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Dal totalitarismo alla rivolta: Itinerari di critica musicale del Novecento
Dal totalitarismo alla rivolta: Itinerari di critica musicale del Novecento
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Dal totalitarismo alla rivolta: Itinerari di critica musicale del Novecento

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Questo volume è l’insieme di tre saggi di autori diversi, su argomenti molto lontani fra loro, legati dal comune denominatore di “storia musicale del XX secolo”: una riflessione sulla musica italiana del ventennio fascista, una biografia di Fabrizio De André e una panoramica del Punk Rock di fine secolo.  Il trittico, così formato, tratteggia, come annunciato nel titolo del libro, uno schizzo parziale ma significativo di alcuni aspetti sociali, politici e filosofici sottesi a tre momenti storici e culturali oltremodo eterogenei. Difficilmente si possono immaginare mondi così diversi, linguaggi così distanti, come quelli percorsi da autori quali Alfredo Casella, Fabrizio De André o Larry Livermore.  L’abissale diversità culturale e stilistica fra questi tre ambiti musicali non preoccupa gli autori, poiché non è l’aspetto estetico ad essere indagato in questo itinerario storico, quanto quello sociale e politico, essendo tutta l’ampia produzione musicale in questione raccontata e descritta dall’angolatura del suo rapporto col potere. Da questo punto di vista è emblematico il saggio sul Punk Rock, nel quale la filosofia di vita comune a una certa cultura underground viene giustamente evidenziata come dato preminente rispetto a quello strettamente musicale. Il risultato finale, emergente al termine di questo itinerario novecentesco inconsueto, ha a che fare con la capacità unica della musica di muovere emozioni e smuovere coscienze.
LanguageItaliano
Release dateMay 19, 2021
ISBN9788831381857
Dal totalitarismo alla rivolta: Itinerari di critica musicale del Novecento

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    Dal totalitarismo alla rivolta - Luca Canapini

    Note

    Introduzione

    Questo volume è l’insieme di tre saggi di autori diversi, su argomenti molto lontani fra loro, legati dal comune denominatore di storia musicale del XX secolo: una riflessione sulla musica italiana del ventennio fascista, una biografia di Fabrizio De André e una panoramica del Punk Rock di fine secolo.

    Il trittico, così formato, tratteggia, come annunciato nel titolo del libro, uno schizzo parziale ma significativo di alcuni aspetti sociali, politici e filosofici sottesi a tre momenti storici e culturali oltremodo eterogenei.

    Difficilmente si possono immaginare mondi così diversi, linguaggi così distanti, come quelli percorsi da autori quali Alfredo Casella, Fabrizio De André o Larry Livermore.

    Il fatto che questi artisti abbiano scelto il suono come proprio mezzo espressivo d’elezione (non l’unico, avendo taluni affidato ai testi la parte principale del proprio messaggio) risulta immediatamente come elemento di modesta comunanza, una parentela incerta e lontana.

    L’abissale diversità culturale e stilistica fra questi tre ambiti musicali non preoccupa gli autori, poiché non è l’aspetto estetico ad essere indagato in questo itinerario storico, quanto quello sociale e politico, essendo tutta l’ampia produzione musicale in questione raccontata e descritta dall’angolatura del suo rapporto col potere.

    Da questo punto di vista è emblematico il saggio sul Punk Rock, nel quale la filosofia di vita comune a una certa cultura underground viene giustamente evidenziata come dato preminente rispetto a quello strettamente musicale.

    Il risultato finale, emergente al termine di questo itinerario novecentesco inconsueto, ha a che fare con la capacità unica della musica di muovere emozioni e smuovere coscienze.

    Se, come dice Michel Foucault, il potere non può esistere senza la propria negazione, la musica forte riflette inevitabilmente delle forme di ribellione contro il potere: da Beethoven in poi, quando il musicista cessa di essere cortigiano e diviene libero pensatore, la storia della musica occidentale rimane segnata da questa contrapposizione.

    Ludovico Bramanti

    Direttore del Conservatorio Rossini

    Pesaro, 1° luglio 2019

    Estetica, genesi e filosofia della musica del ventennio

    di Luca Canapini

    Principio di ogni conoscenza e di tutta la vita consapevole, è la sorgente della luce nel mondo dello spirito, e del calore che riscalda ed avviva questo mondo, che conosciamo e sentiamo come il nostro mondo, sostenuto dal nostro interesse, e cioè dalla partecipazione nostra al suo essere, o meglio dal suo partecipare alla nostra vita. Questo di cui parliamo è il sentimento che l’uomo invano si sforza di conoscere, è il dio che detta dentro, impadronendosi dell’animo dell’artista: di cui infatti è il più intimo essere. Lì è la vera e schietta intuizione, l’ essenza dell’arte.

    Giovanni Gentile, Enciclopedia italiana , 1929.

    § 1. La genesi ideologica della musica del primo Novecento e il caso di Ferruccio Busoni

    La musica fu la forma artistica preminente tra le arti nel processo mitopoietico del regime ed ebbe la forza di veicolare il codice musicale come linguaggio universale e dei sentimenti del popolo italiano. La musica rappresentò lo strumento privilegiato nel processo di costruzione del mito di Mussolini, dittatore e violinista che non poteva essere sterilmente ridotto all’immagine del bruto e del violento, ma che doveva essere considerato anche come cultore delle arti e della musica, tanto che il Duce fu definito «principesco protettore della musica» [1] .

    L’utilizzo che la macchina del consenso faceva di Mussolini musicista al fine di rendere il profilo di un capo severo e onnipotente ma dall’animo buono e sensibile si rivolgeva indistintamente a tutti gli italiani […] senza distinzione di sesso, di età, di classe o di professione. È parso quindi opportuno [ evidenziarlo] vista anche l’importanza caratteriale nella costruzione del culto della personalità e del mito mussoliniano. [2]

    Per quanto concerne la mitopoiesi del Duce come forma contemporanea e finanche popolare dell’antico mecenate delle arti; la riflessione montanelliana di sapore squisitamente hegeliano, che identifica la figura di Mussolini con il fascismo stesso, sembra ancor più pertinente se riferita alle espressioni della politica culturale e artistica di quegli anni.

    L’indirizzo che di volta in volta i ministri e direttori dell’amministrazione pubblica assunsero a favore o a sfavore di artisti, compositori, musicisti o intellettuali, rifletté l’azione e le idee del Duce che seppe coinvolgere strategicamente nel partito fascista uomini laboriosi e di fiducia, non sempre e soltanto attingendo dalle affollate liste del partito (come è il caso di Gentile che non faceva inizialmente parte dei quadri fascisti). [3]

    L’azione programmatica e ideologica del fascismo la si comprende, come Biguzzi ha rilevato, anche dalla posizione che il regime assunse in relazione ai differenti movimenti artistici apprezzandone, soprattutto nei primi anni, la declinazione intuitiva e ispiratrice di questi, e rifiutandone categorizzazioni e definizioni razionalistiche e speculativamente positivistiche . In questo senso l’approccio mussoliniano fu senz’altro romantico ed erede delle concezioni ottocentesche e tardo ottocentesche [4]:

    Se analizziamo […] gli elementi che attestano la presenza in Mussolini di un’anima artistica e musicale quello che emerge, è il ritratto di un uomo fortemente dominato da concetti quali ispirazione, stato d’animo, arte, poesia. Concetti che, ben lontani dalla razionalità del positivismo e dai valori del socialismo […], ci rivelano i fortissimi influssi romantici che avevano marcato la formazione del suo carattere. […] Sulla scrivania de «Il Popolo d’Italia», a tenere compagnia a due rivoltelle, un pugnale e qualche bomba a mano, c’erano Heine e Carducci, immancabili. [5]

    Il genere musicale che maggiormente influenzò i sentimenti e le opinioni dell’Italia popolare, fu rappresentato segnatamente da quelle marce e quelle canzonette ch’erano ispirate alla tradizione del melodismo, e che superava, inverandola, la forma estetica e la tradizione delle filastrocche e delle cantate popolari assai diffuse nel mondo rurale primonovecentesco, legate saldamente alle origini contadine a cui apparteneva buona parte degli italiani.

    Ben diverso era l’ambiente musicale tedesco che, erede della salda tradizione musicale legata alla religione luterana invece, si faceva portavoce di ben altre ambizioni estetiche. Anche le più note composizioni popolari del regime nazionalsocialista rivelano infatti, orchestrazioni di ben altra fattura rispetto alle invenzioni italiane armonicamente e melodicamente assai essenziali, e tutte volte a conquistare l’ascoltatore con trame orecchiabili e testi di immediata comprensione. In questo senso è da leggere anche la grande popolarità della musica verdiana: senz’altro un riferimento imprescindibile della cultura tra Ottocento e Novecento, e che rivelava chiaramente un’aderenza assai marcata al fulcro melodico che permise la grande fortuna di Verdi anche in ambienti musicalmente non colti.

    Sui limiti della cultura musicale italiana di quel periodo, val qui la pena ricordare una missiva di Ferruccio Busoni del 21 marzo 1919 a Carlo Clausetti, all’epoca garante di casa Ricordi, scritta da Zurigo, città evidentemente influenzata dalla cultura tedesca, dove era approdato:

    Ad una età ancora adolescente, il bisogno di approfondirmi nelle teorie musicali mi allontanò imperiosamente dall’Italia. Se le vuole ricostruirsi in memoria lo stato deplorabile in cui si trovava la Musica in Italia verso il 1883, Ella non potrà altrimenti che approvare lo sforzo d’un giovanetto serio e coscienzioso. [6]

    Tale arretratezza era riferita da Busoni al predominio del melodramma, a una insuperabile stagnazione didattica, a una radicata e diffusa fragilità compositiva dovuta dalla lontananza delle innovazioni wagneriane, e quel ch’è peggio era rappresentata da un testo musicale piegato ai gusti gretti, rozzi e banali del pubblico italiano.

    I compositori italiani sono quelli che non hanno «la necessaria serietà, sono dei cercatori di effetti e non sono capaci di fare a meno di certe tradizionali formule conclusive e progressioni che provocano sfacciatamente l’applauso» [7]. Emblematica la chiosa dello stesso Busoni alla stessa lettera testé citata: In Italia domina l’erronea opinione che la musica sia un’arte per tutti, in mano a compositori definiti da Bazzini «analfabeti musicali» in cerca di compiacimento da un «pubblico ignorante e depravato» [8].

    Sempre dello stesso tenore è un passaggio di una lunga lettera di Sgambati a Durand […] Sauf de rares exception, les orchestres italiens laissent beaucoup à désirer […]. Les choeurs sont organisés d’une manière absolument primitive [9].

    Ben diversa la considerazione di Caikovskij sulla dialettica tra musica tedesca e italiana, dove la posizione così netta di Busoni è considerata come un atto d’imperdonabile filogermanismo:

    Quando ho sentito il quartetto straordinariamente originale dal punto di vista ritmico e armonico, mi è rincresciuto il fatto che Busoni violenti la sua natura e si sforzi di apparire ad ogni costo tedesco. Lo stesso si può osservare anche a proposito di un altro italiano di ultima generazione, Sgambati. Tutti e due si vergognano di essere italiani, temono che nelle loro composizioni possa trasparire anche solo un’ombra di melodia, e vogliono essere ‘profondi’ proprio al modo tedesco. È proprio un fenomeno triste! Il geniale vecchio Verdi con Aida e Otello ha indicato nuove vie ai compositori italiani, senza cadere minimamente nel germanismo […], eppure i suoi giovani concittadini si volgono verso la Germania e a prezzo di una violenta e conscia perversione della loro sensibilità artistica, cercano di raccogliere allori nella patria di Beethoven e di Schumann […] vogliono essere incomprensibili, perfino noiosi, pur di non essere confusi con le legioni di musicisti italiani, la cui arte consiste nell’annacquare ancor più i luoghi comuni di un Bellini e di un Donizetti [10].

    Oltre agli aspetti già argomentati, è interessante notare come il compositore di Votkinsk alluda all’opera verdiana come allo strumento più adeguato per rappresentare la storia e la tradizione artistica italiana, mercé la centralità assegnata alla trama melodica.

    A latere si consideri quanto Verdi fosse considerato un simbolo di redenzione nazionale, ben oltre i confini dell’ambiente strettamente artistico: si ricordi, ad esempio, che per i quarant’anni della scomparsa del grande compositore di La Roncole, fu personalmente Mussolini, nel 1941, a volere celebrazioni in grande stile; così come era già accaduto per l’anniversario della morte di Bellini nel 1935 e della nascita nel 1942 di Gioachino Rossini a Pesaro.

    Proprio il caso pesarese è stato preso ad esempio dell’interessamento del Duce alla musica e segnatamente alla formazione artistica: nell’aprile del 1927 la rivista «Musica d’oggi» (il periodico milanese di Casa Ricordi fondato da Carlo Clausetti e Renzo Valcarenghi nel 1919), dava notizia che Mussolini aveva acconsentito all’istituzione del Liceo musicale «Gioacchino Rossini» e aveva altresì concesso che la biblioteca dell’Istituto fosse intitolata a lui. Sempre a Pesaro nel tragico anno dell’insediamento del governo Badoglio, Mussolini riceveva il musicista Riccardo Zandonai direttore del Conservatorio marchigiano per discutere di alcune iniziative artistiche [11].

    Sull’uso sapiente delle ricorrenze, unicuique suum, il filonazista Farinacci Ras di Cremona, non si fece scappare l’anniversario della morte nel 1943 dell’illustre concittadino Claudio Monteverdi, deceduto tre secoli prima. [12]

    Così recita, emblematicamente, la circolare del MinCulPop del 20 agosto 1940:

    Il Duce ha espresso il desiderio che la figura e le opere di Giuseppe Verdi siano messe maggiormente in luce nella vita musicale italiana. Poiché il 27 gennaio p.v. si compiono 40 anni dalla morte del grande Maestro, si dispone che tutti gli enti che a quella data hanno in corso la normale stagione, commemorino solennemente l’anniversario con l’esecuzione in tal giorno di un’opera verdiana. [13]

    Per meglio comprendere il valore che fu assegnato alla figura di Verdi, val qui la pena ricordare la posizione del noto musicologo e musicista trasteverino Remo Giazotto che ben rappresentò la forma retorica e tipica della cultura demagogica fascista (e che, come molti altri intellettuali convintamente fascisti, dopo l’otto settembre del 1943 divenne un fervente partigiano):

    Oggi noi amiamo Verdi come l’uomo ama il padre e lo rispetta. Verdi è una realtà assoluta per il nostro tempo fascista […]. Egli resta un simbolo per la nostra arte, ma è al contempo un’energia vitale, una volontà che agisce nei centri più delicati e più sacri della nostra società, cioè nella famiglia, nella massa che lavora. […] Etica e mistica della nostra Italia. […] È il teatro fascista che è creazione assoluta in funzione sociale. […] Ecco l’amore forte e virile per Verdi. [14]

    Sull’opera verdiana si era più volte espresso polemicamente Busoni, riferendosi alle fatiche pianistiche del giovane e talentuoso Giovanni Sgambati che, come lui, si era aperto alla tradizione tedesca, sacrificando la propria fama in nome di un’aristocratica ed elitaria adesione al celebrato codice romantico wagneriano, sentito come paradigmatico e, dunque, idealmente lontano dalla mutevole e contraddittoria produzione compositiva italiana, ormai vittima d’una visione popolaresca dell’arte:

    In Italia ogni manifestazione spirituale sta in un certo rapporto con il popolo, essa esiste per il piacere comune, per il bene ed il vantaggio comuni. Quando Verdi celebrò il suo primo trionfo col Nabucco, il popolo pensò che era sorto un’altra volta un uomo che avrebbe fatto del teatro un’istituzione accessibile per molti anni avvenire di belle melodie e di motivi popolari. Questa concezione, e non altre, spiega l’entusiasmo, spesso eccessivo, con cui il popolo italiano accoglie un maestro dell’arte musicale. Conseguenza di tale rapporto è che il compositore […] comincia a dipendere dal popolo. E il popolo porta tutte le sue richieste all’estremo, non appena gliene viene appagata la prima. Ora esige melodie, melodie, tante quante il compositore è in grado di scodellargliene. Per un certo tempo ancora tra l’uno e l’altro motivo il compositore cerca di includere qualche cosa di propria soddisfazione, ma finisce col rinunciarvi, non appena vede che di questa parte del suo lavoro il pubblico ignora tutto. […] Questa fu l’origine della così detta «epoca d’oro» della vecchia opera italiana, per l’arte, indubbiamente un’epoca di grande decadenza. [15]

    A detta dell’impagabile Nicolodi, Busoni avrebbe invece cercato di mediare la tradizione italiana con quella tedesca, la produzione colta con quella popolaresca. [16]

    Certo è che il caso di Ferruccio Busoni è emblematico per comprendere il contesto musicale italiano primonovecentesco, vittima di «quella crisi d’identità che l’Italia musicale registrava nei primi anni del Novecento, in bilico fra ripudio della tradizione e nuove aperture europeistiche» [17] e che rispecchiava il clima anche politico italiano che il fascismo seppe muovere e dirigere -di lì a poco- verso posizioni nettamente nazionalistiche, ampiamente appoggiate proprio da D’Annunzio ben prima dell’ascesa al potere di Mussolini.

    È interessante a questo proposito ricordare il mai sbocciato sodalizio tra D’Annunzio e Busoni: quest’ultimo avrebbe voluto realizzare un Leonardo simbolico e mistico ma ricevette dal poeta un netto rifiuto poiché il soggetto gli apparve privo di «passionalità e di sentimento», è come «un cervello portato da uno scheletro, come la fiaccola dal candelabro» [18], dunque non poteva interpretare lo spirito italiano, non avrebbe mai potuto rappresentare -come era nelle ambizioni di Busoni- un redivivo Faust.

    È da ricordare poi un altro evento assai sintomatico del clima politico di quegli anni: il casus belli fu il concerto del compositore di Empoli a Bruxelles, che sarebbe stato suonato a favore della Germania e le voci insistenti di una sua presunta richiesta di cittadinanza elvetica.

    La notizia del concerto risultò falsa ma tutto il caso dimostrò come Busoni fosse ormai divenuto un personaggio scomodo.

    Ne fu chiara dimostrazione la sua estromissione dalla Società Italiana di Musica Moderna, dove figuravano uomini di grande prestigio e valore come Arturo Toscanini.

    Come scrisse Casella, Busoni fu escluso «perché fortemente sospettato di germanofilia» [19]. Che le sue vicende fossero ormai di pubblico dominio, ne fa cenno lo stesso musicista: «È inimmaginabile che delle persone che non si curano affatto della mia arte, siano tanto interessate ed informate intorno ai miei fatti privati» [20].

    Busoni fu dunque vittima di «viscerale accanimento» [21] e ben prima dell’affermazione del fascismo, il che fa ben intendere quanto sia decontestuale storiograficamente concepire il movimento mussoliniano come rivoluzionario rispetto alla forma culturale precedente, e ne fa cenno Francesco Balilla Pratella, uno dei padri, assieme a Luigi Russolo, della cosiddetta «musica futurista»:

    Durante i primi mesi della Guerra europea si diceva che il Busoni prestasse la sua opera di concertista in tutte le principali città della Germania […]. Oggi, il Busoni continua a diffondere l’infezione della musica tedesca in tutte le nostre importanti sale da concerto e non si perita di ostentare in pubblico una ripugnante tedescofilia acuta, specialmente durante le copiose libazioni di sciampagna-birra tedesca, in onore dei suoi trionfi di grandissimo virtuoso del pianoforte […]. In cambio di una patria ha un piattino da raccogliere monete. A chi gli dona di più, dà il suo più grazioso sorriso. Disgraziatamente per lui noi italiani non siamo troppo ricchi e non possiamo perciò buttare nel pozzo il nostro danaro: potremmo però buttare nel pozzo i tedescofili […]. [22]

    L’epistolario di questo periodo mostra quanto Busoni soffrisse per l’isolamento ingiusto che subì e predisse l’esaltazione, di lì a breve, di una ricerca del concetto di antico, di ispirazione cattolico-romana, che non mancò di suscitare il suo tagliente sarcasmo: «[…] sono d’accordo con Mussolini, che anch’io vorrei somministrare varie porzioni di olio di ricino, cominciando dall’Imperatore Augusto di Roma!». [23]

    La pretestuosa categoria dell’ italianità avrebbe così tentato un approdo nazionalistico ad una nuova forma di autodeterminazione che il fascismo avrebbe ben saputo strumentalmente utilizzare a suo sicuro vantaggio: la definizione di un nuovo paradigma classico, proprio per la frantumazione ch’esso andò inesorabilmente subendo già dal primissimo Novecento, risultò fenomenologicamente inattuato.

    Pur tuttavia, il tentativo di risolverlo storicamente dovette fondarsi su di una ricerca che fu compiuta con grande dispiego di energia e che non mancò d’essere altresì creativa, e che infine seppe arricchire il panorama musicale non solo italiano, pur con le sue problematiche contraddizioni.

    Si pensi che proprio nel 1933 fu istituito il Maggio Musicale Fiorentino e nel 1930 il Festival di Musica Contemporanea di Venezia (inserita nel più ampio progetto dell’Ottocentesca Biennale) i cui autori assolsero l’impegno di rappresentare la musica contemporanea secondo una declinazione precipuamente fascista [24].

    A questo proposito, va menzionata anche la Società Nazionale di Musica fondata da Alfredo Casella nel 1917, il cui progetto andrà ampliandosi nel 1923 nella Corporazione delle nuove musiche grazie al sodalizio con Gian Francesco Malipiero e Gabriele D’Annunzio.

    Proprio Casella, assieme a Malipiero, rappresentava meglio di altri l’ala contemporanea modernista che va distinta da quella conservatrice, meglio rappresentata da Pizzetti.

    Dunque, appare inguaribilmente ingenuo ed estremamente riduttivo il tentativo di ricondurre la poderosa produzione musicale del Ventennio ad un’unica forma espressiva; ben più complesso risulta, invece, comprendere in che misura la cultura, non solo sotto il profilo ideologico ma anche più specificatamente compositiva, fu gradito strumento di espressione artistica. Ne parla la Nicolodi:

    […] l’attribuzione di un’indistinta e omologa sigla ‘fascista’ per tutto ciò che in quel tempo fu fatto. Se difficile, per non dire impossibile, risulta accertare in che misura, con quale fede, spontaneità, ecc. la dittatura venne accettata dai nostri artisti, forse di maggior interesse è vedere sia come il terreno d’intesa fu ideologicamente preparato (più che provocato) dagli antefatti, sia come l’aspetto proteiforme rivestito dal fascismo in campo musicale consentì adesioni e collaborazioni (più o meno attive) da parte dell’ala contemporanea di indirizzo conservatore (con Pizzetti) come da quella modernista (con Malipiero e Casella). [25]

    A questi testé citati vanno considerati altresì, e di certo non in controluce, autori assai significativi come Pietro Mascagni, Umberto Giordano, Francesco Cilea e Giacomo Puccini. Possiamo, dunque, analizzare i rapporti tra regime fascista e musica considerando le tre principali direttive di questa relazione: i compositori ora citati che appartenevano alla cosiddetta Giovane Scuola da riferire all’opera verista, in secundis, la generazione dell’Ottanta e, infine, caso a parte, è quello che pertiene alla corrente delle avanguardie futuriste.

    immagine 1

    Giacomo Puccini, uno dei maggiori e più significativi operisti della storia musicale italiana.

    immagine 2

    Arturo Toscanini mentre conduce l'opera verdiana La forza del destino nel 1944.

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    Ferruccio Busoni nel 1911.

    immagine 4

    Il compositore Claudio Giovanni Antonio Monteverdi.

    immagine 5

    Il compositore veneziano Gian Francesco Malipiero (1882-1973).

    immagine 6

    Il musicista Alfredo Casella nel 1938.

    immagine 7

    Il talentuoso pianista e compositore capitolino

    Giovanni Sgambati (1891-1914).

    immagine 8

    Remo Giazzotto, musicologo, compositore e biografo italiano (1910-1998) in uno scatto giovanile.

    immagine 9

    Mussolini violinista


    [1] S. Biguzzi, L’orchestra del duce, UTET, Torino 2006, pag. IX.

    [2] ib., pp. 54-55.

    [3] Cfr. Intervista a Indro Montanelli, Piazzale Loreto e la fine del fascismo, https://www.youtube.com/watch?v=5FWLvbKKjZQ cons. 14.5.2019.

    [4] La posizione romantica che concepisce l’arte come lirismo, principio irrazionalistico e intuitivo, avvicinano l’idea dell’arte di Mussolini alle concezioni sviluppate dal suo acerrimo e tenace nemico Croce, e lo allontanano dal razionalismo hegeliano del suo fedele Gentile. Ciò non sorprende se si pensa alla multiforme e non sempre coerente posizione che il fascismo assunse nei rispetti della complessa vita culturale italiana. Si veda B. Croce, La poesia, Adelphi, Milano 1994; cfr. S. Biguzzi, op. cit., pag. 22 e sgg.

    [5] ib., pag. 21.

    [6] F. Nicolodi, Gusti e tendenze del Novecento musicale in Italia, Sansoni, Firenze 1982, pag. 205.

    [7] F. Busoni, Giovanni Sgambati. Studio illustrativo dello stato attuale della musica in Italia, Il Saggiatore, Milano pag. 207, in http://www.rodoni.ch/martucci/busonisusgambati.html, cons. il 15.5.2019.

    [8] Cfr. Lettera di A. Bazzini a Julius Fuchs, 2 marzo 1876, in C. Sartori, L’avventura del violino. L’Italia musicale dell’Ottocento nella biografia e nei carteggi di Antonio Bazzini, ERI, Torino 1978, pag. 407.

    [9] In L’Art en Italie, Roma, 6 gennaio 1884, n.1, pp. 5-6; cfr. F. Busoni, Giovanni Sgambati. Studio illustrativo dello stato attuale della musica in Italia, op. cit.

    [10] P. I. Caikovskij, in Erinnerungen und Musikkritiken, Reclam, Lipsia 1974, pp. 60-62.

    [11] Cfr., S. Biguzzi, op. cit., pag. 62; sulla rivista «Musica d’oggi» si veda https://ripm.org/pdf/Introductions/MDOintroor.pdfcons. 19.VI.2019.

    [12] F. Nicolodi, Musica e musicisti nel Ventennio fascista, Discanto Edizioni, Fiesole 1984, pag. 24.

    [13] Dir. Gen. MinCulPop, Div. II, Sez. I, 20 agosto 1940 agli enti autonomi dei teatri lirici.

    [14] R. Giazotto, Popolo e valutazione artistica. L’arte di Verdi in clima fascista, in «Musica d’oggi», XXII 1940, n. 8-9, pp. 233-235.

    [15] F. Busoni, Giovanni Sgambati. Studio illustrativo dello stato attuale della musica in Italia, Il Saggiatore, Milano in http://www.rodoni.ch/martucci/busonisusgambati.html, consultato il 15.5.2019.

    [16] F. Nicolodi, Gusti e tendenze del Novecento musicale in Italia, op. cit., pp. 212-213.

    [17] ib., pag. 216; cfr., G. F. Malipiero, Busoni e Tosti a Parigi. «Il est bien italien», in «Orfeo», 31 maggio 1913, IV, n. 22, pag. 1.

    [18] F. Busoni, Lettere alla moglie, Ricordi, Milano 1955, 23 giugno 1913, pag. 215.

    [19] A. Casella, I segreti della Giara, Il Saggiatore, Milano 1941 pag. 96, cfr. F. Nicolodi, Gusti e tendenze del Novecento musicale in Italia, op. cit., pp. 230 e sgg.

    [20] Lettera ad A. Serrato del 27 giugno 1820, in ib., pag. 230.

    [21] L’espressione è della Nicolodi.

    [22] F. B. Pratella, La Germanofilia di un Divo, in Cronache e Critiche dal 1905 al 1917, Pizzi, Bologna 1918, pag. 41.

    [23] G. Guerrini, Ferruccio Busoni. La vita, la figura, l’opera, Monsalvato, Firenze 1944, pp. 196-197.

    [24] Sul festival di Venezia si veda, S. Biguzzi, op. cit., pag. 75 e sgg.

    [25] F. Nicolodi, Musica e musicisti nel Ventennio fascista, op. cit., pag. 166; cfr. S. Del Zoppo, Mussolini e i Compositori del Ventennio: estetizzazione della violenza, processi mitopoietici e riti del consenso nel contesto musicale italiano (1922-1939), in Gilgameš, sez. Musica e Spettacolo, riviste.unimi.it, pp. 191-2.

    § 2. Giovanni Gentile: la musica e il regime

    Come Busoni, anche lo stesso Toscanini subirà il diktat della censura quando il pubblico dell’Augusteo gli impedì di eseguire la Marcia funebre dal Crepuscolo degli dèi di Wagner poiché definita «musica nemica». [1]

    Ciò non sorprende se si ripercorre la lunga lotta del compositore parmense di idee socialiste contro Mussolini.

    È proprio sul terreno della musica, e grazie ad essa, che Toscanini volle e seppe rappresentare la forma democratica antitetica a quella autoritaria rappresentata dal Duce, che pure aveva apprezzato all’inizio della sua carriera politica.

    Come Gentile, anche Toscanini aveva considerato il fascismo come un movimento erede della tradizione risorgimentale, ossia come quella struttura politica e ideale che avrebbe potuto idealmente risolvere la storia dell’Ottocento italiano.

    Tuttavia, mentre il filosofo di Castelvetrano non riscontrò quella inconciliabilità tra il Risorgimento e il fascismo (almeno sino ai patti lateranensi del 1929, come ho ampiamente mostrato [2]), per Toscanini il fascismo fu paradigmaticamente, radicalmente contrario alla forma libertaria e laica dei governi che lo avevano preceduto.

    Come Croce però, il suo prestigio internazionale gli risparmiò l’esilio e le sofferenze che, invece, subirono altre voci discordi; mantenne infatti la direzione dell'Orchestra del Teatro alla Scala, nei fatti autonoma nel periodo che segnò l’affermazione del regime fascista sino alla fine degli anni Venti, quando il fascismo si pose in una posizione di inequivocabile autoritarismo rispetto ad ogni forma di espressione culturale.

    Pure Gentile, nel momento di maggiore crisi del suo potere politico, in concomitanza con la netta e per lui inaspettata sterzata del regime a favore di una mediazione, finanche una sintesi, con il Cattolicesimo alla fine degli anni Venti, e che coincise altresì con il cedimento del suo attualismo a tutto favore del naturalismo religioso di Francesco Orestano [3]; il filosofo di Castelvetrano si ritrovò alla guida della Scuola Normale di Pisa che pur dirigendo come un sovrano illuminato e liberale, rappresentava una posizione isolata e defilata rispetto a quella degli uomini ch’erano stati capaci di assicurarsi la fiducia di Mussolini e rispetto agli accesi e determinanti svolgimenti politici di quegli anni.

    Toscanini, comunque, sebbene fosse al riparo dal carcere o dall’esilio (deciderà lui stesso di auto esiliarsi negli Stati Uniti d’America), visti i suoi proclami di aperta ostilità al fascismo, subì una raccapricciante campagna di stampa denigratoria che lo colpì sul piano personale e professionale, e il grande direttore non mancò di rischiare addirittura la vita

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