L'imitazion del vero
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Book preview
L'imitazion del vero - Ezio Sinigaglia
Sperimentali
Collana dedicata agli scrittori in grado
di coniugare solidità narrativa e originalità stilistica.
7
Ezio Sinigaglia
L’IMITAZION DEL VERO
L’Editore resta a disposizione degli eventuali aventi diritto delle fonti iconografiche rielaborate in copertina che non è stato possibile rintracciare.
PUBBLICATO IN ACCORDO CON CRISTINA TIZIAN LITERARY EDITOR & AGENT
© TERRAROSSA EDIZIONI 2020
ISBN: 978-88-94845-19-8
Indice
L’imitazion del vero
Viveva un tempo nella città di Lopezia un artefice di grandissimo ingegno, donde la fama oltre le mura della città ed i confini medesimi del Principato volava tanto che nei più remoti angoli della Cristianità l’eco se ne coglieva. E benché questo si fosse in effetto il mestier suo, grave ingiuria gli si farebbe chiamandolo col nome di falegname; poiché si era bensì col legno che le sue mani costruivano, ma tali e così fatti prodigi da quelle mani uscivano, che nessuno nel legno da umana scienza costrutti crederli non poteva: seggiole, a modo d’esempio, le quali, al semplice muover d’un gancio che recavan nel dorso celato, si trasformavano in tavoli; tavoli, cui pel banchetto due dozzine di commensali facevan corona e che di poi, gli ospiti alle loro dimore tornatisi, si potevano ripiegare e rimpicciolire tanto da trovare albergo in un cassetto; cassetti che, tratti dalle lor sedi e l’un coll’altro congiunti, diventavan bauli; bauli entro i quali, quantunque non maggior di quel d’una seggiola il loro ingombro si fosse, suppellettili e arredi di tutta una sala collocar si potevano. Ma, sopra tutto, sapeva colui costruire macchine maravigliose e inaudite, macchine che, a comando, potevano muoversi, altre che mandavano fumo, altre che producevan rumori come di cavalli al galoppo, altre ancora che facevano apparir sul soffitto tutto il cielo stellato. E a cagione di questa virtù di nasconder prodigi nel legno e di destar nelle genti e stupore e paura, era dalle genti quasi per mago tenuto. Né di cotanti poteri faceva egli men che onestissimo uso, avendo dell’arte sua rispetto e soggezione grandissimi; ma, siccome ogni artefice che dell’arte vivere debba, un poco della magia donde aveva avuto dal Creatore talento, a chi avesse denari per comprarla e per farsene vanto, cautamente vendeva. Onde dalle quattro parti del mondo principi e signori, i quali sanno dei meno usati poteri assai meglio d’ogn’altro mortale giovarsi, seco continuatamente lo chiamavano per farsi apprestare da lui quei portenti che, nelle più splendide feste, ancor più maraviglioso splendore pei palazzi e le regge ed i giardini spargevano. E di questo commercio, pur senza fasti o dovizie, egli decorosamente viveva.
Era, inoltre, uomo di bellissimo aspetto, i chiari occhi fiammeggianti d’ingegno, una gran barba dorata, e così alto, forte e imponente nella persona che, essendosi Orlando il suo nome, era da tutti Mastro Landone chiamato. Né v’era alcuno in Lopezia che, al passar che Mastro Landone faceva per via, lo sguardo verso di lui non levasse, poiché guizzavan dalle sue pupille ed una luce ed un’ombra che l’altrui pupille subitamente catturavano.
Sembrava egli dunque eletto da Iddio medesimo fra le Sue creature per esser l’una delle massimamente felici, e per felicissimo era in effetto dai lopeziani tutti tenuto. Poiché, essendosi l’ingegno, fra le rare gemme, la rarissima, assai pochi hanno virtù di figurarsi che cosa esso veramente si sia. Tolti costoro, restano i molti e i moltissimi, i quali tutti, vedendo quella gemma della sua vivida luce risplendere che a loro data non fu, sì grande invidia e desiderio ne sentono da giudicar felice colui che, avendola, di desiderarla nullamente si cura. Or possedeva bensì Mastro Landone la gemma dell’ingegno, ma d’altre gemme aveva egli stesso desiderio che difficilmente posseder poteva, talché, non diversamente da coloro che pel suo ingegno invidia gli portavano, ed anzi assai più addentro di quelli, era per l’uscio del desiderio nel tempio dell’infelicità sovente penetrato.
Avevan le gemme ch’il desiderio di Mastro Landone accendevano di fanciulli e di giovinetti le graziose sembianze, donde la vista gli altri suoi sensi tutti insieme subitamente infiammava. E per certo ad estinguere il fuoco di Mastro Landone avrebbe abbondantissima acqua la Natura provveduto, la quale facilmente verso gli uomini ai fanciulli inclinati i fanciulli medesimi inclina. Ma s’era in quel tempo, contro alla Natura magnanima, una crudele legge nel Principato di Lopezia levata, che l’acqua pel fuoco di Mastro Landone faceva mancare. Poiché puniva detta legge il peccato di sodomia con castighi così vergognosi e terribili ch’al paragone la morte parrebbe un premio a ciascuno. Onde, chi nell’animo suo quei pensieri ad agitar si scopriva, faceva primo che fuor dell’animo per le vie del corpo in nessun modo non pigliassero ad andare, secondo che dentro l’animo medesimo l’agitazion loro si placasse. E cercata altra fonte ch’in luogo della proibita alla sete loro s’offrisse, e trovatala, e le labbra rinfrescatevi alquanto, facevan terzo di persuader, non che gli altri, sé stessi che quella appunto, e non altra, si fosse la fonte del piacer loro. Sì che la più parte crescevano e incanutivano e venivano a morte senza aver mai della vera fonte del piacer loro l’acqua gustata, se non nei sogni donde il Signore Iddio, più misericordioso assai degli uomini che d’interpretarne i disegni si credono, alcuna notte li confortava. Godeva anzi Mastro Landone fra tutti costoro della miglior fortuna, poiché la fama dell’arte sua gli aveva offerta fin dai giovanili anni la potestà di viaggiare: e viaggiando aveva egli potuto, lontano dal Principato, coglier di quei fiori che nei giardini di Lopezia a sbocciar non giungevano.
Al tempo in cui la novella nostra piglia principio era Mastro Landone da oltre due mesi in patria purtroppo prigioniero, poiché lo aveva il Principe Tancredi IV, tiranno crudelissimo e splendido signore, d’apprestar congegni e macchinari comandato, a sbalordir le genti e a suscitar l’ammirazione e l’invidia loro dirittamente intesi. Voleva in effetto il superbo Tancredi, essendo il ventesimo anno del suo regno prossimo a compirsi, questa ricorrenza con degni festeggiamenti celebrare, onde aveva nel suo magnifico palazzo tutti gl’altri principi invitati per una settimana di banchetti e balli e spettacoli d’ogni ricchezza e grazia e maraviglia adorni. Cadeva la principesca solennità cinque dì avanti l’equinozio d’autunno, e ancor quello di primavera, l’inverno di giorno in giorno addolcendosi, lietamente a Lopezia s’attendeva; e da gennaio trascorreva Mastro Landone la metà del suo tempo a palazzo, dove i portenti che la notte inventava calava di giorno nella luce e nel legno. Né aveva speranza di condur l’opera sua a compimento prima d’agosto inoltrato né, prima d’allora, di poter pur per un giorno da Lopezia assentarsi. Lavorava la mattina a bottega, per provvedere alle cose ordinarie, e se n’andava tosto dopo desinare a palazzo e quivi ogni sera il tramonto a mezzo dell’opera lo coglieva. Restava per tutte quell’ore la bottega al suo garzone affidata, il quale nelle minute cose di falegnameria da molti anni lo soccorreva, ma più ancora nel vendere i pezzi compiuti, e nel trattar con avventori e clienti, e nell’accoglierne o ricusarne le commissioni. Era dunque colui per Mastro Landone il più preziosissimo aiuto ed in tutta Lopezia il più necessarissimo uom che vi fosse, ed egli con grande generosità lo pagava, ed essendo il suo garzone di lui alquanto più vecchio, somma affezione e rispetto gli portava. Sì che, quando ammalò, parve a Mastro Landone ch’una parte di sé medesimo ammalasse, e quando purtroppo morì, pianse Mastro Landone amaramente la sua morte e, movendosi smarrito per la bottega, gli chiedeva perdono, ché non poteva lasciar che la bottega morisse con lui, come certo morta sarebbe s’un altro buon garzone Iddio non gli avesse tosto mandato.
E tosto glielo mandò. Doveva Mastro Landone, da che così negletta la sua bottega era rimasta, mantenerla chiusa. E la mattina, mentre nell’officina dietro la bottega allocata s’applicava egli ad alcuna nuova invenzion dell’arte sua, stava in orecchio se non udisse all’uscio della bottega bussare. Non aveva colui pel commercio dei suoi portenti inclinazione alcuna, ed ancor minore desiderio aveva di lasciar gli arnesi dell’arte pel banco della mercanzia. Onde soltanto a chi avesse d’alcuna merce necessità così sùbita da domandar coi pugni che gli s’aprisse e che per carità gli si vendesse si persuadeva Mastro Landone a dare accoglienza. E ciò anche troppo sovente tuttavia occorreva.
Or stava dunque una mattina al suo lavoro l’inventore intento, quando nell’uscio della bottega prese alcuno gagliardamente a bussare. Talché, sospirando e le lunghe dita in una cocca del grembiule nettandosi, andò Mastro Landone ad aprire: e, sulla soglia, impietrito rimase, come colui che la folgore subitamente trapassa. S’era essa folgore, nel precipitar ch’aveva fatto dal cielo, nelle membra d’un fanciullo incarnata, donde giammai non aveva Mastro Landone veduta la bellezza eguale. E stava quel fanciullo-folgore ritto in sull’uscio dischiuso, sì che della folgorazione sua l’effetto si perpetuava. Era colui un giovinetto, nero d’occhi e di pelo com’un saraceno, e di sorriso invece bianchissimo, talché,