Il Tempo magico
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About this ebook
Ma questo lavoro, mal retribuito e ripetitivo, non lo soddisfa completamente. Il suo sogno è quello di diventare uno stimato scrittore. Inizia a scrivere racconti, che però nessuna casa editrice prende in seria considerazione, nemmeno la più scadente. Così, in un ambiente per molti versi ostile, tra incontri sbagliati e la perdita dei pochi amici, Leonardo si abbandona a un modello di vita apatico, in cui smarrisce ogni volontà di riscatto, vagando senza una meta precisa nella notte.
Nel misterioso mondo notturno incrocia strani personaggi, che lo portano a riflettere sulla sua particolare condizione, indicandogli una possibilità di redenzione, che infine arriva con la figura sfuggente di una donna. La ragazza, sfortunata, insicura, dalla discutibile doppia vita, riesce tuttavia a trarlo in salvo dalla sua stupida esistenza e dalla sua solitudine, con degli sviluppi del tutto imprevedibili.
Giuseppe Lucio Fragnoli è nato a Castelforte (LT) il 12 dicembre 1956. Laureato in Architettura, è docente e scrittore, blogger e storico dell’arte. Insegna Disegno e Storia dell’arte al Liceo Scientifico Statale L.B. Alberti di Minturno (LT). Ha pubblicato i romanzi: La festa dei cani (1999), Quell’impicciatissima vicenda di donne, diavoli e altre stranezze (2000), Miracolo al bar (2001), Ottocento (2002),
Tutta colpa di Capuozzo (2002), Nero Napoletano (2003), La canzone di Lola (2005), Una balorda faccenda di camorra – rifacimento di Nero Napoletano – (2008), Edwige salvami (2010), La festa dei cani – rifacimento – (2013), Il tempo magico – rifacimento di Miracolo al bar – (2017), La Dea Terra (2017), Noir Napoletano – rifacimento di Nero Napoletano (2018), la raccolta di racconti Storie crudeli (2012), e il saggio critico Caravaggio e le Storie di San Matteo (2018). Ha pubblicato, inoltre, propri racconti nelle antologie Giallo Latino V Edizione, I Racconti di Sabaudia 2006, Racconto Latina 2006. Ha ottenuto vari riconoscimenti in importanti concorsi letterari.
Per richiere la copia cartacea:
info@graficheemmegi.com
https://graficheemmegi.net/
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Il Tempo magico - G. Lucio Fragnoli
verità
Da dove veniamo? Chi siamo? Dove andiamo?
Tutto ebbe inizio in quella stranissima sera di fine settembre, quel settembre antipatico del Novantasei, una serataccia davvero triste, con poche anime in giro, addirittura fredda, e agitata da un fastidioso vento, che soffiava cambiando continuamente direzione: ora da sud, ora da est, ora da nord.
Nei giorni precedenti, bizzarri nubifragi avevano tormentato il litorale e costretto al rientro gli ultimi ostinati villeggianti. Dopo tanto trambusto estivo, Marina delle Palme, Marina di Mezzo e San Marcellino Lido, sviluppatisi in fretta l’uno dietro l’altro, senza un confine preciso, come fossero un unico e convulso agglomerato, erano d’incanto sprofondati nel loro tipico grigiore invernale di centri spopolati e sonnacchiosi.
Ebbene, quella sera, come tante altre delle mie, me ne stavo seduto, assorto nei miei pensieri, a un tavolino del Pulp Bar che, francamente, somigliava più a un pub che a un vero e proprio bar, per via degli arredi scuri e pesanti, di un vago gusto irlandese, o scozzese se si vuole, non molto distante da casa mia e di cui ero cliente abituale.
Certe volte, nonostante gli atteggiamenti per niente anglosassoni dei frequentatori, si aveva la sfuggente sensazione di trovarsi a Liverpool, o a Edimburgo, o comunque in una qualsiasi altra nebbiosa città del Regno Unito.
Io, Leonardo Traversi, come al solito, stavo rigirando sottosopra il mio passato, tentando di capirci qualcosa dei miei tanti insuccessi. Ma, come sempre, approdavo alla conclusione che ero stato io, soltanto io, la causa della mia malasorte. Ero riuscito, nemmeno l’avessi fatto apposta, a collezionare, quasi tutti in una volta, tutti i fallimenti possibili: studio, amore, lavoro, famiglia e condizione economica.
Cosicché le immagini dei miei sventurati trascorsi si affollavano dispettosamente nella mia memoria, creandomi affanno, a tratti togliendomi il respiro. Solamente per qualche attimo riuscivo a liberarmene, distogliendo lo sguardo da un vecchio poster dei Beatles attaccato alla parete e rigirandolo verso la sala. Ogni tanto, senza darlo a vedere, mi fermavo a osservare gli altri tavoli, dove sedeva sempre la stessa gente, dai quattro del Branco del Mitico, certi giovinastri invadenti e maleducati, sempre pronti a dar fastidio a chi non andava loro a genio, al gruppetto degli Aristocratici, che non perdevano occasione per manifestare distanza e senso di schifo per ogni cosa che girava loro intorno. C’erano poi: la cricca delle Acide, cinque studentesse universitarie brutte e intrattabili, certi altri detti i Mosci, uno che chiamavano Mutus, perché non parlava mai, una coppia di settantenni giovanilisti detti Vivi per caso, certe racchie pettegolone dette Befane scassanti e Migliorato, con la sua aria assente e meravigliata al tempo stesso.
Migliorato era da tutti considerato il matto del villaggio. Nient’altro che questo. Né più né meno del solito personaggio letterario, magari saltato fuori da una grottesca commedia, che non ne aveva voluto più sapere di rientrare dietro il sipario dopo il comico finale. Di lui mi avevano raccontato che era stato una delle menti più illuminate e lucide del posto. Insigne cattedratico di estetica, aveva ricoperto finanche la carica di assessore regionale alla cultura, per più di tre anni. Ma, perduta la bellissima e amata moglie per un cancro allo stomaco dopo una straziante agonia era, come si usa dire, uscito fuori di testa. Aveva cominciato a parlare da solo o a litigare ad alta voce con personaggi immaginari, e a fare altre cose strampalate come, per esempio, pisciare per strada o raccogliere tappi di bottiglia ovunque se ne trovassero, per poi andare a buttarli in mare dalla darsena, in piena notte come un lupo mannaro, lanciando tenebrosi anatemi.
Spesso gironzolava tra i fabbricati in costruzione alla ricerca di chiodi storti e arrugginiti da raddrizzare, recitando formule per liberare l’umanità dal male. Altre volte lo avevano visto accovacciato sulla spiaggia, nel mezzo d’una libecciata, invocare gli irrequieti demoni degli abissi che gli rendessero, dal primo fino all’ultimo, tutti i tappi di bottiglia che aveva lanciato loro in offerta, senza ottenere alcuna palpabile vendetta verso le nemiche e oscure energie responsabili del suo nefando destino. Per tutte queste oscure manie era stato dichiarato inidoneo all’insegnamento dal Ministero, che lo aveva messo a riposo con il minimo della pensione.
Dopo un certo tempo, però, aveva smesso di vaneggiare e in molti dicevano che era migliorato, da cui il curioso appellativo che gli era rimasto cucito addosso. Ma ormai era troppo tardi, per tutti era solo un pazzo da cui stare alla larga. La comunità, di cui a tutti gli effetti faceva parte, forse per pigrizia mentale, forse soltanto per congenita cattiveria o, peggio ancora, per naturale indifferenza, si rifiutò per sempre di riammetterlo nella cosiddetta società civile.
Io ci avevo parlato di frequente e mi era parso tutto sommato ragionevole, sebbene nutrissi per lui un discreto pregiudizio, alimentato dal suo aspetto trasandato, con la barba incolta e i capelli unti, con gli occhi ora lucenti e avidi da cercatore d’oro, ora persi in chissà quale viaggio nel più selvaggio e lontano dei territori, con le rughe profonde sul volto abbronzato da nostromo, che lo facevano sembrare molto più vecchio di quello che era.
Proprio lui mi aveva raccontato, talvolta divertendomi, un mucchio di curiosità, come la singolare vicenda del pittore Paul Gauguin, che fuggì via dal mondo civilizzato per stabilirsi in Polinesia, un brulichio di isole incontaminate e sospese nel blu dell’oceano, abitate da incolpevoli selvaggi, dove peraltro non riuscì a trovare pace e nessuna attendibile risposta ai dilemmi che lo assillavano. Cosicché, stanco e malato, prima di morire, nel 1903, prima di un tentativo di suicidio paradossalmente andato a vuoto, lasciò ai posteri soltanto tre preoccupate domande. Le pensò come titolo di un cervellotico dipinto, scrivendole in un angolo della tela: D’où venons-nous? Que somme-nous? Où allons-nous? Da dove veniamo? Chi siamo? Dove andiamo?...
Migliorato le sapeva raccontare le cose, con la lingua sciolta di chi trova assai raramente qualcuno per parlare.
Molto incuriosito gli avevo chiesto: «E quali, secondo te, potrebbero essere le risposte?»
E lui, prontamente: «È Gauguin stesso che le ha date le risposte. Le ha scritte sulla porta della sua casa. Erano due le risposte: due sole risposte per tre difficilissime domande: Siate misteriosi e Amate e sarete felici.»
Ma io, ancora: «Migliorato, secondo te, basta amare per essere felici?»
«Sì, se si è altrettanto amati.»
«E come si fa per essere misteriosi?»
«Questo ancora non lo so perfettamente. Ma, ti dirò, essere impenetrabili è una condizione in cui si vuole custodire gelosamente una qualche terribile… scoperta.»
Fino a quel momento avevo creduto che quelle tre strane domande, Da dove veniamo? Chi siamo? Dove andiamo?, se le fosse inventate l’affabile Riccardo Pazzaglia, per divertire i telespettatori in un noto programma televisivo condotto da Renzo Arbore. Invece no, le aveva faticosamente partorite l’artista francese. D’altra parte, ricordo bene, ai tempi del liceo non avevo mai brillato in storia dell’arte. Ma forse la mia scarsezza dipendeva anche dalla professoressa, che non sapeva proprio spiegare, per non dire che ne masticava davvero poco.
Migliorato aveva tutta una sua teoria della vita, che poteva essere riassunta molto facilmente così: l’uomo può semplicemente essere per essere, rappresentare per essere o avere per essere. Però, secondo lui, non si riesce ad essere mai precisamente ciò che si vorrebbe essere, in alcun modo. Per cui la vita si risolve in una mera finzione: fingere per essere, o fingere di essere. Tutto qui.
Spesso mi chiedevo come si potesse chiamare matto uno come Migliorato, specialmente dopo aver ascoltato simili dissertazioni. Be’, il suo pensiero risentiva talvolta di un’eccessiva originalità. Ad esempio, l’ultima volta che ci avevo conversato mi aveva enunciato il suo ideale estetico, la sua idea di bellezza, secondo cui in definitiva il bello non è bello se non è vero. Come dire che non esiste bellezza ove non vi sia verità.
«Come ci ha insegnato Stendhal, se c’è una cosa che distrugge la bellezza antica, quella è l’espressione di ingenuità
. Osservazione a dir poco geniale questa» aveva chiarito con tono serio. E dopo qualche colpettino di tosse da bronchite cronica, molto pacatamente aveva ripreso: «L’espressione d’ingenuità dipende sempre dalla piccolezza del naso che hanno le statue antiche… come la tengono molte altre figure moderne, del resto. Il naso! Il naso è fondamentale in una testa. È l’unico elemento di verità. Per questo ho cominciato a studiare i nasi. Sto scrivendo un mio trattato: il Trattato dei nasi.»
«È davvero così importante un naso?»
«Importantissimo! Il naso riesce a percepire differenze sottilissime. Se ci pensi bene, la prima cosa che ci piace di una persona è l’odore. Già, siamo in fondo come i cani, ci scegliamo dall’odore, o dalla puzza addirittura. Ma l’importanza capitale del naso consiste nella sua assoluta prerogativa di veridicità. Un naso non mente mai! Gli occhi e la bocca lo possono fare…»
«E il mio naso, il mio naso com’è?»
«È un naso difficile, un naso che non riesce ad esprimersi completamente, pressappoco come il complesso nasone di Gauguin.»
Spostai lo sguardo dalla sua sofferta persona, che mi rivolse appena un cenno di saluto, storcendo la bocca, lasciandomi intendere in quel modo, che lui pure, in quella sera triste, voleva meditare sulle proprie infauste vicissitudini.
In sottofondo scorrevano gli accordi di un malinconico blues. Blow wind blow. Soffia vento soffia.
Ritornai ai miei pensieri, fissando nuovamente il vecchio poster: THE BEATLES...
Da ragazzo ero stato abbastanza spensierato, ottimista quel tanto che serve, certamente diligente. Infatti avevo ottenuto la maturità scientifica con sessanta sessantesimi e ciò era stato motivo d’orgoglio per me e per la mia famiglia, specialmente per mio padre. Avrei voluto frequentare la facoltà di ingegneria, o di architettura, a Napoli, invece finii per iscrivermi a Medicina, a Roma, per far contento il povero papà, che voleva a tutti i costi un figlio medico. Quella del figlio dottore era una delle sue insopportabili tre fissazioni.
Tutto sembrava procedere per il meglio, mi rimanevano solo sette esami, quando il babbo ci lasciò, prematuramente, a causa di un infarto. Per la razza mia questa è una sorta di implacabile maledizione, poiché pure il nonno ne era rimasto vittima una decina d’anni prima. Fu un colpo tremendo. Papà mi mancava molto. Lui riusciva a sminuire ogni incresciosa faccenda con la sua proverbiale ironia. La prima volta che fui bocciato ad un esame mi sembrò che il mondo mi fosse caduto addosso, tanta era l’amarezza. E quando gliene parlai, lui, come se nulla fosse accaduto, semplicemente commentò: «Soltanto alla morte non c’è rimedio!»
Dopo che fui mollato dalla mia prima fidanzata, nel vedermi in preda allo sconforto, sottilmente postillò: «Muore un papa e se ne fa un altro.» Papà diceva sempre che l’ironia è il sale della saggezza. E aveva ragione. Io a quel tempo ne avevo davvero poca. Non so precisamente se ero troppo serio o esageratamente serioso.
Per un periodo mi ero lasciato andare, ma mi ero ripreso per fortuna. Mi mancava un solo esame e la tesi per laurearmi, ma uno stramaledetto pomeriggio, sul treno, l’espresso Napoli-Roma delle sedici e zero sei, avevo incontrato lei, Milena D., ossia Messalina, bizzarro nomignolo con cui mi piace ricordarla. Ciò per due motivi che vi spiegherò più avanti. Era l’otto marzo dell’Ottantotto. Lei era meravigliosamente giunonica nel suo smagliante vestitino rosso mattone. Mi era sembrata, così, sul momento, con uno sforzo di fantasia, una conturbante matrona romana e me ne ero invaghito a prima vista. Era stato, come si dice, il classico colpo di fulmine.
Ma altrettanto lei, penso, era rimasta fulminata, se si considera che, appena giunti alla stazione Termini, ci aveva accolti un temporale e lei mi aveva accompagnato alla fermata del tram, riparandomi sotto il suo ombrellino, stringendomi a sé. Eravamo già una pagina e mezza del più bel romanzo moderno d’amore che