con cui metteva insieme la sua collezione? Il poco spazio rimasto era stato promesso a dei Bordeaux che sperava di acquistare a un’asta da Sotheby’s in autunno.

    «Hai sentito Emelie stasera?» chiese.

    «No» rispose Sissela. «Non è in casa?»

    Scosse la testa, mentre sua moglie sollevava una gamba sul divano e iniziava a massaggiarsi il piede. Heimer cercò di ricordare quando aveva smesso di chiedergli di farlo lui, dopo le lunghe giornate al lavoro con le scarpe scomode.

    «Non sta bene» disse, alzandosi.

    Con un cenno, le chiese di seguirlo e insieme entrarono nella stanza della figlia. Heimer aprì il cassetto e indicò il sacchetto con ciò che restava della cocaina.

    «È quello che penso?» domandò Sissela.

    Lui annuì.

    «Mi sento presa in giro» aggiunse dopo una pausa di silenzio. «Prima tutte le sue bugie sull’università, e ora questo. Aveva promesso di smettere.»

    «Siamo stati ingenui, avremmo dovuto renderci conto che non sarebbe stato così facile.»

    «Vuoi dire che sono stata io l’ingenua. Tu non hai mai creduto che fosse migliorata.»

    Questo era esattamente ciò che Heimer intendeva, ma era contento che Sissela fosse arrivata alla conclusione da sola, senza che toccasse a lui condurvela.

    «Non risponde al cellulare» disse. «Vado a cercarla.»

    «Sei sicuro che abbia senso?» chiese Sissela. «Probabilmente tornerà presto e, quando lo farà, voglio che siamo entrambi a casa. Emelie ascolta più te di me.»

    Sbagliato, pensò. Era vero che lo ascoltava di più, ma questo succedeva prima di Björkbacken.

    Come al solito, lasciò decidere a Sissela, e bevvero una camomilla, che secondo lei calmava i nervi. Passata l’una, con la figlia che non dava notizie, Sissela andò a sdraiarsi in camera da letto, mentre Heimer si rannicchiò sul divano e si tirò addosso una coperta. Se Emelie avesse cercato di passare di soppiatto, si sarebbe svegliato. Promise a se stesso che avrebbe provato a parlarle seriamente. Da qualche parte dentro di lei c’era la vecchia Emelie, quella che riponeva la sua fiducia in lui, e questa volta non aveva intenzione di tradirla.

    3

    Baltimora, 2019

    Lo spazio prima occupato dall’uomo adesso era vuoto. Il letto era sparito e gli strumenti collegati al suo corpo erano stati spenti e posati su un carrello vicino alla parete.

    Non appena quel volto gli aveva ricordato il motivo per cui si trovava in ospedale, John aveva perso di nuovo conoscenza e, quando si era svegliato, fuori era buio. Il giorno si era trasformato in sera, o addirittura in notte. Non lo sapeva. Non c’era un orologio nella stanza.

    L’infermiera entrò di nuovo e si fermò accanto al letto con aria ansiosa. Disse che lo svenimento non faceva parte del quadro clinico dei traumi da arma da fuoco al torace e voleva chiamare un medico. John protestò. La testa non gli faceva più male e il dolore al petto era stato attenuato dalla morfina. Dopo qualche esitazione, la donna rinunciò.

    «Cos’è successo all’uomo che era accanto a me?» domandò John.

    «È tornato in sala operatoria. C’è stata qualche complicazione, e il chirurgo ha voluto dare un’altra occhiata» rispose, prima di zittirsi di colpo.

    Forse aveva rivelato troppo sull’altro paziente. La privacy negli ospedali era molto rigida. John si chiese quanto l’infermiera sapesse veramente degli uomini di cui si prendeva cura. Era improbabile che un poliziotto di guardia fuori dalla camera fosse normale al Johns Hopkins.

    Dopo avergli fatto promettere di suonare il campanello se si fosse sentito ancora sul punto di svenire, la donna gli augurò la buonanotte. John aspettò che fosse uscita dalla stanza, quindi chiuse gli occhi. I ricordi frammentati del porto di Baltimora avevano improvvisamente trovato un senso davanti alla faccia del suo vicino di letto. Nonostante le vigorose proteste del suo corpo e il pulsare nella nuca, John si costrinse a tornare in quel container, dove aveva avuto la certezza che la sua vita sarebbe finita.

    C’era Abaeze, insieme agli altri volti familiari. E Ganiru, ovviamente. Sempre Ganiru. Era stato lui a convocare la riunione e li guidò attraverso il labirinto di container fino all’estremità settentrionale del porto. Dopodiché si fermò davanti a uno e tolse la sbarra che teneva chiuse le pesanti porte.

    Fece un cenno ad Abaeze, che era il più vicino, per indicargli di entrare. John e gli altri lo seguirono. Si sistemarono lungo le pareti e guardarono mentre Ganiru cercava di chiudere le porte dietro di sé. Il sistema di blocco fece resistenza ma, dopo una vigorosa spinta con il fianco, i lucchetti scivolarono nella posizione corretta, impedendo l’ingresso di quel poco chiarore che filtrava ancora grazie al sole primaverile.

    Un istante dopo sul soffitto del container si accese una debole luce. John guardò in alto e vide una lampada da operaio di cantiere appesa a un gancio. Ganiru fece qualche passo in avanti e afferrò la fonte di luce, la sganciò e la tenne davanti a sé, all’altezza del petto. Il bagliore bianco e freddo gli illuminava il volto dal basso, facendolo sembrare un fantasma dai tratti malvagi.

    «Sedetevi.»

    John lanciò un’occhiata agli altri. Era fastidioso accomodarsi su quel pavimento sporco.

    «Sedetevi» ripeté Ganiru.

    Questa volta gli uomini obbedirono e si appoggiarono alle pareti di lamiera ondulata. John sentì il freddo metallo fargli venire i brividi attraverso la camicia.

    «Di cosa si tratta?» chiese Abaeze.

    Se fosse stato lui a rivolgere quella domanda a Ganiru, avrebbe ricevuto per risposta un paio di ceffoni. Ma con Abaeze era diverso. Era lì da più tempo e nel gruppo aveva un altro ruolo.

    «Non avrei mai pensato di dover affrontare questo argomento, ma uno di voi ha fatto la spia.»

    John era grato che il suo viso fosse coperto dall’oscurità e non potesse rivelare nulla mentre Ganiru parlava. Le gigantesche mani del boss che gli stringevano la gola avevano popolato un bel po’ dei suoi incubi: i pollici che premevano appena sotto il pomo d’Adamo e schiacciavano fino a quando non fosse più riuscito a respirare.

    «Ne sei proprio sicuro?» chiese Abaeze, questa volta a voce più bassa.

    «Al cento per cento, cazzo. Abbiamo avuto problemi con delle consegne bloccate dalla DEA, quindi vi ho fatto dare comunicazione di una falsa spedizione per via aerea. E indovinate quali casse hanno aperto i maiali?»

    Ganiru fece girare la lampada come una torcia sui suoi uomini. Il raggio si spostò di faccia in faccia, indugiando per alcuni secondi addosso a ognuno.

    «Se qualcuno sa qualcosa, è il momento di dirlo» sibilò.

    Quando gli occhi scuri del boss passarono oltre, John cercò di portarsi una mano sulla fronte per asciugarsi il sudore, ma il corpo non gli obbedì. I segnali dal cervello non arrivavano: da qualche parte dentro di lui, il sistema nervoso era collassato.

    Di nuovo Ganiru. Il ruggito echeggiò all’interno del container.

    «Voglio una cazzo di risposta!»

    Quando nessuno disse niente, estrasse la pistola dalla fondina sotto la giacca, la mise sul pavimento davanti a sé e le diede un calcio per farla ruotare sul proprio asse. John seguì con gli occhi la canna che girava: appena arrivò all’ultimo giro, se la vide brutta. Alla fine la pistola decise di fermarsi di fronte a uno degli altri uomini.

    Ganiru raccolse l’arma, la rimise nella fondina e appese la lampada al gancio sul soffitto. Poi sollevò da terra l’uomo che aveva perso a quella roulette e lo trascinò verso le porte. Con la mano libera, aprì il container e spinse così forte che l’uomo cadde sull’asfalto all’esterno.

    Poi si voltò verso le facce rimaste dentro. Adesso sembrava più calmo, e fece un mezzo sorriso, come se il gioco con la pistola fosse stato solo uno scherzo.

    «Sparerò a uno di voi ogni dieci minuti finché non scopro chi ha parlato» disse, uscendo.

    Le orecchie di John si riempirono di un boato quando le pesanti porte si richiusero e la luce fu ridotta al bagliore bianco della lampada. Un secondo dopo, fuori dal container si udirono due colpi in rapida successione.

    Ne seguì un silenzio pesante, denso, come se tutti gli uomini tra quelle quattro pareti d’acciaio stessero trattenendo il respiro e nessuno volesse essere il primo a espirare. Alla fine, l’assenza di parole fu così opprimente che l’uomo più vicino alla porta aprì la bocca.

    «State calmi, nessuno si è fatto niente» disse. «I proiettili sono finiti nel terreno. Non credo a un cazzo di quella spedizione sequestrata. Nessuno qui è tanto stupido da parlare, giusto? Ganiru è sempre stato paranoico e vuole solo metterci alla prova.»

    John era quasi disposto a credere a quel tono rassicurante, affidabile. Presto tutto sarebbe finito e ne avrebbero riso insieme. Il boss avrebbe comprato da bere in quel locale miserabile vicino a Patterson Park gestito da suo cugino.

    John provò a chiedere di nuovo al suo cervello di sollevare il braccio destro, ma il sistema nervoso rimase in sciopero.

    «Cosa ne pensi, Abaeze? Tu che lo conosci» disse una voce più lontana nella semioscurità.

    Abaeze sembrava profondamente concentrato e si limitò ad alzare le spalle, come se non gli importasse altro che dei suoi pensieri.

    Poi il meccanismo di blocco vibrò ancora e apparve una sottile lama di luce, che si allargò appena la porta fu aperta a metà. Qualcosa venne spinto nel container e la luce scomparve di nuovo. La voce di Ganiru era appena udibile attraverso la parete d’acciaio.

    «Ancora cinque minuti.»

    John vide molti degli uomini balzare in piedi e formare un semicerchio intorno al corpo sul pavimento. Qualcuno lo scosse per avere una reazione, prima con cautela, poi più bruscamente. Ma la faccia di quel corpo cadde di lato e un occhio fissò John attraverso un paio di gambe. L’altro occhio non c’era più, perforato da un proiettile.

    L’uomo che aveva appena cercato di calmare gli altri si ritrasse incespicando verso l’angolo più lontano del container e vomitò in una serie di rumorosi conati. L’odore rancido della bile e delle fajitas semidigerite si diffuse rapidamente nello spazio angusto.

    Molti iniziarono a urlare e a incolparsi a vicenda di una cosa o dell’altra. John rimase incollato al pavimento e cercò di mettere ordine nei suoi pensieri, che continuavano a cambiare direzione rendendo impossibile collegarli in una sequenza comprensibile.

    Abaeze era in piedi al centro del container e tentava di separare due uomini che avevano cominciato a prendersi a pugni.

    «Se non manteniamo la calma, moriremo tutti» gridò.

    I due smisero di combattere borbottando, ma forse rendendosi conto che l’unica persona in grado di fermare Ganiru era proprio Abaeze.

    «Quando rientra, dirò chi ha spifferato. Non mi perdonerò mai di non essere riuscito a fare due più due prima che uno di noi fosse ammazzato» aggiunse, tornando a sedersi.

    Anche gli altri uomini crollarono a terra. Nel container seguì un silenzio teso: gli uomini spaventati allineati lungo le pareti evitavano lo sguardo l’uno dell’altro. Alla fine, qualcuno osò fare la domanda.

    «Chi è stato?»

    Abaeze scosse la testa.

    «Quando arriva Ganiru.»

    John si chiese quanto del caos che gli ronzava in testa fosse visibile all’esterno. Il suo respiro era talmente veloce che pareva l’ansimare di un bambino con la febbre. Ma nessuno gli prestava attenzione. Erano tutti concentrati su loro stessi, calcolavano, riflettevano. Chiunque Abaeze avesse indicato, sarebbe stata la sua parola contro la loro. A chi avrebbe creduto Ganiru?

    Le porte del container si aprirono di nuovo, e il carnefice scavalcò con indifferenza il cadavere sul pavimento, prima di notare che tutti gli occhi erano rivolti verso Abaeze.

    «C’è qualcosa che volete dirmi?» chiese.

    Abaeze non esitò. La sua voce era potente e piena di disprezzo.

    «È lui che ha parlato» esclamò, indicando con un dito.

    John vide il dito puntato contro di sé e immediatamente si sentì addosso gli sguardi di tutti quegli uomini, carica non solo di odio, ma anche di una certa dose di sollievo. Se lui perdeva, loro vincevano, e il primo premio consisteva nell’onore di svegliarsi l’indomani mattina.

    Ma come poteva saperlo Abaeze? Ammesso che davvero sapesse. Magari aveva semplicemente scelto a caso, per evitare di essere accusato lui stesso. John era l’ultimo arrivato, e tanto bastava a renderlo una perfetta vittima sacrificale.

    «Sei sicuro?» domandò Ganiru.

    «Sì. Una volta ha lasciato il telefono in macchina mentre andava a pisciare. C’era un mucchio di messaggi sospetti. Allora non avevo capito, ma ora so di cosa si trattava» disse, sputando verso il traditore.

    John fissò la goccia di saliva a un paio di centimetri dai suoi piedi. Sentì montare la nausea, ma riuscì a reprimerla. Ganiru avrebbe abboccato? Avrebbe davvero pensato che gli infiltrati comunicassero con i loro referenti in quel modo?

    A quanto pareva, sì. Vide Ganiru puntargli l’arma contro.

    «Mi hai spezzato il cuore, quel poco che rimane.»

    John avrebbe voluto difendersi, raccontare a quello psicopatico così tante bugie e stronzate che da quel momento in poi non avrebbe più osato fidarsi di nessuno. Ma aveva la lingua paralizzata quanto il resto del corpo. Non riusciva a spiccicare parola.

    «Lascia che lo faccia io» disse Abaeze. «Stanotte dormirò meglio se sistemerò questo bastardo una volta per tutte.»

    Ganiru annuì in segno di apprezzamento.

    «Certo, è tuo.»

    Abaeze tirò John su da terra. Che modo umiliante di morire. Era stato addestrato a sopportare la pressione, invece ora si stava lasciando massacrare come un animale, passivo. Ganiru tenne le porte aperte, in modo che Abaeze potesse trascinarlo fuori. Se non altro, era un sollievo non dover morire nel container. Almeno l’ultimo respiro sarebbe stato di aria fresca.

    «In ginocchio» gli ordinò Abaeze.

    John venne spinto a terra. Allungò le mani così da cadere a quattro zampe, con la schiena rivolta verso Abaeze. Era grato che il resto degli uomini fosse rimasto dentro: la morte è una faccenda privata e non voleva condividere con loro i suoi ultimi momenti.

    Si voltò, vide Ganiru che consegnava la pistola e udì il suono metallico quando Abaeze tolse la sicura. Sentì la canna premere contro la nuca e il viso costretto a terra. Seguì con lo sguardo una crepa nell’asfalto finché non scomparve sotto un altro container.

    Era la fine, il capitolo conclusivo, ne era convinto.

    Il film nella sua mente si interruppe appena udì qualcuno abbassare la maniglia della porta. Aprì gli occhi e vide il poliziotto in corridoio che aiutava l’infermiera a spingere un letto oltre la porta. Doveva essere Abaeze di ritorno dalla sala operatoria. John cercò immediatamente segni di movimento, ma l’uomo sembrava privo di sensi.

    L’infermiera mise il letto accanto a quello di John e collegò l’attrezzatura per monitorare il paziente. Poi il suo cercapersone suonò, e lasciò John da solo con Abaeze addormentato.

    John studiò il corpo pesante, a malapena contenuto nel letto. Doveva essere alto circa due metri e pesare ben più di cento chili. La carnagione era così nera da sembrare quasi blu, il naso era largo e le rughe sulle guance più profonde di quanto John avesse notato in precedenza. Le robuste braccia, appoggiate sopra il lenzuolo, non erano affatto toniche da allenamenti in palestra: la loro forza era avvolta in uno strato di grasso, ma non per questo risultavano meno impressionanti. John capiva perché fosse tanto utile a Ganiru. La gente disperata spesso trovava riserve inaspettate per pagare i debiti quando Abaeze si presentava al tavolo della trattativa.

    John sussultò sentendo uscire dalla bocca semichiusa prima un colpo di tosse, poi molti altri: l’uomo stava chiaramente riprendendo conoscenza.

    Valutò se suonare il campanello, ma si fermò nell’istante in cui Abaeze aprì gli occhi e girò la testa verso di lui. Ci vollero alcuni secondi prima che quel gigante capisse chi stava guardando. Poi sorrise debolmente e disse: «Quindi sei vivo, eh?».

    John ricambiò il sorriso.

    «Sì, ​​e sappiamo entrambi chi devo ringraziare.»

    4

    Karlstad, 2009

    Dopo un sorso della spremuta appena fatta, Heimer pensò che le arance non erano di buona qualità. In negozio avevano iniziato a proporne una nuova varietà, meno dolce di quella di prima. Risciacquò lo spremiagrumi, versò due bicchieri di spremuta e ne porse uno a sua moglie, seduta all’isola della cucina. Di solito facevano colazione lì, l’unica stanza rivolta a est, da cui nelle giornate limpide potevano vedere il sole sorgere dietro le cime degli alberi.

    La finestra era stata aggiunta all’ultimo e Heimer era contento di aver insistito. La posizione del lotto di terreno sul lago Vänern rendeva naturale che ogni stanza s’ispirasse all’acqua. Ma il Värmland non era solo una regione di laghi, ma anche di foreste. Heimer era soddisfatto di quell’espressione, che aveva usato per convincere gli architetti a modificare ancora una volta il progetto. In cambio, aveva promesso che sarebbe stata l’ultima richiesta che avrebbe coinvolto le tubazioni o i muri portanti, promessa che aveva infranto dopo un solo giorno, quando si era svegliato con una nuova visione della camera da letto padronale e del bagno adiacente.

    Non si era mai sentito tanto bene come nel periodo in cui avevano costruito la casa, e per una volta Sissela si era tenuta alla larga. Heimer aveva studiato architettura, e lei lo aveva rispettato. Sebbene non lavorasse da molti anni, la sua competenza era intatta.

    Heimer guardò la moglie mentre si portava il bicchiere di spremuta alle labbra. Aveva le mani di una persona non più giovane, l’unica parte del corpo a cui nessuna costosa e miracolosa crema o chirurgia plastica poteva regalare la giovinezza. Se volevi conoscere l’età di una donna, bastava studiarne le mani, con un risultato certo quanto la datazione al carbonio quattordici.

    Poi Heimer pensò di nuovo a Emelie.

    Riusciva a concentrarsi su altro soltanto per pochi istanti, prima di tornare da lei. Era come se qualcuno avesse stretto la sua cassa toracica in una morsa e stesse lentamente girando la vite per aumentare la pressione. Desiderava spasmodicamente uscire all’aperto, correre sul sentiero. Voleva correre così veloce e così lontano da sentire il sapore del sangue, e anestetizzare il cervello attraverso un allenamento fisico intenso.

    «Sono le dieci e mezzo» disse Sissela. «Dobbiamo fare qualcosa.»

    La sua voce era tranquilla, ma decisa.

    «Questa spremuta» disse lui, «non ha qualcosa di strano?»

    «Heimer, sono preoccupata. La cocaina nella sua stanza…»

    «Probabilmente si farà viva presto» la interruppe il marito.

    «Ho paura che possa essersi fatta ancora del male. Potrebbe essere con Magnus, hanno passato un sacco di tempo insieme quest’estate. Chiamo Hugo.»

    Heimer guardò la moglie scomparire nella biblioteca con il cellulare. Hugo Aglin era il direttore finanziario della AckWe e uno dei pochi colleghi di Sissela con cui ogni tanto anche lui s’intratteneva. Aveva una casa poco distante dalla loro e in un paio di occasioni aveva chiesto un consiglio che Heimer era stato felice di fornirgli. Era raro che qualcuno dell’azienda lo ritenesse in grado di fare qualcosa di diverso dallo spendere i soldi della moglie. La maggior parte di loro lo trattava allo stesso modo di Sissela, sforzandosi di dimostrare entusiasmo per i suoi eccentrici interessi e considerandolo come il bambino a cui rivolgere applausi incoraggianti finché non si può chiudere la porta per parlare di faccende da adulti. Hugo era l’unico a cui Heimer aveva mostrato la sua cantina. Il resto di quella gente non era in grado di distinguere un Barolo riserva dal succo di ribes nero, e quindi non valeva proprio la pena di portarli là sotto.

    Non era difficile capire perché Sissela fosse felice che Emelie avesse iniziato a trascorrere più tempo con il figlio di Hugo. Era, sotto ogni punto di vista, una compagnia più adatta rispetto a quelle Striker Chicks che si abbracciavano nella foto che la figlia teneva in camera sua. Quando Emelie era fuori portata d’orecchio, sua madre si riferiva a loro con disprezzo chiamandole quelle nerd.

    Heimer non sapeva cosa pensare di Magnus Aglin. I suoi capelli unti pettinati all’indietro confermavano innegabilmente che a Tynäs si addiceva l’epiteto di Hämptons di Svezia.

    Sissela si era infastidita quando l’editorialista del giornale locale – Nya Wermlands-Tidningen – aveva messo due puntini sopra la A nel nome del buen retiro dei ricchi americani, ridicolizzando a suo avviso il luogo in cui vivevano. Heimer, invece, pensava che il giornalista avesse colto nel segno. Dopotutto, il piccolo promontorio con le acque del lago Vänern su entrambi i lati, ospitava nientemeno che i proprietari del giornale.

    L’altro residente di spicco di Tynäs era il direttore di un’orchestra da ballo che aveva venduto milioni di dischi. Heimer era divertito di aver comprato il terreno accanto al suo e costruito una casa che faceva sembrare quella del musicista, in precedenza decisamente imponente, come un semplice cottage estivo. L’uomo non aveva mai sollevato questioni, ma all’epoca della costruzione, quando si erano salutati al supermercato, c’era stata tensione in quel tono baritonale altrimenti vellutato.

    La colonna sul NWT era stata intitolata Mondi diversi e descriveva non solo Tynäs, l’angolo agiato del comune di Hammarö fuori Karlstad, ma anche l’area intorno a Skoghall, il cui profilo socioeconomico era ben diverso e gli abitanti dovevano sopportare l’odore di solfito proveniente dalla fabbrica di carta.

    Tynäs e Skoghall non erano distanti, meno di dieci chilometri, però dopo aver vissuto per molti anni lì a Hammarö, Heimer sapeva che la distanza tra i due luoghi era in realtà ben maggiore, quasi fossero due pianeti appartenenti a sistemi solari diversi.

    Riordinò i resti della colazione e finì giusto prima che la moglie tornasse dalla biblioteca.

    «Magnus stava ancora dormendo, ma Hugo ha promesso di parlargli non appena si sveglia. I ragazzi, a quanto pare, ieri hanno fatto una festa in casa ed è possibile che Emelie fosse lì. Secondo lui, non c’è di che preoccuparsi.»

    Sissela sembrava più calma ora, più nei panni dell’amministratore delegato e meno in quelli della madre in ansia. Heimer decise che era il momento di lasciarla un po’ da sola. Aveva bisogno di andare a correre; il suo corpo e la sua mente ne avevano bisogno.

    Quindici minuti dopo uscì per il suo solito percorso. Controllò che il GPS e il cardiofrequenzimetro del suo nuovo orologio da polso Garmin fossero attivati, quindi infilò gli auricolari e accese il lettore MP3. Oggi avrebbe seguito un tragitto più breve, il che significava che avrebbe dovuto mantenere un ritmo di tre minuti e quaranta per chilometro.

    Il primo lungo tratto di salita si trovava dopo appena ottocento metri, e fungeva da spartiacque: nelle belle giornate a Heimer piaceva sentire la forza delle gambe che volavano sul terreno, spingendolo su per la collina, mentre in altri giorni, al termine della salita, sentiva l’acido lattico. In quei casi sapeva che sarebbe stato un circuito difficile.

    Guardò l’orologio, da cui capì che il primo chilometro era stato veloce. Il suo corpo stava rispondendo bene, nonostante i pensieri su Emelie. O, forse, proprio per questo. La preoccupazione lo spronava in avanti lungo il sentiero, costringendolo a tormentarsi, ad arrivare il più vicino possibile al punto di rottura. Era l’unico modo in cui poteva mettere a tacere i pensieri.

    Una volta conquistata la collina, l’ampio sentiero svoltava a sinistra e proseguiva lungo l’acqua. Questa era la parte preferita da Emelie, a suo dire per la vista del lago Vänern sottostante. A lui piaceva prenderla in giro e dire che dipendeva di più dal fatto che fosse un tratto pianeggiante, dove poteva riprendersi dopo la salita.

    Adorava le loro conversazioni durante la corsa. All’inizio aveva dovuto costringerla a uscire con lui, e ogni chilometro di corsa veniva barattato con venti minuti al computer. Emelie aveva accettato l’accordo in cambio della promessa di guardarla per un po’ ogni giorno mentre giocava.

    E questo gli aveva aperto gli occhi. Non aveva la più pallida idea di cosa fosse Counter-Strike prima che Emelie lo introducesse ai segreti del gioco. La premessa era semplice: due squadre da cinque, una impersonava i terroristi, l’altra gli antiterroristi. Il tutto si giocava online e a un ritmo che inizialmente gli aveva dato il mal di testa, ma poi lo aveva affascinato. Si rese presto conto che Emelie e le sue compagne Striker Chicks avevano talento e si erano guadagnate la loro reputazione sui siti di e-sport.

    «Cosa pensi che direbbe mamma se fossi brava a tennis come a Counter-Strike?» aveva chiesto Emelie la prima volta che era riuscita a fare due giri interi con lui e si era guadagnata quasi cinque ore di gioco.

    Quelle parole lo avevano colpito. Sapeva esattamente cosa avrebbe fatto Sissela: avrebbe detto a tutto il mondo che sua figlia era una stella nascente e che sarebbe volata in America per essere seguita da un coach privato.

    Da quel momento, Heimer aveva deciso di rivalutare i videogame. Sua figlia aveva trovato un’attività che le piaceva, e il suo compito era sostenerla. Dopo la doccia, le aveva chiesto di chiamare le amiche Striker Chicks e invitarle a casa. Poi le aveva accompagnate al negozio di elettronica e aveva detto loro di riempire la macchina con tutto il necessario per migliorare il loro livello di gioco. Avrebbe pagato lui.

    Che sguardo gli aveva lanciato Emelie quando aveva chiuso il baule pieno di una montagna di prodotti elettronici! Heimer aveva custodito quello sguardo come il suo bene più caro. Ma apparteneva al passato. Quell’estate Emelie non era uscita a correre con lui nemmeno una volta.

    Il suo orologio suonò di nuovo e attirò l’attenzione sul tempo a chilometro. Tre minuti e cinquantotto secondi. Non un granché. Il pensiero di Emelie gli aveva fatto perdere il ritmo. Si costrinse ad aumentare.

    Quando tornò dopo la corsa, Heimer vide che Sissela aveva una visita. Hugo Aglin era in piedi accanto a lei vicino all’isola della cucina e indicava un laptop. Forse era solo la luce dello schermo, ma gli parve che il viso di sua moglie fosse insolitamente pallido.

    «Scusa se non ti saluto come dovrei, Hugo, ma sto grondando di sudore» disse Heimer, tenendo le braccia in aria per mostrare le mani umide.

    «Devi vedere questo» disse Sissela, le labbra così contratte che la sua voce assunse un tono sibilante.

    «È una foto sulla pagina Facebook di Emelie» spiegò Hugo. «Magnus me l’ha mostrata quando gli ho chiesto se sapeva dove fosse.»

    Heimer aveva solo una vaga comprensione di che cosa fosse Facebook. Aveva sentito Emelie parlarne e aveva capito che era una specie di bacheca online tra amici. Si avvicinò all’isola e notò che i suoi calzini lasciavano impronte di sudore sul parquet.

    Hugo girò lo schermo verso di lui in modo che potesse vedere l’immagine. Mostrava l’avambraccio di Emelie, con lo strano tatuaggio di cui non voleva mai parlare: tre riquadri, di cui due avevano un segno di spunta a forma di V.

    Heimer lo aveva visto per caso poco dopo che sua figlia era tornata da Björkbacken e aveva cercato di convincerla a spiegargliene il significato. Emelie era stata riluttante, ma alla fine aveva detto che era una lista dei desideri, tre cose che si era ripromessa di fare prima di morire. Quando le aveva chiesto quali fossero, lei aveva semplicemente scosso la testa e aveva risposto che non l’avrebbe rivelato a nessuno.

    «Guarda» disse Sissela, indicando il terzo riquadro, che prima era vuoto. «Si è tagliata qui. Ha inciso l’ultimo segno di spunta direttamente sulla pelle.»

    5

    Baltimora, 2019

    John si rese conto che non conosceva il nome dell’uomo che gli aveva salvato la vita. Per lui, si chiamava solo Abaeze ed era il braccio destro di Ganiru e l’obbediente fante nel cartello della droga nigeriano di Baltimora. Invece, la verità era diversa. Lo aveva capito lì al porto, pochi secondi dopo che la pistola aveva sparato: aspettava che il proiettile gli perforasse il cranio, portandosi via la sua vita, invece lo scoppio gli aveva lasciato soltanto un forte ronzio nelle orecchie. Quando si accorse che non cessava, capì che per qualche incomprensibile motivo ce l’aveva fatta… che era ancora vivo.

    Un momento dopo, John vide Ganiru sdraiato sull’asfalto che si

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