Il merletto: Storia di Ann
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Il merletto - Valter Garatti
film
CAPITOLO I
Il lungo viale alberato sembrava non finire mai. Un tappeto compatto di foglie gialle spezzava il predominio dell’imperante, monotono, ininterrotto grigiore autunnale. In quella stagione, a una certa ora il viale si distendeva stancamente, quasi adagiandosi su sé stesso, come se volesse separarsi dal malinconico cielo metallico che sovrastava tutti con quella tonalità rattristante. Tutti conoscevano quella patina giallastra, ma nessuno si era mai abituato ai suoi tentativi di offrire un po’ di colore nelle poche giornate soleggiate. Queste insistenti e timide strisce colorate, sempre cangianti, non riuscivano a sconfiggere la monocromia delle giornate autunnali: venivano regolarmente sconfitte dal predominante, impassibile cielo di piombo. Poche, precarie e mutevoli aree, giallognole prima, rossastre in seguito, erano comunque succubi dello sconfortante quadro
; non riuscivano a far sorridere gli abitanti della città. Nonostante il leggero, fresco vento facesse mutare alle chiazze bicolore forme e dimensioni, con lentezza, cadenza e irregolarità ben note.
Camminando talvolta lentamente, altre volte con incedere spedito, i passanti evitavano di guardare i propri cappotti, per lo più di color grigio scuro, nero o marrone. Senza differenza cromatica tra ricchi e poveri. Quello che li distingueva era la qualità del tessuto e la fattura sartoriale, per coloro – pochi – che se lo potevano permettere. Oltre, naturalmente, ai rammendi che numerosi spiccavano su stoffe che troppi inverni avevano visto e sfidato. Chi li portava sulle spalle abbassava lo sguardo nell’incrociare coloro che quelle vesti consunte fingevano goffamente di non vedere.
In ogni caso la presenza del lungo ammasso di esauste foglie era sopportata; pareva godere della sua forza, della sua capacità di meravigliare le persone. Queste ben sapevano che non se ne sarebbe andato tanto presto. Concedeva ritagli colorati, in particolare nella stagione primaverile ed estiva, con moderazione: niente tonalità forti. Non poteva permettere che un’eccessiva varietà di colori insidiasse il metallico dominio del cielo. Una tonalità preponderante, sopra tutto e sopra tutti.
In basso, sul selciato, gli sguardi inclinati dei passanti si riflettevano su quello che gli alberi avevano lasciato cadere, giorno dopo giorno, in modo disordinato. Camminare su quel marciapiede bagnato, seminascosto dalle foglie, richiedeva la massima cautela. In più occasioni, negli ultimi mesi, cadute rovinose avevano ferito alcuni cittadini, in particolar modo i più anziani. Il sole non si affacciava se non per poche ore al giorno: più che vederlo, il serpentone giallo si intuiva, si fissava nella memoria. Si appiccicava alle suole degli stivali o delle scarpe, favorito dalla fanghiglia umida.
Coloro che si potevano permettere scarpe e stivali costosi ne erano infastiditi.
Ann camminava sempre con passo spedito. Non lasciava cadere lo sguardo sulle foglie, poiché sapeva che non sarebbe mai caduta. Qualcosa le diceva che il suo cammino non sarebbe mai stato interessato da uno scivolone o da un’incertezza. La sua sicurezza le veniva da dentro
; lo aveva sempre pensato, intuito, avvertito.
Intrappolata nella consueta sospensione di qualunque pensiero, si accorse di essere di fronte al palazzo solo perché un velocissimo piccione di fronte a lei la costrinse ad alzare lo sguardo.
Le grandi finestre del piano terra che si affacciavano imponenti sulla strada, occhieggiando sul marciapiede, erano di fronte a lei. I due piani superiori si stavano liberando dalla nebbia, che nel consueto silenzio del mattino si stava lentamente congedando dagli sguardi assonnati dei rari passanti curvi sulle spalle infreddolite.
Ai lati del gigantesco portone verde, sei finestre a sinistra e altrettante a destra, sui tre piani del palazzo, creavano una piacevole simmetria architettonica, bilanciando la parte centrale. Il portone sembrava sorreggere, almeno esteticamente, le due lunghe terrazze dei piani superiori. Questo vero e proprio monumento cittadino obbligava chiunque a fermare i propri passi per qualche istante. Non era soltanto ammirazione. Le decorazioni sulla parte superiore delle finestre, le luci e i chiaroscuri che si offrivano all’esterno, quegli occhi rettangolari sempre spalancati sulla strada; soprattutto quella grande porta quasi sempre chiusa… Non era soltanto curiosità o stupore ciò che si provava fermandosi qualche secondo di fronte al palazzo di Sir Albert. O, perlomeno, non era solo questo. La costruzione induceva in tutti un timore reverenziale. Ma non era un sentimento paragonabile alla paura. Pur essendo una tra le numerose importanti dimore della grande città, aveva qualcosa di diverso. Di non comprensibile.
Tutti, uomini e donne, rimanevano quasi ipnotizzati, inebetiti al cospetto della grande casa. Si fermavano, come se al suo interno qualcosa di misterioso catturasse con decisione la loro attenzione, obbligandoli a una breve sosta involontaria. Tutto durava una manciata di secondi. Ann si chiedeva per quale motivo il portone avesse quelle dimensioni.
Questo veloce pensiero durò in lei pochi istanti. Alzò lo sguardo verso il primo piano del palazzo, e parve accorgersi soltanto allora che le finestre erano in numero inferiore. Era la grandezza del portone la causa di questo. Riprese così un suo antico
dubbio, quasi un dilemma insistente nella sua mente vivacissima. Perché quell’ingresso era così esageratamente grande?
Le carrozze entravano e uscivano dal retro del palazzo; da quel portone verde entravano solamente le persone; i fornitori; la servitù; non si trattava di una esagerazione? Le avevano spiegato che era normale. Che era il simbolo, o meglio, uno dei segni delle famiglie ricche. Non benestanti: ricche. Quindi importanti. Influenti. Questa considerazione non cambiava l’idea della giovane domestica: non avrebbe mai accettato che le cose, alcune cose in particolare, si presentassero ai suoi occhi in quel modo. Era convinta in cuor suo di non essere l’unica a pensarla così. Non riusciva a trovare qualcosa di positivo, una giustificazione alle dimensioni di quel gigantesco portone.
La libertà di tutti nelle proprie scelte non era messa in discussione. Non era questo il punto. Lei, giovane al servizio di ricchi banchieri, rispettava tutti e tutto. Semplicemente, cercava di vedere un qualche senso in quello che il mondo le poneva ogni giorno di fronte agli occhi; il suo mondo interiore era diverso, e a lei non importava se fosse migliore o peggiore del mondo reale. No. Lei non giudicava mai niente e nessuno; e mai lo avrebbe fatto in futuro.
Tra le tante immagini che ogni giorno entravano nella sua mente attraverso gli occhi seminascosti dal cappellino chiaro, quell’enorme portone le portava stupore negativo; non le era indifferente. Era una presenza disturbante. Soprattutto nel momento in cui la piccola porta ricavata al suo interno si apriva per farla entrare, dopo che le sue dita affusolate avevano fatto suonare il campanello, azionato dalla leva di ottone, ellittica, lucidata perfettamente ogni mattina. Il sole, quando si degnava di regalare qualche raggio, rendeva il metallo dorato splendente, proiettando alcuni tremolanti riflessi sulla strada e sul muro del palazzo.
L’anziana governante la accoglieva con i suoi capelli d’argento raccolti sulla nuca e le mani seminascoste nella divisa bianca e nera. Rose si comportava sempre allo stesso modo: il primo sguardo ossequioso era per coloro che stavano entrando. In seguito sporgeva il capo oltre la porta semiaperta, senza spostare il suo corpo appesantito dall’età e dalle fatiche giornaliere.
Lanciava un’occhiata sulla strada, con discreta, controllata curiosità. In un attimo riusciva a fotografare
tutto e tutti. Trovava piacere nell’osservare le carrozze che ordinate le passavano dinanzi. Si rallegrava nel sentire il suono rilasciato dagli zoccoli dei cavalli tirati a lucido. Nonostante avesse pochi secondi a disposizione, riconosceva i passeggeri all’interno, altezzosi e seminascosti dietro le tende damascate. La sua memoria visiva la aiutava. Talvolta aveva intrattenuto a colloquio gli eleganti impettiti cocchieri durante le brevi soste di fronte al portone. La sua lunga permanenza a palazzo e la sua memoria facevano il resto.
La piccola porta: tutti entravano da quell’apertura ricavata all’interno del portone.
Tutte le persone normali
. Gli altri, quelli che contavano, entravano dal retro guardando con indifferenza i passanti dall’interno delle carrozze, sfiorando con i loro nasi i vetri appannati. Sovente, specialmente nei mesi estivi, le signore si nascondevano dietro il loro ventaglio a volte immobile fingendo di patire la calura. Forse questa era la vera funzione di questo oggetto sempre in movimento di fronte al viso.
In ogni caso, perché tanto spreco di legno, se tutti entravano da una piccola porta e gli ospiti importanti dal retro? Ann, infatti, non aveva ancora visto il portone spalancarsi completamente.
Questo pensiero, per certi aspetti bizzarro, svanì nel momento in cui raggiunse lo spogliatoio, dopo aver percorso qualche decina di