Novelle Criminali
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“Novelle criminali” racconta la paranoia della malavita che intercetta il mondo semplice di un marcantonio di ragazzo con l’unica colpa di essere felice e contento del suo lavoro da panettiere; dice dell’eroina, della disperazione al tempo delle lire e degli abusi santissimi nel nome di Dio e mette in scena una folla di uomini qualunque mai veramente tali, a masturbarsi nervosa sul disvalore costante e feroce delle intenzioni e dei sentimenti, pure quelli al nero, che si risparmia. Gente guasta al giardino dei desideri malati, di quando te ne vai in giro solo per incrociare gli occhi della gente, vittime sacrificali in cerca di riscatto, cacciatori di Pokemon ed empatia, scassinatori di professione, preti pedofili, mangiacuori seriali e moralizzatori in missione contro il peccato, a invocare un provvidenziale repulisti. Una (dis)umanità organizzata che attraversa il tempo, impastata a secco al male di vivere e alla meschinità dell’uomo piccolo piccolo.
Dalla prefazione di Erika Di Giulio
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Novelle Criminali - Salvatore Amato
Salvatore Amato
NOVELLE CRIMINALI
Elison Publishing
© 2021 Elison Publishing
www.elisonpublishing.com
ISBN 9788869632792
PREFAZIONE
Un’antologia di racconti al sangue, talvolta impossibili da digerire. Esistenze battute allo scalpello che schizza fuori corpi, carne cruda, muscoli e legamenti. Ridotte a brandelli, dannate sulla via di un’impraticabile ricomposizione. E la mano di Salvatore Amato è quella di un bravo artigiano, non c’è che dire. A confermare un’innegabile verve e una certa abilità nella costruzione della dinamica narrativa e dei personaggi. L’autore se ne sta dietro ai suoi, anime perse, interviene quand’è il caso, e dice Io
, tendendo le redini fino a spezzarle, che la vena pulp gli pulsa tosta in fronte. E non gli sfugge un attimo: infila sfacciato il coup de théâtre, dosa e rivela al punto giusto, sollecitando quel lettore confidente, preso a schiaffi senza pietà alcuna e per niente assecondato nel segreto desiderio di giustizia e lieto fine, che poi, in effetti, quando mai.
Novelle criminali
racconta la paranoia della malavita che intercetta il mondo semplice di un marcantonio di ragazzo con l’unica colpa di essere felice e contento del suo lavoro da panettiere cornuto; dice dell’eroina, della disperazione al tempo delle lire e degli abusi santissimi nel nome di Dio e mette in scena una folla di uomini qualunque mai veramente tali, a masturbarsi nervosa sul disvalore costante e feroce delle intenzioni e dei sentimenti, pure quelli al nero, che si risparmia. Gente guasta al giardino dei desideri malati, di quando te ne vai in giro solo per incrociare gli occhi della gente, vittime sacrificali in cerca di riscatto, cacciatori di Pokemon ed empatia, scassinatori di professione, preti pedofili, mangiacuori seriali e moralizzatori in missione contro il peccato, a invocare un provvidenziale repulisti. Una (dis)umanità organizzata che attraversa il tempo, impastata a secco al male di vivere e alla meschinità dell’uomo piccolo piccolo.
Tra rapine allo zoo degne di un’armata Brancaleone, manate di cannibalismo gourmet che manco a Masterchef e piccole truffe per salvarsi il culo – che in qualche modo tocca pure campare e riconciliarsi con la sanità di corpo – le storie si consumano livide e in fretta, che i colori se li sono portati via da un pezzo i cattivi della terra. I trafficanti d’uomini e quelli che hanno violentato la natura, trasformandola nel non luogo della monnezza, che hanno colato il petrolio nei fiumi e hanno ridotto il cielo al grido di morte di un gabbiano che squarcia il silenzio. Che forse era meglio finire scannati dal boss che rosicati dai topi o ammazzati per mano dei tutori del disordine.
Nel rimbombo testuale di umori e situazioni e nel vociare dei protagonisti che si fa verso indistinto di passione, Amato confeziona undici racconti legati dal filo tagliente del crimine contro l’umanità e poi contro se stessi, frustrando gli esiti e rovistando tra viscere e malaffare, a indugiare su orifizi, morsi e avanzi d’uomo, che le vie del signore sono belle che finite e la credenza popolare soffia ancora forte insieme a bustarelle, perversioni sessuali, reality show e viaggi della speranza, che fino all’ultimo ci vuoi credere che bacerai terra, pure se non è la tua.
Erika Di Giulio
(Articolo pubblicato su Progetto Medea il 04/01/2019)
A Eleonora,
che cammina al mio fianco
anche in salita.
LA STORIA DI CALOGERO
Calogero era un ragazzo di bell’aspetto, semplice, pacifico, sempre sorridente e vitale; tutti quelli che lo conoscevano gli volevano bene e a volte, come spesso accade, molti si approfittavano della sua bontà.
Da circa un anno aveva iniziato a lavorare in un panificio e stava imparando l’arte della panificazione.
Amava quel lavoro, lo rendeva entusiasta pensare che il suo pane sarebbe stato presente nelle tavole di molti suoi paesani, dal ricco industriale all’operaio, dal disoccupato al precario. Il suo pane non faceva distinzioni di classe, di ceto, di sesso e nemmeno di razza o culto, era così: puro, semplice e buono da poter essere apprezzato da tutti, tutti eccetto i celiaci perché il panificio dove lavorava Calogero non era abbastanza attrezzato per fare del pane senza glutine.
Quel lavoro che amava tanto gli avrebbe finalmente permesso di mettersi qualche soldo da parte per sposare la sua bella fidanzata Filomena. Intanto, aveva da poco lasciato la casa dei genitori ed era andato a vivere da solo. Aveva ormai ventisei anni e sentiva che era arrivato il momento di muoversi alla ricerca della sua indipendenza e di iniziare il suo cammino nel costruirsi una vita e una famiglia tutta sua.
Si era trasferito in una mansarda di un piccolo palazzo di tre piani. La mansarda un tempo era la lavanderia della palazzina, destinata all’uso di tutti i condomini, poi negli anni Ottanta, un boss mafioso locale aveva comprato tutto l’edificio e trasformato la lavanderia in un piccolo monolocale, per aumentare gli introiti degli affitti.
Questa abitazione non era certo una reggia e non sarebbe neanche stata la futura casa dove, una volta sposata la sua morosa, avrebbe trascorso tutta la sua vita, ma per adesso andava più che bene; era molto economica e questo permetteva a Calogero di mettere i soldi da parte per il suo matrimonio e il suo avvenire insieme alla donna che amava.
In poche parole, era un periodo bellissimo per il nostro personaggio e lui era al settimo cielo per la gioia.
Data la natura vitale di cui era stato dotato e la felicità per tutto quello che gli stava succedendo, a Calogero capitava spesso di non riuscire a contenersi e mentre scendeva le scale per andare a lavorare, fischiettava gioiosamente il motivetto di qualche canzone che sentiva alla radio del panificio.
Nessun condomino si era mai lamentato per questa cosa e tutti continuavano a vedere Calogero come un bravissimo ragazzo, lavoratore, di buon cuore e con i piedi per terra. Forse non proprio tutti. In verità c’era una persona a cui questo gioioso fischiettio dava parecchio fastidio, ma non se ne era mai lamentato con nessuno, non era nella sua persona lamentarsi e nemmeno ne aveva bisogno, perché costui era Don Vito Castrensi, il padrone dello stabile, con un passato che si può definire quantomeno discutibile, sia dal punto di vista etico e morale, sia dal punto di vista legale.
Castrensi aveva iniziato la sua carriera nel crimine organizzato all’età di sedici anni come tutto fare del boss dell’epoca e negli anni che seguirono la sua crescita, si era conquistato la fiducia di molti capi quartiere e aveva scalato la vetta della gerarchia piramidale. All’età di vent’anni, infatti, era già temuto in tutto il quartiere, era diventato uno dei sicari più spietati della cosca dei Mannuzzi. Questa sua fama di guerriero impavido e fedele al boss lo aveva in seguito portato a diventare il braccio destro del temutissimo Cesare Mannuzzi, ma la sua sete di potere era così forte da non permettere a niente e a nessuno di frenare la sua ascesa alla vetta, assumendo la posizione di boss locale a soli trent’anni e conservandola ancora all’età di sessantotto.
Nella malavita, le promozioni ai vertici non è che siano proprio dovute a un concetto di meritocrazia, ma quasi sempre il modus operandi è ben diverso, più simile a un ammaraggio in una nave, una rivolta che poi si trasforma in una vera guerra tra famiglie per il controllo degli affari illeciti.
All’età di ventotto anni, Vito uccise il boss e non fu difficile, visto che Cesare Mannuzzi si fidava di lui; corresse il suo cibo con del veleno per topi. Di lì a poco, promettendo più soldi agli scagnozzi che lo seguivano, aprì una guerra a tutta la cosca dei Mannuzzi, finché non li sterminò tutti, anche donne e infanti. Nel giro di due anni di stremante guerra, aveva estirpato per sempre ogni singola stilla del sangue di quella stirpe e aveva raggiunto l’agognato potere a cui tanto ambiva, si era circondato di uomini fedeli e anche di un paio di persone che assaggiavano il suo cibo prima che lui lo mangiasse, proprio come gli antichi imperatori; e proprio come loro governava sul suo impero. Con la forza acquisita di una divinità, decideva chi doveva vivere e chi invece doveva subire il peso della sua spada, pagando con la morte.
In quegli anni di sangue, sparatorie, cadaveri nei vicoli, bombe nelle macchine, le altre famiglie erano rimaste in disparte a guardare il capovolgimento del comando, un po’ perché i Mannuzzi pretendevano sempre tributi più esosi e si erano presi, oltre ai migliori quartieri per lo spaccio di droga, anche gli appalti più remunerativi. Insomma, erano un po’ tutti stanchi di quella gestione e non avendo risorse per combatterli, si girarono dall’altra parte quando a cominciare la guerra era stato proprio Vito; inoltre non vedevano nel giovane una vera e propria minaccia, sia per l’età che per l’inesperienza. Sottovalutarono alcuni fattori determinanti come la fame, ne abbiamo l’esempio dei corleonesi, chi pensava tra i vari boss dell’epoca che quattro villani, o come li chiamavano loro i peri incritati
, ovvero piedi sporchi, in quanto figli di contadini, sarebbero riusciti in seguito a prendere il comando di Cosa Nostra. Un’altra cosa che sottovalutarono fu la determinazione e l’ambizione di Vito, che non si sarebbe mai fermato, neanche una volta raggiunto il suo obbiettivo. Fu per questo che una volta scalata la vetta della piramide, i membri delle altre famiglie dovettero accettarlo come boss, poiché con quella guerra ai Mannuzzi aveva dimostrato che con la sua cosca c’era poco da scherzare e nessuno voleva altri inutili spargimenti di sangue; volevano solamente tornare nel business e si sa, il troppo sangue fa male agli affari.
Ormai Vito era vecchio e da anni si teneva lontano dall’azione, ma aveva un esercito personale di giovani soldati, forti, spietati e ubbidienti.
Ubbidienti è diverso da fedeli e anche se gli uomini della cosca Castrensi, divenuta ormai una leggenda nella malavita, lo erano nei riguardi del loro capo, Vito era diventato paranoico. Non sentendosi più forte come una volta, vedeva nemici ovunque, era sicuro che prima o poi qualche giovane leone lo avrebbe ucciso per prendere il suo posto di capo branco, ormai per un piccolo sospetto di infedeltà nei suoi confronti, dava l’ordine di morte: erano tornati altri anni