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Napoleone e le sue isole
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Napoleone e le sue isole

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Il 5 maggio 1821 Napoleone Bonaparte muore in esilio sull'isola di Sant'Elena. Tre isole sono state protagoniste, nel bene e nel male, della vita di questo straordinario personaggio. Innanzitutto, la Corsica, in particolare Ajaccio, dove il futuro imperatore nasce il 15 agosto 1769 e dove un profumo intenso, misto di leggenda e mirto selvaggio, avvolge la sua vita. Poi l'Elba, poco distante dall'isola che gli aveva dato i natali, simile nei suoi colori mediterranei, dove Napoleone sbarca in esilio nel 1814, dopo l'abdicazione, accompagnato dai suoi fedeli soldati, e da cui fugge nel febbraio del 1815 per tornare a Parigi in trionfo. Infine, Sant'Elena, poco più di uno scoglio in mezzo all'Oceano Atlantico, che lo accoglie definitivamente sconfitto dopo la battaglia di Waterloo e dove morirà per una malattia nel 1821. Attraverso le sue parole si svela l'essenza di un uomo dallo spirito indomito, colto nel momento della disfatta, del rinnovato entusiasmo e, da ultimo, della fine di ogni speranza.

"Il male del secolo è l'insularità dell'anima,
dell'impossibilità di stabilirsi sulla terraferma,
del rifiuto della dimora"
Emil Cioran


LanguageItaliano
PublisherIlSole24Ore
Release dateMay 13, 2021
ISBN9788863458299
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    Napoleone e le sue isole - Luigi Mascilli Migliorini

    Capitolo primo

    Bellissima

    Un profumo intenso, misto di leggenda e di mirto selvatico, avvolge la vita di Napoleone ancor prima che egli venga al mondo. Raccontano alcuni dei suoi biografi che la sua nascita avvenne in una grotta nei boschi del monte Rotondo, una delle cime più alte e impervie dell’isola di Corsica. La madre, già incinta di lui e portando con sé il figlio primogenito Giuseppe che aveva allora poco più di un anno, si era trascinata fin lassù per seguire il marito, Carlo, in cerca di rifugio dai soldati francesi dopo che le poche truppe dell’esercito indipendentista corso di cui faceva parte, erano state sbaragliate dall’esercito di Luigi XV, venuto a occupare l’isola che l’anno prima la Repubblica di Genova aveva venduto al sovrano francese. Strano tipo, quel Carlo Buonaparte (la famiglia conserva ancora quella u che ne rivela le origini italiane e che Napoleone cambierà poi in un Bonaparte assai più facile a pronunciare per i francesi), avvocato di Ajaccio, dalla discreta fortuna economica e con il pallino per la libertà della sua isola e per la nobiltà. Due cose che non andavano esattamente d’accordo. Tramontati, infatti, nella battaglia detta di Ponte Nuovo, i sogni di indipendenza, Carlo si mise a coltivare l’amicizia dei nuovi padroni sperando che da essa scaturisse qualche vantaggio per sé, ma soprattutto per i figli che si aggiungevano sempre più numerosi in casa Bonaparte (alla fine, e senza contare quelli morti prematuramente se ne conteranno sette tra maschi e femmine). Famiglia, dunque, di sicure origini italiane, dalle origini quasi altrettanto sicuramente toscane, di San Miniato, anche se altre città, Sarzana e Treviso in particolare, non mancarono poi di vantare il privilegio di essere state all’origine del grande Imperatore. Carlo scavò a lungo nella storia di famiglia, convinto che in qualche modo si potesse provare la legittimità di una discendenza nobiliare che avrebbe indubbiamente facilitato il suo piano di inserirsi – e di inserire i suoi figli – nel tessuto della brillante società francese di fine Settecento, fosse pure ai gradini più bassi in attesa di successive scalate. Si affannò, dunque, per tutta la sua breve esistenza a cercare carte, a farsi riconoscere documenti che provassero quella antica nobiltà e che gli consentissero di uscire dal ristretto perimetro di un’isola nella quale non c’era altra prospettiva che condurre una vita poco più che dignitosa, come era capitato a lui, come non doveva capitare ai suoi figli.

    La casa in cui, in realtà, nacque Napoleone, e che egli a Sant’Elena, negli ultimi anni della sua vita, amava ricordare come la sobria dimora di una famiglia di discreta condizione sociale, era, in effetti, la casa decorosa, ma lontana da ogni sfarzo, di una famiglia che oscillava tra una semplicità borghese e una leggerissima tinta di nobiltà provinciale. La descrive bene, sul finire dell’Ottocento, Pierre Loti, che in quell’edificio nel cuore di Ajaccio, ma defilato in una via laterale e affacciato su un giardino ombroso sembra trovare il riflesso delle proprie malinconie (Lettura: La casa di Ajaccio). Entra salendo i gradini di una scala usata dal tempo, tra mura d’intonaco sgualcito, sbirciando nel piccolo cortile interno, triste, senza vegetazione, circondato da case alte e antiche, dove poteva immaginarsi che avesse giocato «quel bambino singolare destinato a diventare Imperatore». Lo accoglie la sala da pranzo, con la tavola e le sedie di una bizzarra forma all’antica in cui si racchiude l’eleganza sommessa di un mondo minore che non è povertà e non sarà mai ricchezza. Modesta è anche la stanza dove dormiva l’adolescente Napoleone; modeste ma orgogliose sono le altre stanze, nei loro arredi appena toccati da una tentazione di lusso che non è mai pretenziosa; modesta è, tra di esse, la stanza di passaggio dove, negli ultimi giorni della sua gravidanza, era stato allestito per Letizia un letto di maggiore comodità.

    Nessuna grotta tra i monti, dunque, ma la leggenda non mancò di insinuarsi anche tra le mura e i corridoi di quella tranquilla casa borghese. Pare, infatti, che in quella stanza di passaggio attrezzata in maniera assai provvisoria per il parto ci fosse non una culla ma un tappeto sul quale venne adagiato, alla sua nascita, il piccolo Napoleone e che quel tappeto – lo racconta addirittura Stendhal – fosse decorato a grandi figure degli eroi dell’Iliade, segno inequivocabile delle future imprese guerresche che attendevano l’inconsapevole neonato. Quando dovette raccontare le circostanze della sua nascita Napoleone non fu, tuttavia, meno incline alla prosa leggendaria e mescolando storia ed entusiasmi patriottici, la volle immaginare così: «Nacqui quando la patria moriva. Trentamila francesi vomitati sulle nostre coste, annegando il trono della Libertà nei flutti del sangue: questo fu lo spettacolo odioso che per primo colpì il mio sguardo». In realtà i suoi primi anni furono assai meno accesi di quelli che sembra suggerire questa celebre lettera scritta vent’anni più tardi all’idolo della sua giovinezza, Pasquale Paoli, costretto allora a fuggire dall’isola. La Corsica della sua prima infanzia non poteva che racchiudersi nel perimetro assai circoscritto delle viuzze, tipiche di una città mediterranea, della vecchia Ajaccio. La città allora aveva meno di quattromila abitanti, la vita dei quali si svolgeva quasi tutta all’aperto, conoscendosi ovviamente gli uni con gli altri: i più piccoli scorrazzando per le strade in una inconsueta libertà, tra risse, giochi, battaglie, gli uomini trascorrendo il tempo in interminabili discussioni sulla piazza pubblica. Uno spazio ristretto tra mare e terra, ma vastissimo per la fantasia di un bambino, che rappresenta la prima isola che Napoleone abitò. Lo fece, a stare ai suoi ricordi di Sant’Elena, con la vivacità di un bambino irrequieto, pronto a battersi con i suoi compagni di gioco o a difendere, sempre con energia Giuseppe, il fratello maggiore, di due anni più grande ma dal carattere assai più docile del suo. Del suo carattere «turbolento, svelto, vivace, prontissimo» (è così che parla di sé nelle pagine del Memoriale di Sant’Elena) approfittarono quasi tutti i suoi primi biografi, vedendo in esso l’immancabile annuncio del futuro condottiero. A tre anni – racconta uno di essi – cominciò a imparare l’alfabeto, ma la sua passione erano, in realtà, i fucili, i tamburi le spade, i soldati che passavano per le strade sfilando e di cui avrebbe voluto avere gli speroni, le spalline, i cappelli piumati e, soprattutto, i baffi. «La prima infanzia di Napoleone non è rilevante se non per la sua smodata passione per tutto quello che riguardava i giochi militari» sentenzia uno dei suoi biografi più appassionati, arrivando a fare di una zuffa di ragazzi tra le strade di Ajaccio una battaglia epica già degna di Marengo o di Austerlitz (Lettura: Un bambino di nome Napoleone). Una antica rivalità opponeva, infatti, due bande giovanili: gli Ajaccini, cioè quelli che abitavano in città, e i Borghigiani, appartenenti, invece, alla periferia. Più numerosi e più agguerriti questi ultimi avevano normalmente la meglio nelle sfide a colpi di pugni e lanci di pietre, fino a quando, però – racconta orgogliosamente il biografo – alla testa dei cittadini non si mise il piccolo Napoleone. Convinto della superiorità dei suoi avversari, più forti e anche più coraggiosi, Napoleone decise di usare l’astuzia. Gli stratagemmi messi in opera dal condottiero in miniatura sembrano essere all’altezza delle più celebri manovre per le quali Napoleone verrà poi ricordato come un genio dell’arte militare. Finti attacchi, improvvise ritirate, imboscate, che disorientarono i Borghigiani, abituati ad avere la meglio nello scontro diretto. Al culmine di queste scaramucce arrivò la vera e propria battaglia. Come fece poi alla vigilia delle sue grandi vittorie, Napoleone scelse in anticipo il terreno sul quale sarebbe avvenuto lo scontro – le Saline fuori della città, verso la spiaggia – e preparò con grande accuratezza la disposizione del suo esercito in miniatura. Il trionfo fu completo. Attirati sulla riva del mare, dove non vi erano pietre, i Borghigiani furono accolti da una gragnuola di pietre che gli Ajaccini avevano, qualche giorno prima, nascosto sotto la sabbia e vennero rapidamente messi in fuga. «Il genio che, cambiando la tattica della guerra, doveva stupire il mondo, si annunciava già all’età di otto anni», esclama il biografo rapito d’ammirazione, senza rendersi conto che l’evidente esagerazione di questa profezia finisce col mettere in ombra quale fosse il vero carattere di quel bambino di otto anni. Era un carattere che non si sbaglierebbe a definire isolano, nel quale l’indubbia prontezza d’ingegno conviveva con una ostinazione che si spingeva fino alla scontrosità e la curiosità che pure gli apparteneva veniva spesso bilanciata dalla tendenza alla solitudine.

    A pochi mesi di distanza dal suo primo successo militare la vita di Napoleone andò incontro a un totale sconvolgimento. Il padre Carlo, che aveva finalmente ottenuto il riconoscimento del suo status di nobile, chiese e ottenne un sussidio con il quale poté inviare Napoleone al collegio reale di Autun e successivamente al collegio militare di Brienne, primo passo di una carriera delle armi che – si augurava Carlo – non si sarebbe arrestata nelle contese isolane, ma avrebbe assicurato al figlio secondogenito quella ascesa sociale in Francia che egli aveva sempre sognato. Napoleone aveva, dunque, appena nove anni quando lasciò la Corsica. Ancora non ne aveva scoperto, o ne aveva semplicemente intuito, le straordinarie bellezze di cui avevano parlato i viaggiatori europei che l’avevano percorsa in quegli anni. Non aveva ancora scoperto la meraviglia delle coste montagnose, ricoperte alternativamente di vigne e di ulivi, non aveva ancora pienamente goduto della freschezza dei fiumi e del profumo del vento di una terra che gli Antichi avevano giustamente battezzato Callista, bellissima (Lettura: Bellissima). Allo stesso modo, era solo un’eco lontana il racconto delle lotte che i suoi abitanti avevano invano sostenuto per conservare la loro indipendenza. Tutte queste sarebbero state scoperte della sua piena adolescenza quando, dopo un’assenza di quasi nove anni, egli avrebbe rivisto nuovamente la sua isola.

    Ora il bambino Napoleone lasciava i vicoli soleggiati e le marine della sua Ajaccio e vedeva aprirsi le porte dei brumosi collegi della monarchia di Francia, le loro aule, le loro camerate grigie come i cieli di quelle terre. Ai suoi valorosi Ajaccini si sostituivano compagni dai volti sconosciuti. Il suo carattere, così ricco e ancora così impreciso, prese rapidamente la via di una ispida solitudine. «Il suo appartarsi le impressioni ricevute nella più tenera età dei mali sofferti dalla Corsica e dalla sua stessa famiglia e rendevano l’avvicinarsi a lui, anche se solo in superficie, assai sgradevole»: scrive così nelle sue Memorie Louis Antoine Bourrienne, uno dei pochi amici che Napoleone ebbe in collegio, destinato a diventare più tardi uno dei suoi più stretti collaboratori. Ma il ritratto, forse, più penetrante di quegli anni melanconici è quello che fa, cento anni dopo, Gabriele D’Annunzio, anche lui costretto a trascorrere la sua infanzia in un collegio, il Cicognini di Prato, lontano da casa. Tornando indietro nella memoria, «al crepuscolo dell’adolescenza» come dice, gli sembrava di ritrovare nel suo compagno più caro degli anni del Cicognini il volto del collegiale di Brienne: «Egli – leggiamo – rassomigliava al giovinetto d’Aiaccio che le stampe mostrano in meditazione dentro la grotta di Milelli: pallore quasi diafano, labbra arcuate, occhi grigi, con scarsi sopraccigli, mento robusto, gote scarne, capelli fini e lisci sopra un’alta fronte solcata di vene cerulee, con in tutto l’aspetto qualcosa di timido e d’indomito, di gentile e di selvaggio. Tale doveva essere il figlio di Letizia alla scuola di Brienne».

    Erano molte le ragioni di quella melanconica insocievolezza che sembrava accompagnare il passaggio di Napoleone dalla infanzia alla adolescenza. Nel collegio di

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