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Canti della città
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Canti della città
Ebook158 pages2 hours

Canti della città

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About this ebook

La città ha un nome e mille nomi. Ha una voce e mille voci. E storie da raccontare.
Palazzi decadenti, vecchie carceri, vicoli stretti e claustrofobici, piazze deserte immerse nella nebbia: la città è il palcoscenico sul quale si muovono i protagonisti di queste storie nere. Un teatro in cui trovano spazio l’orrore e la violenza, e amore e morte vanno a braccetto.
I racconti che compongono questa raccolta vogliono sussurrare all’orecchio del lettore che la nostra quotidianità è popolata di incubi, di ombre che si annidano dietro ogni angolo, fino ad allungarsi dietro la porta di casa, dove ci sentiamo più al sicuro. Che gli orrori ancestrali non hanno mai smesso di farci paura. E che anche nelle nostre città, così piene di luci e brulicanti di voci, il buio riesce a ritagliarsi il suo spazio.
LanguageItaliano
PublisherPubMe
Release dateMay 7, 2021
ISBN9788833668581
Canti della città

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    Canti della città - Alberto Rudellat

    COLLANA ATER

    Alberto Rudellat

    CANTI DELLA CITTÀ

    Canti della città

    Pubblicato da © Pubme - Collana Ater

    Prima Edizione Maggio 2021

    ISBN: 9788833668581

    Immagine di copertina: autore  - Sasha Freemind.

    https://unsplash.com/photos/Pv5WeEyxMWU

    Impaginazione e grafica: PubMe staff

    Il logo di Ater è stato creato da Antonio Esposito.

    Questa è un’opera di fantasia. Nomi, personaggi, luoghi ed eventi narrati sono il frutto della fantasia dell’autore. Qualsiasi somiglianza con persone reali, viventi o defunte, eventi o luoghi esistenti è da considerarsi puramente casuale.

    Questo libro contiene materiale coperto da copyright e non può essere copiato, trasferito, riprodotto, distribuito, noleggiato, licenziato o trasmesso in pubblico, o utilizzato in alcun altro modo ad eccezione di quanto è stato specificamente autorizzato dall’autore, ai termini e alle condizioni alle quali è stato acquistato o da quanto esplicitamente previsto dalla legge applicabile (Legge 633/1941).

    Primo – I vicoli

    Passi di uomini perduti

    Ma il presente non è meno oscuro del passato,

    e il suo mistero è pari ai segreti che serba il futuro.

    Così va il mondo: un passo dopo l’altro,

    una parola e poi la successiva.

    P. Auster, «Trilogia di New York».

    Aspettai che Mathieu si fosse allontanato, prima di alzarmi dal tavolino all’angolo del piccolo parco. Lasciai una banconota accanto ai due bicchieri vuoti e oltrepassai il cancello. Era una sera d’inizio estate e il cielo cominciava lentamente a imbrunire: si riusciva già a scorgere il profilo pallido della luna sopra i tetti. Le finestre aperte iniziavano a illuminarsi come fiammiferi nell’incavo di una mano, e ogni casa era un mondo, segreto e inaccessibile.

    Le strade erano insolitamente vuote e i miei passi risuonavano sul selciato con tonfi secchi. Lo sguardo inchiodato a terra, attraversai la piazza immerso nei miei pensieri, preceduto dalla mia ombra che si allungava fino a lambire gli scalini della chiesa.

    Quando si cammina, raramente capita di guardarsi indietro, eppure ricordo che lo feci, spinto soltanto dall’istinto: mi voltai di scatto, in cerca di un rumore, di un suono soffocato di passi, ma alle mie spalle non trovai altro che una spianata deserta, tinta di viola dal sole morente. Sospirai, mi asciugai la fronte e imboccai uno dei vicoli che si allungavano dalla piazza, simili alle dita ricurve di un vecchio. La città ha un nome e mille nomi, ma quella sera sembrava deserta, silenziosa come un relitto affondato nell’oceano, e quella strana quiete, anziché calmarmi, mi riempiva di inquietudine. Un crudele scherzo della memoria mi fece ritrovare un ricordo che credevo di aver perso per sempre: il corridoio della mia casa d’infanzia, un lungo rettilineo buio che attraversavo trattenendo il respiro, sul quale si affacciavano stanze in cui mi era proibito entrare, in fila come bocche spalancate da cui ero certo sarebbe emerso qualcosa che aveva la forma dei miei incubi. A distanza di anni provai la stessa sensazione, la paura che solo un bambino può provare: un terrore puro, generato da una fantasia non ancora corrotta dalla razionalità, che è ancora in grado di creare mostri e di credere ciecamente alla loro esistenza.

    Avevo accelerato il passo senza accorgermene e adesso avevo il fiato corto. La prima goccia di pioggia mi cadde sulle nocche, bagnando il filtro della sigaretta che tenevo tra le dita. Imprecai tra le labbra. Appoggiai la schiena contro un muro ruvido e presi un lungo respiro. Lame di buio si allungavano sotto i portici. Mi imposi di essere razionale: mi stavo lasciando suggestionare dalla strana atmosfera che pervadeva la città. Tutto qui. Ma sarebbe bastato girare l’angolo per ritrovare i suoni conosciuti: il ruggito monotono del traffico, le risate sguaiate e il tintinnare di bicchieri dai tavoli affollati per il rito dell’aperitivo. Accesi la sigaretta e ripresi a camminare con studiata lentezza.

    Mi rifiutavo di ammetterlo, ma dentro di me sapevo che intorno non avevo più niente di familiare: la città restava muta, come se il tempo avesse smesso di scorrere, e io mi sentivo come un viandante perso dentro un bosco sconosciuto e inospitale, senza più punti di riferimento, senza una luce a guidare i miei passi. La faccia della luna si nascondeva dietro una schiuma di nuvole nere e la pioggia aveva preso a scrosciare. Gocce fredde che mi picchiavano sulla fronte e mi rigavano il volto, scivolando lungo il collo a confondersi con il sudore della paura. L’odore di asfalto bagnato mi invase le narici. Un soffio di vento mi fece rabbrividire.

    Cercai riparo sotto un balcone, a un angolo di strada poco illuminato. Mi vidi riflesso nella vetrina di un negozio di antiquariato, ingobbito sotto il peso della camicia inzuppata di pioggia, gli occhi spiritati, le labbra contratte, i capelli appiccicati alle tempie in grosse ciocche simili ad alghe portate a riva dalla corrente. Provai insieme pietà e disgusto per quello che stavo vedendo. Poi tutto accadde in una frazione di secondo, così in fretta che la mia mente intorpidita non fece in tempo a registrarlo: riflessa nel vetro, alle mie spalle, scorsi una figura confusa e distorta, così vicina da farmi sussultare. Mi voltai di scatto, ritraendomi bruscamente, ma la strada era deserta.

    Le mie mani tremavano e le gambe si erano fatte rigide, l’angoscia mi mordeva la gola, il sangue mi pulsava nelle tempie a ondate. Mi tuffai alla cieca nella ragnatela di viuzze contorte e claustrofobiche, senza voltarmi indietro, barcollando come un ubriaco, raschiando le spalle contro il muro senza riuscire a formulare un pensiero coerente.

    Per quanto ci sembri di conoscerle, le città hanno segreti che custodiscono gelosamente, nascosti lontano dagli occhi, come gioielli nelle case immobili di vecchie signore. Soltanto quando finalmente mi fermai, esausto, annaspando nella pioggia, mi resi conto di aver perso del tutto l’orientamento. Mi trovavo al centro di una piccola corte stretta nell’abbraccio di case basse e nere, dai muri scrostati, che incombevano su di me come nubi che annunciano una tempesta. Sollevai gli occhi, spalancando la bocca in cerca d’aria. Le finestre illuminate ammiccavano simili a lucciole intrappolate in un bicchiere. Sopra la mia testa, le stelle non erano niente più che spilli appuntati su un cielo di carta.

    Spinti dal vento, come il suono della risacca, mi arrivavano echi di risate sommesse e sussurri, gemiti rauchi che si facevano sempre più vicini fino a soffiarmi nelle orecchie. Specchiai il volto in una pozzanghera, ma non lo riconobbi.

    Senza più forze, le gambe che a stento mi reggevano, mi incamminai nella notte, lungo strade per sonnambuli che non portano in nessun luogo.

    La notte finì, aprendo il sipario su una nuova alba, e la mia voce si perse tra le altre come molte prima di me.

    La città nasconde i suoi fantasmi sotto la luce dei lampioni, in fila sul lungofiume come una processione, nelle notti senza luna; nei cortili silenziosi che ci fanno trattenere il respiro quando li attraversiamo; nelle ombre ricurve che si incuneano sotto le soglie.

    Ci ha visti nascere e ci vedrà morire. Ma lei, la città, non morirà mai.

    Perché ha un nome e mille nomi.

    Nella nebbia

    Era una pagina paurosa del libro della mia esistenza,

    tutta scarabocchiata di ricordi confusi, orrendi, incomprensibili.

    E. A. Poe, «Berenice».

    Uscì poco prima dell’alba, quando la luna sprofondava ormai nelle acque torbide all’orizzonte. Stretto in un cappotto fuori moda, il nodo della cravatta allentato e una sigaretta tra le labbra; gli occhi, nascosti dietro le lenti tonde, arrossati dalla notte trascorsa sui libri alla luce di una lampada da tavolo, in una stanzetta d’albergo nel vecchio ghetto ebraico in cui il sole non arrivava mai. Sentiva il bisogno di camminare per sciogliere i muscoli delle gambe prima di concedersi qualche ora di sonno. Senza meta, con il solo obiettivo di distrarsi e scordare l’argomento dei suoi studi: portare i pensieri lontano da torture e abiure, clavicole slogate e tenaglie arroventate, celle oscure infestate di topi ed eretici arsi sul rogo.

    Era una notte di gennaio e il fumo della sigaretta si confondeva con gli sbuffi del suo fiato. La città dormiva ancora e i suoi passi risuonavano sul selciato umido. Un filo di nebbia si alzava dai canali. Le gondole, addossate ai muri, stavano abbandonate a dondolare sull’acqua. Sotto la luce pallida dei lampioni si inoltrò per vicoli contorti come i sogni di un fumatore d’oppio e, prima di attraversare il ponte, si fermò a specchiarsi nell’acqua che lambiva le fondamenta dei palazzi.

    Il lamento che giunse dall’altro lato del ponte spezzò il silenzio nel quale la città era immersa. Sporgendosi oltre l’ultimo gradino, allungò il collo e strinse le palpebre per mettere a fuoco, cercando di individuare l’origine di quel suono, ma la nebbia velava la visuale, distorcendo i contorni del paesaggio.

    Avanzò un passo alla volta, reggendosi alle spallette, e la trovò lì, rannicchiata sul marmo gelato, avvolta in un parka verdastro. I capelli cortissimi mettevano in risalto due occhi malinconici, neri come stelle spente. Le labbra, contratte dallo sforzo, lasciavano scorgere una fila di denti di porcellana tra le cui fessure soffiava il rantolo che l’aveva richiamato. Le braccia scoperte, la pelle lucida solcata da vene azzurre. Le gambe divaricate, il grembo nudo offerto alla notte. Soltanto allora si accorse della pancia: gonfia e perfettamente tonda, tesa come la pelle di un tamburo. E del sangue che sgorgava, marchiando i gradini.

    Rimase immobile, incapace di muoversi. La ragazza allungò una mano e strinse il suo polso, affondando le unghie nella carne. Urlava, senza articolare parole: un grido primordiale, così intenso e roco che sembrava provenire dal fondo di una voragine. Si chinò su di lei, le mani che tremavano, e le allargò le gambe, mentre le urla gli trapassavano il cervello. Tuffò le braccia in quel lago di sangue, immerse le dita in un guazzo caldo e colloso, fino a sfiorare qualcosa di vivo e pulsante che afferrò e tirò a sé con tutta la forza che aveva. Il primo vagito fu il suono più dolce che avesse mai sentito. Strinse il neonato contro il petto, sentendo il suo cuore vergine battergli addosso, riempiendosi i polmoni del profumo di una vita appena nata.

    Con tutta la cura di cui era capace lo adagiò tra le braccia della madre. Lei abbassò lo sguardo sul dono che le veniva offerto e lo fissò per un lungo istante. I suoi occhi si spalancarono in un’espressione di puro terrore e le sue braccia scattarono come molle, scagliando in acqua quel piccolo corpo nudo con lo stesso ribrezzo con cui ci si scrolla di dosso un ragno.

    Lui non fece in tempo a formulare un pensiero: l’istinto ebbe il sopravvento e si tuffò. Il contatto con l’acqua gelida gli mozzò il fiato. Appesantito dai vestiti, gli occhi spalancati nel buio liquido, mulinò le braccia in cerca di un miracolo.

    L’aria nei polmoni era ormai finita e inghiottì un sorso fangoso che gli graffiò la gola prima di riemergere. Tra le braccia stringeva un corpicino immobile. Sporse le braccia irrigidite dal gelo e lo adagiò sul lastricato. Guardò la madre con una supplica negli occhi, ma lei non si mosse.

    Ancora immerso nell’acqua torbida, i gomiti sulla sponda, allungò una mano per sentire il cuore del neonato. Si rifiutò di credere a ciò che la sua vista sfocata gli restituiva. La luce del lampione illuminava un bambolotto sporco e rovinato, braccia e gambe contorte nell’accenno di un abbraccio. Cercò gli occhi della madre, ma sugli scalini del ponte, appena visibile, trovò soltanto un manichino abbandonato: lo sguardo immobile, la bocca spalancata in un urlo muto.

    La sua mente vacillò. Le gambe, stanche di tenerlo a galla, si fecero pesanti e l’ultimo soffio di fiato si perse nel velo di nebbia.

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