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Dead West
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Dead West

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About this ebook

Capelli rossi come il fuoco, viso cosparso da efelidi e un turbolento stallone nero sono il biglietto da visita di Rhonda Stone: la giovane che si presenta al ricco latifondista Clem Wheeler. Rhonda dovrà resistere ai soprusi dimostrando il proprio valore, riuscire a domare Tenebra, il miglior cavallo che abbia mai calpestato le terre dell’Ovest, e raggiungere un accordo con un uomo tanto rude quanto prepotente, dietro il quale ha preso vita una leggenda cruda e sanguinaria, legata alla perdita della sua prima moglie. Accolta con distacco e diffidenza, in una realtà patriarcale, priva di leggi, dove ogni cowboy stringe il lazo in una mano e il fucile nell’altra, Rhonda non è giunta per caso al ranch Wheeler: ha un mistero famigliare da risolvere e una vita da salvare, prima che i nativi abbiano ottenuto la giustizia che è stata loro sottratta.
La fine dell’epoca della frontiera scorrerà al fianco di una protagonista indipendente e passionale, custode di enigmi e sentimenti che sfiderà affrontando ogni paura, scoprendo verità che la scuoteranno fino nei recessi dell’anima, in un mondo dalla natura ancora incontaminata e grandiosa.
LanguageItaliano
Release dateMay 19, 2021
ISBN9791220805735
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    Dead West - Alberto Camerra

    edizioni_acab

    Proprietà Letteraria Riservata

    Il diritto di copyright è di proprietà dell’autore Alberto Camerra.

    Il materiale contenuto in questo eBook non può essere modificato, riprodotto, copiato, distribuito elettronicamente e/o con altri mezzi di diffusione o usato in qualsiasi altro modo senza il permesso scritto dell’autore. Se desideri condividere l’eBook con un’altra persona, per cortesia, scarica una copia a pagamento per ogni destinatario. Se stai leggendo questo eBook e non lo hai acquistato, comprane una copia: ci permetterai di continuare nel nostro lavoro. Grazie per il tuo contributo e per il rispetto del lavoro dell’autore e dell’editore di questo libro.

    Questo eBook è opera di fantasia. Personaggi e situazioni sono invenzione dell'autore e hanno lo scopo di conferire veridicità alla narrazione.

    Ogni riferimento a fatti realmente accaduti e/o a luoghi, eventi, persone realmente esistenti, vive o scomparse, è da ritenersi puramente casuale.

         DEAD WEST

    di Alberto Camerra

    Romanzo

    Progetto grafico editoriale:

    edizioni_acab

    Sito e contatti dell’autore: 

    www.albertocamerra.com.

    Tutti i diritti riservati.

    «Le donne nel western c’erano, ma non in primo piano.

    Più fortuna avevano le rosse, prostitute da saloon,

    oppure dalla parte dei cattivi.

    Erano più forti, resistevano,

    potevano morire anche alla fine del film».

    Marco Giusti

    1

    RHONDA

    La prima volta che lo vidi, Evan era insieme con un piccolo gruppetto di altri cowboy, impegnato a recuperare un branco di cavalli allo stato brado. In quel nugolo di polvere e urla, lui dava già l’impressione di conoscere il mestiere meglio dei suoi compagni. Ma non sarebbe servito a nulla. 

    I puledri nitrivano dietro di loro: era più una risata sguaiata che un verso spaventato. Gli uomini avevano lanciato una sfida agli animali e la stavano perdendo. 

    Di queste cose me ne intendevo piuttosto bene. Me lo ricordavano le mie stesse natiche doloranti, per le numerose cadute dalla groppa di stalloni selvaggi. 

    I cavalli, all’Ovest, erano necessari quanto l’aria. Senza, non andavi da nessuna parte. 

    – Yaah… fallo correre verso di me, Mason. 

    – Ci sto provando. Bestia… questo fottuto ha il demonio dentro. 

    – No. Stringi meno quel lazo, vuoi strozzarlo? 

    Gridavano, imprecavano, si sbracciavano come forsennati nella paura di buttare al vento una mezza giornata di duro lavoro. Li stavo osservando dal tardo mattino, dopo essere scesa dal treno che arrivava da Cheyenne e aver sellato Perezoso: un sauro che il proprietario, con un ghigno disgustoso stampato in faccia, mi aveva venduto. Tale padrona, tale cavallo, aveva ironizzato lui, indicando il manto rossiccio del quadrupede. Già, il colore delle fiamme dell’inferno, dove è andato chi mi ha venduto un cavallo prima del tuo, gli avevo risposto io, fissandolo negli occhi sino a fargli sparire il ghigno. 

    Ero amabile di carattere, come la maggior parte delle rosse. 

    E, a volte, anche discretamente fortunata. Mi ero imbattuta in cowboy tanto incapaci da offrirmi le carte vincenti che a un giocatore di poker capitavano soltanto per bravura, fortuna o per l’abilità a nascondere il gioco sporco. 

    – Mason… spingilo di qua, ho detto. Sei sordo? 

    Curvai la schiena in avanti, strinsi il pomello della sella con una mano e il binocolo con l’altra, valutai i movimenti di Mason senza capire la finalità della maggior parte di essi. Secco quanto un arbusto cotto dal sole, con una folta e ribelle chioma scura, l’incapace cowboy ci stava mettendo un buon impegno per non farsi disarcionare dal suo stesso cavallo. 

    – Evan, cosa accidenti stai facendo? 

    Sbraitava il tipo che dispensava gli ordini. In mezzo a quel disastro, Evan era l’unico a muoversi con un minimo di anticipo rispetto al branco. I suoi capelli biondi ondeggiavano agli angoli marcati di un viso quadrato, incorniciato da un paio di ampi baffi e da un pizzetto dello stesso colore, che si stagliavano su una corporatura atletica, dalle braccia lunghe e forti. Lui rappresentava l’unico motivo per cui i cavalli non avevano ancora spiccato il volo giù per la prateria. 

    Era un peccato assistere al fallimento che lo coinvolgeva insieme ai soci. 

    – Quin! Bestia… Quin! – strillò il signor Mason. 

    Uno stallone nero come la notte, l’esemplare più incredibile dell’intera mandria, con il collo infilato nel lazo, si trascinò cowboy e cavallo per diversi piedi, mettendo l’uomo di fronte a una scelta molto rapida: abbandonare la presa o rischiare di rompersi l’osso del collo. 

    Mason si aggrappò alla sua cavalcatura con entrambe le braccia e gli ci volle un po’ per recuperare la posizione sulla sella. 

    Evan e Quin avevano già il loro daffare nel cercare di evitare la fuga al resto del branco, che, fomentato dallo stallone nero fiutava già l’insperato aroma della libertà perduta. 

    Avvertivo un leggero sorriso scavarmi le guance. Mi si presentava davanti agli occhi l’occasione che avevo atteso. Rimisi il binocolo nella sacca di lato alla sella e chinai il viso accanto all’orecchio di Perezoso, sussurrandogli un paio di frasi che mi aveva insegnato Cervo Giallo. Non ero mai riuscita a ringraziare abbastanza il vecchio nativo della tribù dei Comanche. 

    Il quadrupede schizzò giù per il declivio come un fulmine. La mia cavalcatura sollevava un polverone dal terreno sabbioso e brullo, costringendomi a tenere le redini con la sinistra e il cappello con la destra, mentre premevo le ginocchia sui suoi fianchi. Lo incoraggiavo a seguire la scia dello stallone nero con tutto lo spirito di persuasione di cui ero capace, ma anche così, l’animale selvaggio, senza nessuno sulla groppa, guadagnava distanza a ogni istante. Non mi diedi per vinta. 

    Si sarebbe stancato prima di Perezoso, almeno lo speravo. 

    In un paio di occasioni, dovetti morsicarmi la lingua per non imprecare: gesto poco adatto a una signora in visita presso un altro paese. Lo stallone nero giocava in casa, probabilmente c’era nato in quelle lande sconfinate, io ero costretta a prestare attenzione alle pietre che spuntavano dietro i ciuffi d’erba bruciata, alle radici contorte di querce e olmi che fuoriuscivano dal suolo, annodandosi a rami nodosi privi di foglie. Ogni volta che lo stallone nero ricompariva alla vista, aveva preso altri piedi al mio cavallo. Perezoso cominciava a sbuffare, agitando il muso bislungo verso il basso. Ne aveva di resistenza, il fuggitivo. Era un peccato immaginarlo rinchiuso dentro uno steccato con una schiappa come quel Mason a girargli intorno. Prima dovevo agguantarlo. E la fiducia alla base della mia impresa stava scricchiolando con una certa preoccupazione: avevo sottovalutato l’indole dello stallone. 

    Perezoso rallentava. In principio non me ne resi conto, concentrata sulla pista della nostra preda, ma con il passare dei minuti, con le miglia macinate una dopo l’altra, divenne evidente che stavamo perdendo terreno. 

    – Avanti! Dai zuccone. Ce la possiamo fare, – dicevo al mio cavallo. 

    Il vento smorzava gran parte della voce ricacciandomela giù per la gola. Sentivo le folate graffiarmi la pelle nuda delle gambe, intrufolandosi sotto la sottana: non avevo previsto di finire in un’iniziativa del genere, smontata dalla carrozza del convoglio ferroviario. Una gonna scura e una camicia bianca, stretta da una fusciacca legata in vita, con le maniche a sbuffo e la generosa scollatura, rendeva il mio abbigliamento quanto di più lontano possibile a quello di una ragazza che ambiva al ruolo da mandriana. 

    Dopodiché qualcosa cambiò nel paesaggio. La pista diventò meno frastagliata, i sassi si diradarono lasciando spazio a del terriccio bruno intervallato da sabbia biancastra e sottile. Le pareti della vallata di fronte mi comparirono molto più vicine. Mi accorsi del pericolo all’ultimo momento. 

    – Hoo… fermo, Perezoso. Fermati! – Gridai al cavallo. 

    Tirai le redini, cercai di mutare la direzione del galoppo facendogli girare la testa da un lato, per mostrargli un percorso diverso. Lui rallentò, scivolando sulla sabbia, scavando un solco che ci costrinse a inclinare il corpo. Trattenni il fiato, stringendo il suo costato con le ginocchia, sforzandomi di mantenere una posizione eretta. Perezoso piantò gli zoccoli nella sabbia a pochi passi dal bordo: un altro piede o due e saremmo caduti nel burrone. 

    – Bravo, Perezoso. Sei stato bravo davvero, – dissi, con la voce spezzata per il rischio appena corso. 

    Sudavo a freddo, lungo la schiena avvertivo scendere gocce copiose che incollavano la camicia alla spina dorsale. Asciugai la fronte con il dorso della mano, il mio cavallo ansimava rumorosamente, per la fatica e lo spavento. Avevo messo a rischio la vita di entrambi e tra le mani mi rimaneva un pugno di mosche. 

    Accarezzai il fianco di Perezoso. Dovevo calmarlo e abbassare le palpitazioni che mi stavano martellando il petto, prima di tornare indietro. Mi diedi della sciocca e, insieme al sollievo per la salvezza da morte certa, sentivo crescere la rabbia. Ero sicura di potercela fare, invece lo stallone nero aveva messo nel sacco me e i cowboy, portandosi via il biglietto da visita che credevo di avere già in tasca. Smontai da Perezoso e continuai a strofinare il muso bisbigliando parole che sapevo lo avrebbero rassicurato. Rivolsi un’occhiata apprensiva allo strapiombo. Si trattava di un bel salto e, fissando il fondo molto più in basso, mentre il terriccio sbriciolava oltre la sporgenza perdendosi in un pulviscolo sabbioso trasportato dal vento, provai un senso di vertigine. 

    La rena ai miei piedi, a parte il solco scavato dagli zoccoli del sauro, non presentava segni di altro passaggio. Il morello selvatico aveva scelto un percorso differente, ed era sfuggito alla vista, aggirando il promontorio su cui ci trovavamo io e Perezoso. 

    Digrignai i denti in una smorfia. Per quanto fiato avesse in corpo, anche lui doveva fermarsi presto o tardi, se non voleva scoppiare. Potevo risalire in groppa al sauro e, procedendo al passo, seguire le tracce lasciate dallo stallone: da qualche parte dovevano essercene, non poteva aver messo le ali. Abbracciai Perezoso con la sinistra, appoggiai il piede alla staffa e raccolsi il bordo della sottana tirandolo indietro. Prima di darmi la spinta per tornare in sella, mi bloccai. Sentendomi arrivare, in qualsiasi posto si trovasse, ed ero abbastanza certa che fosse vicino, lo stallone nero avrebbe ripreso la sua corsa. Non ero riuscita ad avvicinarmi a sufficienza da fargli percepire il mio odore: per lui potevo essere ancora il cowboy che lo aveva quasi strozzato con il lazo. 

    Occorreva un approccio alternativo. 

    Abbassai lo stivale e tolsi la mano dal collo del sauro, allontanandomi di qualche passo. Era una giornata calda, afosa, il sole già picchiava in testa con raggi così bollenti da rendere fastidiosa la stretta del cappello. Mi trovavo su un avvallamento irregolare, con arbusti spinosi e ciuffi d’erba che affioravano sparsi: alle spalle c’era la bassa collinetta lungo cui mi ero lanciata. Davanti, in direzione dello strapiombo, una breve gobba scoscesa che terminava bruscamente, come fosse stata tagliata da una gigantesca lama affilata. 

    Espirai e inspirai, inebriandomi dell’odore di erba secca e bacche selvatiche. In lontananza, si udivano i latrati di un coyote e, in alto, il grido stridulo di un’aquila che andava e veniva, fondendosi con il soffio del vento. Mi guardai intorno, cercando il punto più silenzioso di quel luogo. Quando lo ebbi trovato, m’inginocchiai chiudendo gli occhi. 

    Inseguivo una pista vergine, un tracciato che non si trovava sopra il terreno. Quel percorso intimo era dentro di me. E raramente, in passato, ero riuscita a venirne a capo: il mio temperamento mi ostacolava. Posai i palmi a terra e mi piegai in avanti avvicinando il volto al suolo, appoggiandovi l’orecchio. I suoni che sentivo erano ovattati, simili a bisbigli, a confidenze intime concesse a pochi: un numero d’individui che si era molto ristretto, nel tempo. E la maggior parte di loro si trovava chiusa nelle riserve. 

    Cervo Giallo diceva di ascoltare il respiro del mondo, perché la madre terra raccoglie i passi di ogni suo figlio e permette di sentirli, a chi sa farlo. 

    Io non ero mai stata una brava ascoltatrice, ma potevo esserlo quando ci mettevo l’impegno giusto. 

    Trattenni l’aria nei polmoni, per isolarmi da qualsiasi altro rumore diverso da quello che volevo. Dovetti riprovarci a lungo. Avvertivo un senso di frustrazione farsi largo nell’animo e mi biasimavo per essere stata una cattiva allieva. Le formiche sembravano d’accordo con me: mi costrinsero due volte a schiaffeggiare il volto, per liberarmene. 

    Non mi davo per vinta lo stesso. Ero troppo fiduciosa per lasciar perdere: credetti di sentire un suono debole, dapprima isolato e poi ripetuto. Incollai l’orecchio ancora di più alla terra, storcendo il collo. 

    – Ci siamo, Perezoso, amico mio, – dissi al mio cavallo. 

    Mi rimisi in piedi, presi le redini del cavallo e m’incamminai lentamente. Come immaginavo, l’animale non aveva fatto molta strada ed era sfinito: stava girando in tondo con un’andatura al passo, muoveva la testa e soffiava, aveva gli angoli della bocca traboccanti di saliva. Si era nascosto alla mia vista per recuperare le forze e continuare la sua fuga, infilandosi dietro uno sperone roccioso. Lui sollevò il capo ma non aveva ancora percepito il mio odore. Avanzavo sottovento. Sfregai il manto di Perezoso con entrambe le mani, poi massaggiai le parti esposte della mia pelle per confondere i sensi dello stallone nero: più mi avvicinavo e meglio potevo distinguere il suo splendore. Aveva un colore brillante e intenso, un manto che assorbiva i raggi del sole in un pelame dalle curvature morbide, generose di riflessi d’ebano e ocra. 

    Ogni volta che lo stallone nero girava il muso verso di me, mi bloccavo sul posto. Riprendevo a muovermi quando ero certa di non averlo impensierito. Continuai così fino ad arrivargli a breve distanza, poco più del mio braccio. A quel punto, alzai la mano per sfiorare le narici. Lui indietreggiò. Io insistetti. Con calma ma anche con determinazione. Abituandosi lentamente all’odore, il morello sbuffò senza evitarmi. Ero arrivata a sfiorare il muso, le orecchie, quando l’animale decise di allontanarsi. Non mi persi d’animo e riprovai da capo, girando in tondo con lui e imitandone i movimenti. Con infinita pazienza, una dote che non sapevo nemmeno di possedere, arrivai a toccargli il collo, il manto, a sfregare la pelle delle mani nell’odore selvatico, per poi avvicinare le dita al suo naso. Sussurrai le parole apprese dai Comanche, continuai a ripetere frasi che mi erano state utili in occasioni analoghe e di cui conoscevo bene l’efficacia. Lui prestava attenzione al tono dei miei sussurri, poi si staccava e ritornava. 

    Andai avanti in quel modo, toccando e massaggiando ogni diverso punto del suo manto, delle gambe, del muso, senza mai smettere di comunicare con la voce. Più lo toccavo e maggiore era la sensazione di familiarità che gli trasmettevo. I suoi timori andavano scemando: nessuno lo stava inseguendo e tra me e lui si stava instaurando un rapporto particolare. 

    Quando ero ormai confortata dalla reazione del morello selvatico, lui si levò ancora dalle mie mani. Forse memore della fuga dai cowboy, lo stallone decise di correre in tondo nello spiazzo ovale attorniato dalle rocce, dai rami contorti di olmi arsi dal sole. Con il recupero delle forze, stava riaffiorando la sua indole selvaggia. Il mio odore, mescolato a quello del cavallo, aveva però attecchito alle sue narici e, proprio nell’istante in cui temetti di vederlo correre via, lui ritornò docilmente al centro del perimetro di terra. 

    – Buono, va tutto bene, – dissi, tra una frase e l’altra in dialetto Comanche. 

    Solo allora richiamai Perezoso, presi la corda che tenevo fissata di lato alla sella e, con estrema lentezza, la passai sul collo dello stallone. Lui s’imbizzarrì, sollevando le zampe anteriori. Mise a dura prova le mie energie e rischiai di perdere la presa sul lazo. Scivolai sul terreno sdrucciolevole: strinsi i denti, graffiai il ginocchio destro sui sassi prima di riuscire a recuperare l’equilibrio. Per fortuna, la sottana era abbastanza spessa e lunga da evitarmi un taglio profondo. 

    – Calmati, non hai niente da temere, – dissi, legandomi la corda al polso. 

    Non lo avrei più mollato per niente al mondo, anche se quell’azzardo poteva farmi correre rischi poco simpatici al braccio. Al suono della mia voce, allo strofinamento del palmo sulle narici, il morello decise di placarsi quanto bastava. 

    Avevo perso la nozione del tempo. Quanto avevo impiegato nell’operazione di recupero dello stallone selvaggio? Di certo qualche ora. Ero sicura che ai cowboy non fosse andata troppo bene ed io avevo messo le mani sul puledro migliore. 

    Presi le redini e montai in sella al sauro, tenni l’estremità del lazo che avevo passato attorno al collo dello stallone nero con la mano libera, spingendo la mia cavalcatura verso la pista. Lo stallone cercò in tre occasioni di piantarmi in asso: allentai la corda e affiancai Perezoso alla sua andatura. In alcuni punti rallentavo, in altri acceleravo. Abbandonato il promontorio, recuperai la pista che mi ero lasciata alle spalle, imbattendomi presto nella nube di polvere causata dai cowboy in sella che si erano attardati lasciando andare avanti i compagni con i cavalli selvaggi; li avevo preceduti correndo avanti a loro. 

    I tre mandriani erano gli stessi che avevo spiato alla distanza, con il binocolo. Attesi che mi arrivassero sotto. Quin, in testa, mi osservò con stupore e curiosità. A Mason, al suo fianco, la mandibola scese quasi alla pancia. Mentre Evan, poco dietro, mi dedicò un lungo sguardo interessato. 

    – Buongiorno a voi, mi chiamo Rhonda Stone, – dissi con un sorriso. – Questo è il cavallo che vi era scappato. 

    Ci volle un po’ prima che riuscissero a rispondere al mio saluto.

    2

    KIOWA

    Leggevo sospetto e perplessità, su quei volti abbronzati dal sole dell’Ovest. Mi squadravano da capo a piedi senza sosta, incapaci di realizzare fino in fondo che una donna era riuscita a compiere un’impresa dove loro avevano fallito. 

    Il terzetto di mandriani non riusciva a celare un evidente imbarazzo e indugiava a lungo sulle forme del mio corpo. Quasi come se non avessero mai visto una femmina. 

    – Bestia, Quin. È proprio lui, lo stallone che a momenti mi portava via un braccio, – borbottò Mason fissando il capo squadra, e sputò al suolo una presa di tabacco masticato, per poi rivolgersi a me. – Ragazza, come diavolo sei riuscita a mettere il laccio attorno al collo di questo satanasso? Lo hai fatto diventare docile quanto un agnellino! 

    Mason mosse il cavallo per venirmi incontro, ma il morello selvatico agitò subito il muso per manifestare la sua opinione. 

    – Il mio nome è Rhonda, signor Mason, Rhonda Stone, come vi ho detto. Voi potete pure chiamarmi signorina Stone, – precisai con tono freddo. 

    Trovavo il cowboy piuttosto sgradevole, per la sua inettitudine nel domare i cavalli. E anche come persona. Lui, al contrario, a differenza dei suoi soci, non smetteva di scrutarmi tra le pieghe dei vestiti. 

    – Ci sapete fare, signorina Stone, – intervenne Quin. – Posso chiedervi dove avete imparato a trattare così i puledri? 

    – Sono cresciuta tra i cavalli, signor Quin. Ho maturato una certa predisposizione. 

    – Potete ben dirlo: non ho mai visto nessuno domare un animale allo stato brado in così poco tempo, – osservò Quin. – E ditemi, a cosa dobbiamo il piacere di aver incrociato la vostra strada? 

    – Pura casualità. Sono arrivata alla stazione di Shawnee Town questa mattina e volevo prendere una boccata d’aria fresca, dopo tante ore sul treno. 

    – Ragazza, se ti pare aria fresca l’odore che abbiamo intorno, forse non hai proprio un grande naso… 

    Tenni gli occhi sul capo squadra Quin, senza degnare Mason della minima attenzione. Lui concluse la sua rozza battuta con una risatina soffocata, rendendosi conto, per quanto ottuso, che nessuno dei presenti lo apprezzava particolarmente. 

    Il solo a non aver ancora aperto bocca era Evan, impegnato con l’unico stallone selvatico rimasto indietro rispetto al branco: trotterellava in tondo, trascinandoselo appresso. Evan, nel suo gilet maculato, il completo nero e la bandana rossa sotto il mento, dal viso quadrato e i tratti regolari con mandibole affilate, sprigionava un fascino accattivante che i compagni mandriani non sfioravano neppure da lontano. Pareva il più giovane del terzetto, o forse portava gli anni molto meglio di Mason. 

    – Shawnee Town? Spero abbiate affari da sbrigare in paese, signorina Stone, perché non vi ci vedo proprio a perdere il vostro tempo in un buco simile, – disse Quin. – Posso chiedervi se avete qualche programma particolare per lo stallone nero che avete catturato da sola? 

    – La vostra ha l’aria di voler essere una proposta. Sbaglio, signor Quin? 

    – No. Non sbagliate affatto. È un esemplare magnifico e, con un paio di braccia migliori al mio servizio… – rispose Quin, lanciando una rapida occhiata sconsolata a Mason, – sono convinto che, adesso, potrei averlo qui, insieme agli altri. Fissate voi una cifra ragionevole. 

    Il capo squadra, attaccandosi all’amo che gli avevo gettato sperava di concludere un buon affare. 

    – Quin, sarebbe il caso di muoversi verso il ranch: il puledro è troppo agitato, – disse Evan, preoccupato. 

    L’altro storse la bocca in una smorfia, manifestando la propria insofferenza. Dopodiché tornò a fissare me, in attesa di una risposta. Mason dava l’idea di essere del tutto spaesato, come se fosse fuori dal mondo che il suo capo stesse seriamente trattando con una donna: buttava gli occhi nella mia direzione e in quella di Quin. A bocca aperta, Mason, con le mani basse a stringere le redini del suo cavallo, la tesa del cappello rialzata in una mezza luna che evidenziava una fronte aggrottata e sopracciglia rialzate, curvo in avanti, era il ritratto della confusione. 

    Dissi una cifra che mi sembrava ragionevole, ma abbastanza alta da rendere titubante qualsiasi speculatore. Quin impallidì per un momento, poi rilanciò verso il basso. 

    – Come vi ho detto prima, sono cresciuta tra i cavalli. E ne so anche riconoscere il giusto valore, – risposi. 

    – Avanti, signorina Stone… non potete sul serio chiedermi una somma del genere. Il padrone del ranch per cui lavoro non

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