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Prima di noi: La storia è da riscrivere - Siamo stati creati da una civiltà antidiluviana?
Prima di noi: La storia è da riscrivere - Siamo stati creati da una civiltà antidiluviana?
Prima di noi: La storia è da riscrivere - Siamo stati creati da una civiltà antidiluviana?
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Prima di noi: La storia è da riscrivere - Siamo stati creati da una civiltà antidiluviana?

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About this ebook

«Si possono beffare tutte le persone per alcuni periodi di tempo e alcune persone per tutto il tempo, ma non si possono beffare tutte le persone per tutto il tempo». [ABRAMO LINCOLN]

Siete pronti a cambiare la vostra visione del passato dell’umanità?

Pensateci bene prima di leggere questo libro: se deciderete di aprire questa porta non ci sarà più modo di richiuderla. In quest’opera l’autore conduce il lettore in un viaggio in cui un sottile filo rosso lega scienza e religione, mente e anima, le opere megalitiche e le nostre origini, l’antropologia e la genetica, la vera storia dell’uomo e la moderna civiltà, la fisica e lo spirito, la materia e la mente.

Un’indagine alla scoperta delle nostre origini e le prove dell’esistenza di una civiltà antidiluviana, tecnologicamente avanzata, la cui memoria andò perduta in una grande catastrofe globale, ma le cui vestigia punteggiano ancora oggi il pianeta, la mente e la curiosità di chiunque abbia voglia di osservare e capire.

Con questo libro scoprirai:

  • le prove dell’esistenza di una civiltà antidiluviana che ci ha preceduto

  • le prove della presenza di tecnologie avanzate nella notte dei tempi

  • le vere origini della civiltà attuale

  • … e molto altro ancora.

  •  
Acquista ora la tua copia e immergiti nella scoperta delle nostre origini!
LanguageItaliano
PublisherOne Books
Release dateApr 23, 2021
ISBN9788833801971
Prima di noi: La storia è da riscrivere - Siamo stati creati da una civiltà antidiluviana?

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    Libro interessantissimo per quanto all.argomento, ma purtroppo scritto malissimo per quanto alla grammatica ed alla sintassi della lingua italiana….

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Prima di noi - Massimiliano Caranzano

1

Paleogenetica

L’uomo, fin da quando ha cominciato a porsi domande sul suo passato più remoto, ha sempre cercato le proprie origini nel sottosuolo, scavando gli strati geologici nel tentativo di ritrovare le tracce di chi ci ha preceduti e di ricostruirne la storia.

E se invece le prove più clamorose delle nostre origini, quelle più sconvolgenti, inammissibili, fino a oggi indicibili, risiedessero dentro di noi, nei nostri geni?

Se, scavando nel nostro DNA, la moderna genetica le stesse piano piano portando alla luce, fornendo alcuni tasselli fondamentali per completare il puzzle della vera storia dell’uomo?

E se queste prove sconvolgenti, fossero al tempo stesso inconfutabili e soprattutto inoccultabili, proprio perché scritte nel patrimonio genetico di ognuno di noi?

La scimmia nuda, antropologia e genetica

Tra le circa trecento specie (seicento, considerando anche le sottospecie) di primati esistenti, l’uomo è l’unico a essere glabro e a dover prendere in prestito la pelliccia di altri animali per fabbricarsi vestiti in modo da poter sopravvivere ai cambiamenti di temperatura che la nostra cara Terra ci offre quotidianamente. È assai evidente che l’essere l’unica scimmia nuda comporti quindi tutta una serie di svantaggi tali da far sembrare l’Homo Sapiens più un disadattato alla vita su questo pianeta, piuttosto che il miglior esempio di evoluzione darwiniana. E come spiegare poi tante altre caratteristiche dell’uomo, anche le più banali, come per esempio barba e baffi, indubbiamente segni distintivi dai nostri parenti primati, che non ci danno apparentemente un vantaggio evolutivo tale da giustificare la proliferazione della nostra specie?

La teoria di Charles Darwin, fondata sulla selezione naturale, prevede che quando all’interno di una certa specie vivente, per qualche mutazione genetica casuale e fortuita, alcuni individui acquisiscano un vantaggio tale da garantir loro maggiori aspettative di vita nell’ambiente che li circonda, essi diventino col tempo la maggioranza, trasmettendo le nuove qualità alla progenie e cambiando le caratteristiche della specie stessa, facendola evolvere.

Ora, secondo tale ottocentesca teoria, la perdita della pelliccia da parte dell’Homo Sapiens dovrebbe aver rappresentato un cambiamento migliorativo, una qualità e, anzi, avrebbe dovuto necessariamente essere il risultato della risposta evolutiva a qualche cambiamento teso a conferirci il vantaggio che ci ha permesso di proliferare come specie. Come si spiega quindi il fatto che, come risulta evidente, questa perdita rappresenti piuttosto un problema al quale dover trovare un rimedio vestendoci? La contraddizione risulta quindi evidente e i più curiosi come me non possono non notare la mancanza di una risposta logica, che soddisfi una domanda all’apparenza così banale. Com’è possibile che la specie animale che ha conquistato il pianeta sia disadattata al pianeta stesso?

Andiamo avanti, anche perché di esempi come questo ce ne sono veramente tanti. La teoria dell’evoluzione naturale, enunciata per la prima volta da Darwin nel lontano 1859, continua a essere insegnata nelle scuole ai nostri figli, ma la realtà vuole che nell’era moderna essa sia stata sostituita da una combinazione di nozioni derivanti da molteplici discipline scientifiche, in buona parte rese possibili dalla moderna tecnologia, che stanno dando risposte concrete a molti dei punti oscuri e degli interrogativi lasciati aperti. Paleogenetica, ecco come mi piacerebbe chiamare questa nuova area di ricerca, ma essa è meglio nota in ambiente scientifico col termine di neodarwinismo ed è in buona sostanza costituita dalla combinazione dei nuovi contributi dell’informatica e dello studio del genoma, tesi alla comprensione dei meccanismi evolutivi della vita sul pianeta Terra.

Questa nuova visione, corroborata sempre più da solide evidenze scientifiche, ha puntato in particolar modo il dito su uno dei capisaldi del darwinismo classico: quello per cui l’evoluzione di tutte le forme viventi da un progenitore comune è graduale nel tempo, richiede milioni di anni e porta alla creazione di diversi individui intermedi, che si collocano tra l’anello iniziale e quello finale della catena. Il gradualismo filetico, cioè il nome dato a questa caratteristica dell’evoluzione darwiniana, era già di per sé uno dei grandi punti deboli della teoria dello scienziato del 1800, in quanto nei reperti fossili non vi era evidenza della presenza di una moltitudine di soggetti intermedi nella catena evolutiva: da sempre, per esempio, siamo alla ricerca dell’anello mancante nell’evoluzione che ha portato dai primi ominidi all’Homo Sapiens, ma badate bene che questo è solo uno degli esempi che si possono citare per evidenziare la fragilità del darwinismo classico.

L’ultimo punto oscuro, veramente rilevante sull’evoluzione della vita sulla Terra, è costituito dal fatto che, tra tutte le specie viventi che si sono affacciate sul pianeta nel corso dei miliardi di anni della sua storia, solo l’uomo ha fatto lo straordinario percorso evolutivo che conosciamo e che lo ha portato in diecimila anni dalle caverne allo spazio. La domanda logica, semplice, al limite della banalità, è la seguente: perché solo noi? Perché le scimmie, i delfini, i cavalli, i cani o le centinaia di altri animali, chiaramente dotati d’intelligenza, sono rimasti fermi evolutivamente o per lo meno lo sono se comparati alla nostra evoluzione? A parte un minimo di adattamento fisico al mutevole ambiente che li circonda, teso alla mera sopravvivenza, gli altri animali, al contrario di noi, sono rimasti uguali nel corso di milioni di anni, senza sviluppare, per esempio, una società articolata come la nostra, una tecnologia, un linguaggio, una coscienza, la capacità di astrazione del pensiero ben oltre il secondo livello.

Nel 2001, la Celera Genomics di Craig Venter, grazie a super calcolatori dotati di supporti informatici all’avanguardia, ha completato per la prima volta il sequenziamento del genoma umano; a quella pietra miliare nella storia dell’umanità ne sono poi seguite parecchie altre, tra le quali il sequenziamento del Neanderthal, del topo, dello scimpanzé e tanti altri.

La disponibilità in formato digitale, di un ventaglio sempre più ampio di genomi sequenziati di varie specie di esseri viventi ha dato modo ai ricercatori di avventurarsi nella loro sistematica comparazione con strumenti informatici, volta a comprenderne le differenze ovvero ciò che caratterizza gli individui di ogni specie e la loro evoluzione, anche all’interno di una stessa famiglia animale.

La dottoressa Katherine S. Pollard¹, dell’Università della California a Santa Cruz, è sicuramente una delle prime ricercatrici che con la sua equipe ha sollevato il velo su una serie di nozioni a dir poco rivoluzionarie, proprio a proposito dell’evoluzione del genoma. I suoi studi hanno innanzitutto evidenziato come la stragrande maggioranza del contenuto del DNA di una de-terminata famiglia di animali, per esempio i mammiferi, cambi in maniera estremamente lenta nel corso di un’evoluzione di milioni di anni, al punto che le differenze tra i topi e gli scimpanzé, entrambi mammiferi, ma distanti milioni di anni nell’albero evolutivo, sono minime e prevedibili. Il numero e la combinazione differente delle basi azotate nella catena del DNA ci permette addirittura di capire la distanza evolutiva in termini di anni tra una specie e l’altra, tanto questo processo è lento, lineare e prevedibile. È quasi come se i cambiamenti troppo significativi e improvvisi avessero un potenziale impatto letale su parti vitali del DNA, come per esempio quelle che regolano il sangue e quindi queste modifiche diventassero immediatamente remissive, non riuscendo a fissarsi nella specie, anche qualora dovessero per qualche strana circostanza accadere.

È importante comprendere che l’evoluzione di una specie prevede che si verifichino in sequenza almeno due eventi, entrambi molto improbabili: in primis un errore casuale nella duplicazione del DNA di un individuo, invece d’introdurre un difetto, dovrebbe offrire un vantaggio proprio rispetto all’ambiente circostante e poi questo errore vantaggioso dovrebbe non scomparire con la morte del soggetto stesso, ma in qualche modo trasmettersi a un numero sufficiente di discendenti nella sua progenie, tale da diventare nel corso di milioni di anni una caratteristica comune a tutta la specie. Se per esempio nascesse oggi un individuo che, a causa di una fortuita quanto improbabile modifica del DNA, fosse in grado di udire gli ultrasuoni, non è detto che nel corso di milioni di anni tutti gli uomini acquisiranno quella caratteristica, in quanto essa potrebbe scomparire con la morte dell’individuo o rimanere ristretta ad alcuni dei suoi parenti più prossimi e poi venire diluita nuovamente nella normalità delle caratteristiche genetiche della maggioranza della popolazione a causa degli incroci successivi.

È evidente che parliamo di combinazioni veramente fortuite, quindi di eventi molto rari e la conseguenza di tutto ciò è che alcuni geni subiscono pochissime mutazioni e si conservano pressoché immutati per milioni di anni in animali che in comune non hanno quasi nulla. Per esempio, in una particolare sezione del DNA nel cromosoma venti, la differenza tra lo scimpanzé e il pollo è di sole due basi, nonostante sia di tutta evidenza che gli animali in questione abbiano ben poco da spartire, in quanto a struttura fisica e aspetto.

È inoltre importante notare come le differenze tra specie molto vicine nella catena evolutiva, ad esempio topi e ratti, si sono dimostrate a maggior ragione minime, come del resto era lecito aspettarsi, dal momento che lo erano già quelle tra specie molto diverse tra loro.

Quando un’analoga comparazione è stata effettuata tra scimmie e umani, nei quali la stessa parte di DNA del cromosoma venti è caratterizzata da centodiciotto basi, era lecito aspettarsi un risultato analogo, anzi con differenze decisamente più piccole, dato il grado di strettissima parentela, invece c’è stato un colpo di scena: quella stessa area del DNA ha evidenziato un numero di mutazioni assolutamente fuori scala, ben diciotto, addirittura di un ordine di grandezza superiore a quanto madre natura normalmente prevedrebbe. Il numero 1 associato alla sigla HAR1, che contraddistingue questa parte di DNA umano, intende proprio significare che lì avvenne in qualche modo il più elevato tasso di mutazioni molecolari mai verificatasi nell’evoluzione dell’uomo.

A complicare ulteriormente il tutto, questa mutazione si è dimostrata straordinariamente capace di fissarsi rapidissimamente nella specie, diventando quindi patrimonio comune di tutti gli individui che vi appartenevano. Gli scienziati hanno stimato che la percentuale con cui le mutazioni HAR si sono fissate è doppia rispetto alle altre zone del DNA, 16% contro 8%. Una tale differenza sembra suggerire che le mutazioni avvenute in questo caso fossero talmente favorevoli alla selezione naturale da diffondersi rapidamente in tutti gli individui.

La realtà vuole inoltre che, esaminando più attentamente i cambiamenti della struttura del DNA in questione, si è scoperto come moltissime di queste mutazioni erano relative a sostituzioni delle basi azotate A/T con C/G, in una percentuale molto superiore a quella che ci si aspetterebbe da un punto di vista statistico.

Capite bene che già di fronte a questi dati, anche adottando una rigorosa disciplina scientifico-matematica, che elimini l’irrazionalità e l’emotività che spesso ci contraddistinguono, ci viene da pensare che ci troviamo di fronte più al risultato di un progetto deterministico e orientato a un fine, piuttosto che di un mero, lento e fortuito adattamento all’ambiente in stile darwiniano.

Gli scienziati su questo punto o se preferite di fronte a questo dilemma, sembrano lasciar intendere qualcosa senza però necessariamente prendere posizioni radicali, anche se affermano che tutto ciò possa essere il risultato dello scambio di geni durante un processo di ricombinazione cromosomica. Giusto per capirci, quando si parla di tecniche di ricombinazione del DNA, stiamo parlando di organismi geneticamente modificati, OGM, ibridi tra razze e specie differenti, cambiamenti artificiali, indotti da qualcosa o qualcuno e tutt’altro che naturali.

Questa particolare zona del DNA, denominata Human Accelerated Region 1 (HAR1), con la sua velocissima evoluzione nell’essere umano, la sua immediata fissazione nella razza e le strane statistiche che la accompagnano, contrasta sfacciatamente con la teoria darwiniana classica dell’evoluzione graduale e come vedremo non è l’unica a farlo. Qui entra in gioco di nuovo il neodarwinismo, secondo il quale la documentazione fossile a nostra disposizione mostra anche chiaramente che le specie viventi rimangono pressoché inalterate durante lunghissimi periodi di tempo, per poi evolvere in maniera repentina a causa sì dell’evoluzione darwiniana classica, ma soprattutto sotto l’azione decisa di fattori evolutivi esterni, che come dei razzi spingono il genoma a cambiare improvvisamente, generando un salto evolutivo notevole.

Facciamo un esempio. Sappiamo tutti che il panda è un animale che è stato salvato dal rischio di estinzione grazie a un massiccio intervento dell’uomo, che ha incluso l’inseminazione artificiale e la riproduzione controllata in cattività al fine di aumentare il numero esiguo di esemplari rimasto in natura. Se per assurdo il DNA di alcuni panda, nati grazie a questo intervento esterno umano diversi anni fa, fosse stato modificato, per esempio per ottenere un colore diverso della loro pelliccia, diciamo rosa al posto del bianco, tanto per esagerare un pochino, allora oggi avremmo un numero di panda rosati non trascurabile rispetto alla totalità degli individui della specie e quindi potenzialmente in grado di diventare maggioranza col tempo, ma di sicuro non nell’arco di milioni di anni.

Ecco che un fattore esterno, in questo caso l’uomo, ha agito da razzo propulsore e direi anche direzionale per l’evoluzione del genoma di quella specie. Badate bene che l’attuale livello di biotecnologia raggiunto consentirebbe di realizzare l’assurdità di questo esempio stravagante, proposto proprio per attirare l’attenzione sul fatto che stiamo parlando di realtà e non di fantascienza. L’uomo è stato nel corso dei secoli un incredibile fattore esterno che ha modificato radicalmente, e a suo piacimento, l’evoluzione del genoma di un’innumerevole serie di specie animali e vegetali, si pensi per esempio ai cani e alle piante da frutto, infrangendo così il gradualismo filetico darwiniano.

Tornando alle incredibili differenze, fuori dalla normale scala della natura, tra alcune aree del genoma umano e quelle dei nostri parenti primati, la domanda è la seguente: quali sono stati questi fattori esterni che hanno determinato tali cambiamenti, dal momento che è evidente che non possa trattarsi dell’uomo stesso? Nel tentativo di rispondere a questo quesito occorre approfondire gli studi di comparazione sui genomi finora appena accennati.

HAR1 è un gene che risulta determinante nello sviluppo del cervello umano, con le sue dimensioni, capacità logiche e cognitive che lo differenziano notevolmente dagli altri primati. L’ulteriore sorpresa per gli scienziati consiste poi nel fatto che l’HAR1 non è responsabile della codifica di alcuna proteina nota, appartiene cioè a quel 97-98% di DNA che fino a poco tempo fa gli scienziati ritenevano inutile, un riempitivo, al punto da chiamarlo junk DNA, DNA spazzatura. Ora la sua evidente rilevanza durante lo sviluppo embrionale nell’attivare una migrazione neuronale che produce la creazione di un cervello evoluto come quello umano, riapre tutti i giochi sulla comprensione del ruolo del junk DNA. Le recenti scoperte in merito portano a propendere per l’idea per cui questa parte del DNA svolga una funzione regolativa, di controllo, attivazione, rallentamento, accelerazione, durata, sull’attività dei geni, producendo quindi un impatto sulla specie e le sue caratteristiche non minore della struttura dei geni stessi. Lo studio dell’epigenoma, questo il termine per descrivere il concetto appena descritto, promette di rivelare sorprese incredibili nel futuro prossimo, se non altro perché rimette in gioco una porzione incredibile del DNA, ben il 97%, che fino a poco tempo fa si riteneva un’inutile eredità della nostra evoluzione passata.

L’effetto delle diciotto differenti basi tra primati e uomo nel gene HAR1 ha consentito al cervello di accrescere le sue funzioni logiche e le proprie dimensioni dai 440cc dell’Australopithecus Africanus, fino ai 1230cc dell’Homo Sapiens, nel giro di pochissimo tempo, pochi milioni di anni, un evento assolutamente inspiegabile a meno di un intervento esterno significativo. Quale?

Pensate siano mie fantasie personali nel tentativo di procurarmi un buon argomento per scriverci un libro? Sentite cosa hanno concluso i ricercatori dell’Howard Hughes Medical Institute di Chicago² pubblicando nel 2004 i risultati di un lungo studio:

«[…] La straordinaria evoluzione che il cervello umano ha subito è il risultato di un evento speciale. Non si tratta di un miglioramento di ciò che c’era prima, bensì di una svolta radicale nella biologia umana, la cui causa va ricercata all’interno del nostro DNA».

Evento speciale? Prego?

Come se non bastasse, le recenti ricerche hanno messo in evidenza ben una cinquantina di Human Accelerated Regions, che negli umani presentano notevoli mutazioni in aree del DNA e che per giunta negli altri esseri viventi si sono dimostrate estremamente stabili e conservative per milioni di anni. Stiamo quindi dicendo che nella cronologia delle mutazioni del DNA umano non esiste solo un evento, già di per sé apparentemente inspiegabile – a meno di non prevedere un non ben definito evento speciale esterno – ma ce ne sono una cinquantina.

Anche senza necessariamente fare i conti con precisione, permettetemi una semplice riflessione matematico-statistica: l’unica considerazione logica e deduzione sensata che si può fare di fronte a queste scoperte, è che quell’evento speciale o meglio, quella cinquantina di eventi speciali non possono essere il risultato del caso, ma devono prevedere necessariamente una mano intelligente, un progetto pianificato.

Pensate che le sorprese eclatanti siano finite qui?

Gli stessi studi comparativi del genoma hanno anche scoperto negli umani almeno cinquecento parti di DNA che sono state soppresse, mentre negli altri esseri viventi sono rimaste relativamente immutate e stabili nel tempo. Come vedremo queste cancellazioni non sono di certo meno importanti delle HAR e la cosa non ha fatto altro che aumentare lo stupore degli scienziati in quanto, fino a oggi, ogni forma di evoluzione della vita era stata accompagnata dall’aggiunta di materiale genetico e non da una diminuzione o cancellazione.

Per esempio, una variazione interessante è la cancellazione di una parte di DNA prossima al gene GADD45G, la cui assenza è probabilmente la causa dell’aumento di dimensioni di alcune aree del cervello e della conseguente migliorata attività cognitiva. In pratica le funzioni logiche avanzate, che nell’essere umano si affiancano a quelle più istintive, tipiche degli animali, sembrano essere dovute alla mancanza e non all’aggiunta di una certa informazione genetica, un qualcosa che a livello evolutivo ha dell’incredibile.

A parte gli effetti che queste delezioni hanno comportato sull’evoluzione dell’uomo, l’aspetto che più ci deve colpire è la stranezza di questo fenomeno, che ancora una volta sembra andare contro natura. Il tradizionale processo evolutivo, infatti, normalmente tende ad aggiungere e modificare DNA, al fine di meglio adattare la specie, favorendone la sopravvivenza, piuttosto che a levare sequenze di genoma.

Fra l’altro l’uomo ha quarantasei cromosomi, due in meno delle scimmie e la cosa già di per sé desta perplessità, anzi è al limite dell’impossibile. In pratica nell’uomo troviamo un jumbo cromosoma, il numero due, che risulta essere la fusione del secondo e terzo presenti nei nostri parenti primati, sia ancestrali che moderni.

Fig. 1 - Confronto tra cromosomi umani e dello scimpanzé.

Fig. 1 - Confronto tra cromosomi umani e dello scimpanzé.

Questa differenza nel numero di cromosomi è un fatto veramente eccezionale in specie come i primati e gli umani che, evolutivamente, sono così vicine. Se poi si considera che l’uomo, che cronologicamente viene dopo le scimmie, ha subito addirittura una diminuzione dei cromosomi, allora tutto ciò risulta veramente difficile da spiegare, almeno secondo i canoni standard dell’evoluzione della vita. E ancora: quale sarebbe questo incredibile vantaggio che l’avere due cromosomi in meno comporterebbe, tale da garantire sopravvivenza e prosperità all’uomo, al punto da essersi fissato nel DNA di tutta la specie nel giro di breve tempo? Non esiste una risposta sensata a questa domanda, per cui viene di nuovo da pensare al fattore esterno: più che una modifica casuale, dovuta a un errore di copiatura del DNA, sarebbe logico ipotizzare un progetto studiato a tavolino e teso al raggiungimento di un qualche obiettivo finale.

L’eliminazione di un numero così considerevole di parti di DNA è quindi inspiegabile, a meno di non dover considerare fattori esterni che abbiano forzatamente indotto tali modifiche. Anche volendo ignorare per un istante l’impossibilità statistica che una così numerosa serie d’irrealistiche mutazioni positive possa avvenire, proviamo a capire quali potrebbero essere i fattori non artificiali in grado d’indurle. In natura esistono circostanze particolari che potrebbero esserne la causa, quali errori nella duplicazione del DNA, radiazioni e processi retro virali, che è stato dimostrato essere capaci di causare una perdita di DNA, ma anche all’occhio del profano è evidente che tutti questi fattori sono tipicamente svantaggiosi e creano problemi, malattie, gravi difetti, piuttosto che incredibili vantaggi e benefici evolutivi, come invece è successo nell’uomo, motivo per cui è impossibile anche solo pensare che siano la vera causa di tali cambiamenti nel genoma umano: la spiegazione deve essere differente.

Insomma, decisamente sembra che le regole dell’evoluzione che hanno agito su tutti gli esseri viventi non valgano per l’uomo e questo, dovete ammettere, si rivela come un qualcosa di veramente strano.

Tra l’altro, parlando di evoluzione della specie, a tutti è noto Sir Charles Darwin mentre quasi nessuno conosce Alfred Russel Wallace, un altro naturalista britannico, che possiamo tranquillamente affermare fu coautore della teoria evoluzionistica. Wallace, già pochissimo tempo dopo la pubblicazione del rivoluzionario libro L’origine della specie³, uscito il 24 novembre 1859, ebbe modo di notare che, quantunque essa calzasse a pennello per praticamente tutte le forme di vita prese in esame, non appena la si applicava all’uomo qualcosa di molto evidente non tornava. Wallace in alcune sue note evidenziò quella che a suo dire era la mano di una intelligenza superiore⁴ nell’evoluzione umana.

Se tutto ciò non dovesse ancora destare la vostra curiosità, permettetemi di citare un altro paio di dati relativi a questi cambiamenti del genoma umano rispetto ai cugini Neanderthal e Denisovan, apparentemente irrilevanti, ma fondamentali quando, tra breve, combineremo genetica e archeologia.

Il primo di essi si riferisce al fatto che queste prodigiose modifiche del DNA sono apparse improvvisamente negli ultimi trecento, quattrocentomila anni e questo arco temporale, come vedremo, è una coincidenza o meglio un indizio assai rilevante da un punto di vista archeologico.

Il secondo dato è relativo al tempo necessario perché tutti questi cambiamenti avvenissero e si radicassero nella specie, che si è dimostrato ancora una volta essere brevissimo; si potrebbe dire che tutte le significative mutazioni HAR, che caratterizzano le incredibili qualità dell’uomo rispetto agli altri primati, che, anche solo prese individualmente, sarebbero estremamente improbabili, sono invece accadute tutte insieme, simultaneamente, all’unisono, come se fossero state sincronizzate per produrre istantaneamente l’essere uomo evoluto, con tutte le sue incredibili capacità. Strano, non è vero? È come vincere la lotteria nazionale una cinquantina di volte nella propria vita, molto strano, diciamo pure da non crederci, a meno di non barare.

Di seguito sono evidenziate alcune delle numerose HAR e le loro implicazioni nell’evoluzione umana che, come vedremo, presentano tutte delle incredibili coincidenze che ci saranno utili per capire quale sia la possibile causa esterna che le ha provocate. HAR2 è una porzione di DNA del cromosoma due coinvolta nel miglioramento degli arti umani, in particolare nel pollice opponibile, che conferisce all’uomo grande capacità di afferrare e manipolare con forza o con estrema delicatezza e precisione ogni sorta di oggetto. In pratica la capacità tecnologica dell’uomo moderno deriva dalla sua iniziale abilità manuale nella costruzione e nell’uso dei primi attrezzi e armi per coltivare e cacciare, ottenuta grazie alle mutazioni della zona HAR2. Anche le sue eccezionali capacità motorie su due gambe, notevolmente migliori rispetto a qualsiasi altro primate o ominide oggi estinto, sembrano essere influenzate da una diversa struttura delle anche e dei piedi, governata dal DNA presente nell’HAR2. Anche in questo caso gli scienziati ritengono che ciò possa essere il risultato dello scambio di geni durante un processo di ricombinazione cromosomica.

HAR3: nel cromosoma sette esiste una sequenza, denominata MADILI, che regolarizza la divisione cellulare, minimizzando gli errori, quindi le cellule tumorali e quelle da mandare in apoptosi. È evidente e ovvia l’influenza che questa parte di DNA ha nella qualità della vita e nella sua maggiore durata.s

Sempre nel cromosoma sette, il gene FOXP2 è responsabile della mobilità facciale che riveste un ruolo fondamentale nel linguaggio umano. Circa il 70% della comunicazione tra umani è infatti di tipo visivo e la capacità di fare movimenti facciali precisi e ad alta velocità ci contraddistingue dagli altri primati e ha certamente agevolato lo sviluppo di una società complessa. È stato dimostrato che questo gene interviene unicamente nelle capacità motorie del viso e non nell’abilità cognitiva necessaria a comprendere il linguaggio, per cui la facilità con cui l’uomo ha costruito una società incredibilmente più sofisticata, rispetto ai primati, è in buona misura legata alla sua incredibile mimica facciale indispensabile nella comunicazione.

Anche la capacità di parlare, tipica solo dell’essere umano, sembra conseguenza di un’incredibile mutazione di un gene legato al cromosoma Y, avvenuta, secondo le ricerche di Tim Crow⁵, docente a Oxford, circa 150.000 anni fa e fissatasi a tempo record nell’uomo.

HAR5: questa zona del cromosoma dodici è costituita dal gene WNK1, responsabile della codifica di un enzima renale che permette una migliore eliminazione del potassio per via urinaria. Un’altra importante caratteristica di questo enzima è costituita dal miglioramento neuronale che comporta grande sensibilità al tatto da parte dell’individuo. È evidente che anche HAR5, con la sua notevole migliorata sensibilità, così come HAR2, ha contribuito ad aumentare la capacità nella fabbricazione di attrezzi, oggetti, vestiti, armi, così come l’abilità motoria dell’uomo.

Nel cromosoma uno, una specifica sequenza, denominata AMY1A, ci differenzia notevolmente dalle scimmie per quanto riguarda l’alimentazione. Questo gene è infatti responsabile della codifica di un enzima, chiamato amilasi, che ci consente una digestione ottimale degli amidi e dei cereali ad alto contenuto energetico, come avena, farro, frumento, mais, riso, segale o di tuberi come le patate. Ancora una volta la nostra capacità risulta sei, otto volte superiore a quella dei nostri parenti prossimi, un qualcosa che in natura non ha uguali.

Come vedremo nel prosieguo del libro, verrebbe quasi da dire che questa mutazione del genoma umano sia una coincidenza eccezionale con lo sviluppo dell’agricoltura, che ci ha consentito di cibarci di carboidrati ricchi di energia e molto più facili da produrre in grosse quantità e pressoché ovunque nelle regioni abitabili della terra. Al confronto, i nostri antenati si cibavano soprattutto di frutta, molto meno semplice da reperire durante tutto l’anno e soprattutto non disponibile in ogni fascia climatica del pianeta. Probabilmente, senza questa fortuita mutazione, la diffusione della nostra specie sarebbe stata limitata alle aree tropicali del pianeta.

Questa HAR, come vedremo in seguito, combinata con altri inspiegabili accadimenti, è a mio giudizio una pistola fumante che testimonia un intervento esterno e un progetto ben preciso nel processo che ha portato alla nascita dell’uomo moderno.

Ricapitolando, le incredibili, ultrarapide e uniche mutazioni genomiche che hanno caratterizzato l’Homo Sapiens gli hanno permesso simultaneamente di avere la capacità cognitiva di sviluppare l’agricoltura, l’abilità fisica di metterla in pratica, inventando e producendo gli strumenti adatti a renderla produttiva, la capacità comunicativa di creare società stanziali, dedite all’agricoltura stessa e infine anche la predisposizione genetica a cibarsi di prodotti agricoli estremamente energetici e facili da produrre in grandi quantità, pressoché ovunque sul pianeta, nonché semplici da conservare durante tutto l’anno. Non so voi, ma a me le coincidenze sembrano veramente troppe e viene da fantasticare sul fatto che forse si tratti di un qualcosa orchestrato ad arte per sfruttare l’immensa fonte alimentare fornita dall’agricoltura e dare all’uomo una chance di proliferare e conquistare il mondo. L’incredibile capacità dell’uomo di riprodursi e popolare l’intero globo, nonché la possibilità di diventare stanziale, costruendo grandi città, sviluppando una società complessa e organizzata, sono, infatti, dirette conseguenze della possibilità di sfruttare al massimo l’agricoltura, grazie alla capacità di nutrirsi di amidi.

Menzioniamo infine HAR21, anche nota come NPAS3, una regione del DNA umano che è estremamente correlata con la possibilità da parte degli individui di sviluppare disturbi mentali, quali la schizofrenia o vere e proprie malattie mentali, come i disturbi bipolari e ridotta capacità di apprendimento.

Alla luce delle recenti rivoluzionarie scoperte della moderna genetica sembra quindi assodato che, come già intuito da Wallace, l’uomo rappresenta un’eccezione nel modello di sviluppo della vita sul pianeta Terra, un caso unico di evoluzione estremamente rapida, diremmo istantanea, considerando i normali tempi evolutivi delle altre specie, ma anche incredibilmente efficace, visto che tutti questi mutamenti lo hanno portato a essere dominante sul pianeta e a viaggiare nello spazio. Un caso di evoluzione in cui una serie impressionante e inspiegabile di mutazioni e delezioni del DNA, tutte migliorative, sono accadute pressoché simultaneamente e che, fissandosi in tutta la popolazione, cosa che ha dell’incredibile, almeno quanto le mutazioni stesse, hanno permesso la nascita di un super primate: l’Homo Sapiens.

La domanda rimane sempre la stessa: cosa ha comportato un tale repentino cambiamento nell’uomo e solo nell’uomo, dal momento che le scimmie o altri mammiferi, come i cavalli, non hanno quasi mutato il loro aspetto e le loro capacità nelle ultime decine di milioni di anni?

Proviamo a riassumere brevemente i passaggi noti, almeno secondo la teoria tradizionale, che hanno portato dai mammiferi al moderno Sapiens Sapiens.

L’antenato di tutte le grandi scimmie antropomorfe e quindi anche dell’uomo, comparve venti milioni di anni fa; è conosciuto nella comunità accademica come il proconsole e i suoi fossili sono stati ritrovati un centinaio di anni or sono su di un’isola del Lago Vittoria, in Africa.

Il ramapiteco, quella che s’ipotizza essere stata la prima scimmia antropomorfa eretta, anche se rimangono dubbi fortissimi sulla sua reale postura, risale a una quindicina di milioni di anni fa, come testimoniano i suoi resti ritrovati all’inizio del ventesimo secolo nella Rift Valley, in Africa sudorientale. È già interessante far notare come il semplice passaggio alla posizione pseudo eretta abbia richiesto ai normali tempi di madre natura una manciata abbondante di milioni di anni, in pieno, aperto e palese contrasto con le ben più complesse, stupefacenti, nonché simultanee e molteplici modifiche del DNA che hanno portato all’uomo moderno.

A conferma di quanto appena detto, i primi ominidi della famiglia degli australopitechi compaiono solamente quattro milioni di anni fa, un altro balzo in avanti di una decina di milioni di anni che, pur comportando un’evoluzione significativa, non fu di certo comparabile con quelle citate in precedenza e che caratterizzarono la nascita dei sapiens. Lucy, il fossile di Australopitecus Afarensis, è forse il membro più noto di questa razza di ominidi.

Nel periodo di tempo compreso tra due e un milione e mezzo di anni fa comparvero rispettivamente l’Homo Habilis, uno dei nostri primi antenati ancora molto scimmiesco e l’Homo Erectus, che aveva la nostra tipica posizione eretta sulle gambe e sembianze vagamente umane. Va fatto notare che, nonostante i tempi in gioco, circa un milione e mezzo di anni, la lenta evoluzione naturale non aveva dotato l’Homo Erectus di grandissime capacità cognitive: c’era certamente stato uno sviluppo cerebrale e la capacità di costruire e usare attrezzi e armi primitive con pietre, bastoni, ossa, ma nulla di più, quindi fin qui sembra che tutto procedesse in maniera più o meno regolare, secondo Madre Natura e analogamente all’evoluzione delle altre specie. In realtà anche su questo punto qualche dubbio esiste che potrebbe aprire scenari veramente impensabili.

In buona sostanza si potrebbe senz’altro ragionevolmente ipotizzare che, seguendo il suo naturale corso, l’evoluzione avrebbe portato gradatamente l’Homo Erectus a sviluppare le capacità dei sapiens, ma durante un arco temporale di almeno qualche decina di milioni di anni.

Invece i tempi non tornano per nulla e circa 300.000 anni fa, qualcosa di estremamente strano deve essere accaduto in Africa, perché in maniera pressoché istantanea avvennero tutte le mutazioni che caratterizzano l’uomo moderno, dall’aumento significativo del cervello e ancor di più delle funzioni cognitive, allo sviluppo del linguaggio, all’abilità lavorativa e molte altre qualità ancora e tutti questi cambiamenti si fissarono rapidamente in ogni individuo creando di fatto una nuova specie: l’Homo Sapiens. Statisticamente, matematicamente, accademicamente, una cosa di questo genere è praticamente impossibile e a rigore di logica decisamente inaccettabile, a meno di non trovare spiegazioni razionalmente giustificabili, anche se fuori dal comune, che non siano la banale evoluzione naturale.

Fig. 2 - Riproduzione di Homo Erectus.

Fig. 2 - Riproduzione di Homo Erectus.

Ricapitolando, Madre Natura ci avrebbe impiegato qualche decina di milioni di anni per far evolvere un primate in un ominide dalle limitatissime capacità cognitive e dall’aspetto ancora molto scimmiesco e solo vagamente umano, come testimonia la ricostruzione di un busto di un Homo Erectus qui riportata, per poi farlo evolvere alla velocità della luce nel prototipo di Neil Armstrong, facendolo camminare sulla superfice della Luna nel giro di poco più di un milione di anni? No, mi dispiace, qualcosa non torna.

Come per complicare ulteriormente il rompicapo, tutte le stupefacenti evoluzioni che hanno portato dall’Erectus al Sapiens non hanno apparentemente generato nessuna razza intermedia, per esempio un uomo con mani da sapiens e cervello da Erectus o un Erectus in grado di parlare come un Sapiens. Questo è un indizio importantissimo per comprendere cosa è successo, in quanto la presenza, o in questo caso assenza di individui di transizione tra una specie e l’altra, è un altro dei pilastri fondamentali della teoria darwiniana che nel caso dell’uomo viene a mancare.

A voler ben guardare la cosa è ancora più incomprensibile perché apparentemente non vi è traccia nota, nonostante le assidue ricerche, di anelli intermedi alle due razze apparse di recente, solo un paio di milioni di anni fa, mentre stranamente siamo riusciti a trovare gli anelli evolutivi risalenti a quaranta milioni di anni fa e oltre. No, no, ragazzi qui qualcosa non torna proprio!

Il brillante zoologo Desmond Morris ne La Scimmia Nuda,⁶ il suo capolavoro letterario del 1967, ebbe modo di argomentare con grande perizia su una delle differenze che maggiormente caratterizzano l’uomo dagli altri primati ovvero la quasi totale assenza di pelo sulla stragrande maggioranza del corpo: siamo gli unici che per qualche motivo abbiamo perso la pelliccia. Già, per qualche motivo, ma quale? Come abbiamo già avuto modo di sottolineare a inizio capitolo, quale dovrebbe essere il vantaggio evolutivo che ha spinto l’animale uomo a perdere la folta pelliccia che invece ancora ricopre le quasi seicento specie e sottospecie di primati esistenti? E poi siamo proprio sicuri si tratti di un vantaggio, dono dell’evoluzione darwiniana? A pensarci bene l’Uomo Sapiens è l’unico animale costretto a fabbricarsi vestiti o a rubare la pelliccia di altri animali per proteggersi dalle escursioni termiche che ci regala nostra madre Terra ogni giorno.

Siamo anche l’unico animale terrestre costretto a proteggersi dalla luce solare, che altrimenti provocherebbe bruciature sulla nostra pelle in quanto priva di ogni protezione. I vari tentativi di trovare spiegazioni naturalisticamente accettabili a queste mutazioni spesso vanno in contradizione tra di loro. Per esempio, da un lato si spiega la postura eretta del sapiens con la necessità di camminare a lungo nella savana africana, che prese il posto delle foreste fittissime a causa del cambiamento climatico che si verificò milioni di anni or sono. Questa spiegazione sarebbe coerente con la teoria darwiniana, a parte le tempistiche, in quanto il vantaggio introdotto per la nuova specie è più che evidente. Peccato che però è in contraddizione con la perdita del pelo, che decisamente non è un vantaggio nel momento in cui devi percorrere lunghi tragitti sotto il sole cocente invece che stare al riparo della fitta vegetazione.

In realtà anche sui presunti vantaggi della postura eretta ci sarebbe da argomentare. Essa ha infatti comportato un restringimento del bacino nell’uomo, che al tempo stesso mostra un deciso ingrossamento della calotta cranica e i due cambiamenti combinati hanno creato una serissima minaccia alla sopravvivenza della razza, rendendo estremamente difficoltoso il parto, con un aumento del numero di decessi al momento della nascita, sia della madre che della prole, che di vantaggioso hanno veramente poco. Considerate poi che i figli dell’uomo nascono molto prematuri, proprio perché altrimenti le dimensioni craniche renderebbero impossibile il parto. Il fatto che un neonato umano morirebbe in pochi minuti, se non accudito per almeno parecchi anni dai genitori, ancora una volta non rappresenta un vantaggio; al contrario i nostri parenti primati partoriscono invece dei cuccioli pseudo indipendenti, con capacità motoria autonoma fin dalle prime ore.

Tornando all’assenza della pelliccia, a voler ben vedere, a parte la mancanza di qualche fastidioso parassita, di vantaggi proprio non ce ne sono, anzi, sembra che l’assenza del pelo costituisca un problema che siamo stati costretti a risolvere in maniera creativa sin dai tempi più remoti. Si potrebbe poi menzionare che l’uomo, a differenza degli altri animali, è in generale molto sensibile alla luce solare diretta: chiedetelo alla società Luxottica quanto è florida l’industria degli occhiali da sole. La nostra vista viene facilmente abbagliata dal sole e dubito che questo sia un vantaggio, per contro non è che di notte abbiamo le capacità visive di un gufo, che potrebbe in teoria compensare lo svantaggio odierno.

Vorrei poi farvi riflettere su un punto che a mio parere è uno di quelli chiave: qui stiamo parlando di caratteristiche fisiche vantaggiose che erano già presenti nei nostri antenati e che sono inspiegabilmente andate perdute. È questa la cosa inspiegabile! Se anche le scimmie non avessero il pelo si potrebbe obbiettare che è un adattamento che i fortunati errori di replicazione del DNA non ci hanno ancora donato e sarebbe comprensibile, mentre risulta assolutamente estraneo al buon senso il fatto che queste caratteristiche, già in nostro possesso, siano andate perdute.

Sempre rimanendo in tema di peli, noi solamente tra i primati possediamo un’altra caratteristica antiadattiva e svantaggiosa come dei capelli che, in quasi tutti i casi, crescono senza sosta per tutta la vita. Fate mente locale per un secondo e pensate agli esseri umani primitivi come ce li hanno descritti a scuola, alla loro difficile vita di stenti quotidiana da cacciatori e da prede nell’ambiente ostile in cui vivevano: davvero avere dei capelli lunghi che s’impigliavano in rami e cespugli rendendo difficoltoso muoversi con destrezza nella vegetazione era una caratteristica vantaggiosa? E quale sarebbe questa presunta utilità dei capelli che ci è stata donata dall’evoluzione naturale. Nel proseguo del libro vedremo come una possibile risposta a questa curiosa stranezza evolutiva stia scritta nella Bibbia e in altri testi antichi.

La conclusione è quindi sempre la stessa: apparentemente il sapiens va controcorrente per quanto riguarda l’evoluzione naturale e il motivo rimane alquanto misterioso e difficile da spiegare, almeno secondo i canoni della scienza ortodossa.

La realtà è che l’animale uomo su questo pianeta è un vero e proprio disadattato e che senza la sua tecnologia non riuscirebbe a far di meglio che sopravvivere in pochissime aree e sicuramente non a prosperare e colonizzare l’intero pianeta.

Ora qualcuno certamente obietterà che la tecnologia umana è frutto del suo cervello, estremamente sviluppato proprio grazie all’evoluzione naturale che ha subito, ma ciò non fa altro che confermare il fatto che l’Homo Sapiens rappresenta un’eccezione apparentemente inspiegabile alla teoria di Darwin: perché mai, infatti, l’evoluzione avrebbe dovuto da un lato fornirgli un cervello superiore, unico tra tutte le specie animali e poi, al tempo stesso, togliergli tutta una serie di altri vantaggi e benefici, tra l’altro già acquisiti?

I sapiens poi, non solo hanno perso la pelliccia, ma non hanno più una dentatura idonea a difendersi, al punto che rischiamo di soccombere se attaccati da animali di stazza ben inferiore come i cani, non abbiamo più artigli, i nostri occhi sono abbagliati dalla luce solare, la nostra pelle è delicatissima e si ustiona al sole e si scortica a contatto con piante e rocce. Nulla di tutto questo accade ai nostri parenti prossimi, nessuno di loro ha perso questi vantaggi conquistati nell’arco di milioni di anni e il motivo è semplice: l’evoluzione naturale mira a far sopravvivere e prolificare gli individui meglio adattati all’ambiente che li circonda e non elimina quindi i vantaggi, non succede mai, tranne che nel caso dell’Homo Sapiens.

Finora direi che abbiamo messo in chiara evidenza come parlare di fortuite modifiche accidentali del DNA sia un eufemismo, quasi una sciocchezza, ma v’invito a notare che l’Homo Sapiens ha fatto di peggio perché a fissarsi nella specie sono state modifiche che vanno contro l’adattamento all’ambiente che lo circonda e quindi com’è possibile che la specie animale che ha conquistato il pianeta sia disadattata al pianeta stesso?

Sembrerebbe quindi che in qualche modo tutto questo renda la teoria dell’evoluzione di Darwin fallace, almeno nel nostro caso. Io ho una convinzione diversa e ritengo che la teoria dell’evoluzione di Darwin sia validissima ed efficace anche con l’Homo Sapiens, per cui vi invito a fare la seguente riflessione: e se fossero le ipotesi iniziali e non la teoria a essere sbagliate? Vi do un indizio che poi svilupperemo nel proseguo del libro: l’evoluzione naturale seleziona gli individui con le caratteristiche più adatte all’ambiente in cui vivono per cui la domanda da farsi è quale sia l’ambiente in cui si sono evoluti i genitori dell’Homo Sapiens.

Tutto quanto evidenziato finora è semplicemente inspiegabile, ma come se le stranezze esaminate fin qui non fossero già di per sé un mistero all’apparenza irrisolvibile, eccovene un’altra: RHESUS.

Il sangue rappresenta senza ombra di dubbio un elemento vitale di grande importanza e per questo motivo è tradizionalmente soggetto a pochi cambiamenti da un punto di vista evolutivo per tutti o quasi gli animali, escluso l’Homo Sapiens.

Alcuni anni fa, da uno studio sul primate Macaco Rhesus, emerse la presenza sulla superficie dei globuli rossi di un antigene o proteina particolare, che si dimostrò essere ereditaria e dominante. Come nella scimmia, nostro parente prossimo, anche nel sangue dell’uomo venne trovata quella stessa proteina, che oggi tutti noi conosciamo come fattore RH+: quindi fino a qui nulla di strano, dal momento che sembra che condividiamo con i nostri parenti prossimi questa caratteristica.

Ciò che risulta invece meno semplice da comprendere è il fatto che alcune persone non hanno questo antigene e infatti il loro gruppo sanguigno è caratterizzato dal fattore RH-. Che cosa ha comportato questa diversità dal momento che le scimmie da cui deriviamo presentano il fattore RH+? Stiamo forse parlando del primo gruppo d’individui portatore di una modifica fortuita e vantaggiosa del proprio genoma che gli consente di avere vantaggi evidenti e che si stanno affermando rispetto al resto della popolazione, crescendo quindi di numero, fino a diventare la nuova specie dominante?

Nulla di tutto questo: esaminiamo insieme alcune peculiarità e stranezze che caratterizzano il fattore rhesus.

Gli individui portatori di RH- possono donare sangue a tutti, inclusi i RH+, quindi, a rigore di logica, ciò parrebbe indicare una maggiore compatibilità del fattore RH- rispetto a quello positivo e di conseguenza rappresentare un vantaggio evolutivo. La stranezza è che questa caratteristica, apparentemente favorevole e vantaggiosa per la specie, si dimostra essere recessiva e quindi destinata a scomparire. Il fattore RH- è infatti molto raro, lo si trova solo nel 14% della popolazione mondiale, sta diminuendo ed è quindi destinato a scomparire nel tempo, inesorabilmente diluito nella caratteristica RH+ animalesca e prevalente nella nostra specie.

Di nuovo sembra che la logica dell’evoluzione naturale per l’uomo non si possa applicare perché ancora una volta la specie dominante sul pianeta va contro corrente.

In alcune popolazioni, come per esempio nei celti e nei baschi, il gruppo RH- è estremamente diffuso e ciò è legato al fatto che nella loro cultura si è conservata l’abitudine a evitare matrimoni misti tra persone con origini differenti, come se con questo retaggio culturale si cercasse di mantenere una certa purezza della razza. Quest’abitudine rappresenta un’interessante coincidenza con quelle che ritroviamo in numerose civiltà apparse agli albori della nostra storia e in particolare nelle loro caste dominanti, come per esempio quelle reali e sacerdotali dei sumeri, egizi e delle civiltà mesoamericane. È noto che nella mitologia sumera il successore legittimo al potere era il figlio primogenito ottenuto dall’incesto del padre con la sorellastra e ciò prevaleva perfino sul primogenito nato dal matrimonio ufficiale. Altrettanto possiamo dire degli egizi e di altre culture, come quella ebraica, di cui è nota la tendenza a matrimoni fra parenti stretti nella famiglia regnante.

Queste pratiche, chiaramente orientate al mantenimento della purezza del genoma, ivi incluso il gruppo sanguigno, risultano evidenti anche nella Bibbia, come per esempio nel caso del patriarca Abramo, Genesi 20, 12, che sposò la sua sorellastra Sara, figlia di suo padre, ma non di sua madre. Meno chiaro è invece il motivo per cui queste pratiche vennero adottate migliaia di anni fa, quando di gruppo sanguigno e di genoma, in teoria, non si doveva sapere nulla.

È altresì noto che i possessori di RH negativo non possono riceverne da RH positivo: sembrerebbe che il fattore RH+ sia quindi decisamente meno compatibile di quello RH negativo e di nuovo non si comprende perché esso risulti invece dominante da un punto di vista ereditario.

Questa presunta incompatibilità del fattore RH+ è poi ulteriormente confermata da un’altra peculiarità apparentemente inspiegabile: l’eritroblastosi fetale. Questo termine tecnico si riferisce al caso in cui una donna, non portatrice dell’antigene e quindi RH-, alla sua prima gravidanza, partorisca un figlio RH+. In questi casi è possibile che il sangue della madre venga contaminato con quello del figlio e reagisca sviluppando anticorpi contro l’antigene rhesus, che da lì in poi viene trattato dal sistema immunitario alla stregua di un corpo estraneo da combattere e rifiutare. Qualora anche un’eventuale successiva gravidanza generi un feto con RH+, gli anticorpi presenti nel sangue della madre potrebbero attaccare il bambino in grembo, come se fosse impuro, difettoso, arrivando fino al rigetto.

Tutto ciò ha veramente dell’incredibile ed è evidentemente innaturale il fatto che il corpo della madre rifiuti e cerchi di uccidere ed espellere il proprio figlio sano, trattandolo alla stregua di un qualcosa di estraneo. Apparentemente quindi il fattore RH+, nonostante sia dominante e quindi rappresenti la stragrande maggioranza degli individui, nasconde in sé un qualche segno d’impurità, d’incompatibilità, che il corpo umano tende a combattere. Sembrerebbe quasi che il sangue RH- sia una mutazione favorevole, introdotta di recente e quindi non ancora diffusasi e affermatasi nella specie, che però va scomparendo.

I globuli rossi dell’uomo possono poi essere caratterizzati da altri antigeni, che concorrono a determinare quello che tutti noi chiamiamo gruppo sanguigno. Esiste un particolare gruppo, lo zero, che non presenta invece nessun antigene ed è quindi più compatibile degli altri; esso è riconosciuto essere il gruppo più antico presente nell’Homo Sapiens. In particolare, il gruppo zero negativo, non presentando nessun antigene, può donare a qualsiasi altro individuo e può quindi essere in qualche modo considerato come il gruppo più puro, perché dotato della massima compatibilità, una sorta di sangue divino. Il gruppo 0-, pur rappresentando il massimo grado di purezza e compatibilità, è però il più raro che si possa trovare oggi nell’Homo Sapiens e questa è un’altra stranezza difficile da spiegare secondo l’ortodossia classica.

Una possibile spiegazione che, pur uscendo da ogni ipotesi scientifica, storica e religiosa di stampo classico, almeno in via del tutto teorica, sarebbe logicamente compatibile con tutte queste stranezze analizzate, è quella per cui il fattore RH- sia il risultato di un’ibridazione con una specie caratterizzata dall’assenza dell’antigene, che ha tramandato questa caratteristica all’Homo Sapiens o per lo meno a un gruppo di appartenenti a questa specie, differenziandolo dai suoi antenati primati e anche dal Neanderthal. Solo in seguito gli incroci impuri, nel corso dei millenni, hanno gradualmente reintrodotto il fattore rhesus di origine scimmiesca. Anche ammettendo una tale eventualità, la domanda a questo punto sarebbe la seguente: qual è la specie pura dalla cui ibridazione deriva il sapiens? E inoltre: cosa o chi avrebbe prodotto l’ibridazione?

Quindi ora sappiamo che quella che apparentemente rappresenta un’inspiegabile discontinuità nel processo evolutivo del genoma umano è avvenuta in Africa, circa trecentomila anni fa, ma ancora non sappiamo cosa l’abbia determinata, dal momento che esce da qualsiasi schema possibile dell’evoluzione naturale, per cui deve essere necessariamente legata a fattori esterni. In pratica è come se l’Homo Sapiens fosse orfano: ha molti parenti noti, ma non ha i genitori.

Certo che, volendo fermarsi un secondo a riflettere, già il dover prendere in considerazione un intervento esterno quale punto di partenza dell’incredibile storia del genere umano, rappresenta di per sé qualcosa di rivoluzionario, inimmaginabile fino a ieri. Quest’ipotesi è poi oltremodo rivoluzionaria se si pensa che dovrebbe risalire a un periodo preistorico, circa trecentomila anni fa, mentre perfino l’avanzata tecnologia bio-ingegneristica odierna non saprebbe fare altrettanto o quasi.

La moderna ingegneria genetica sta facendo passi da gigante, riuscendo in imprese che fino a qualche mese fa sembravano frutto della fantasia di uno scrittore di romanzi. Il 06 aprile del 2016 in Messico è nato un bambino sano con una caratteristica fantascientifica in quanto condivideva i DNA di tre individui differenti⁷: la madre e il padre biologici e una donatrice femmina. La tecnica di bioingegneria genetica utilizzata, denominata "spindle nuclear transfer", prevedeva infatti l’aggiunta di una manciata di geni di una donatrice donna nell’ovulo della madre biologica, poi fertilizzato con il liquido seminale del padre. L’obiettivo di un procedimento così incredibile era la prevenzione della rarissima sindrome di Leigh, una malattia neurologica che aveva portato la coppia di genitori a perdere due figli e interrompere ben quattro gravidanze.

Di fronte ad esempi come questi la domanda che ci possiamo porre è quindi la seguente: sapremmo noi indurre modifiche del genoma simili a quelle che abbiamo recentemente riscontrato nelle Human Accelerated Regions?

Di certo, grazie all’uso di particolari enzimi abbiamo imparato fin dagli anni Ottanta a tagliare alcune parti della sequenza del DNA e a inserirne di nuove, per curare malattie o indurre la produzione di sostanze utili, quali l’analogo d’insulina umana. Mentre scrivo queste parole un gruppo di ricercatori è riuscito tramite un enzima a ritagliare il segmento di DNA del virus dell’HIV-AIDS da quello della cellula infettata⁸, di fatto liberandola dall’infezione. Quindi abbiamo quantomeno gli strumenti fondamentali e necessari a modificare il genoma, innestando filamenti di DNA di una specie all’interno di altre, creando di fatto delle ibridazioni. È interessante notare che questa tecnica è conosciuta con un nome già citato in precedenza in questo libro, quasi suggerito dagli scienziati che hanno scoperto le HAR: DNA ricombinante.

I progressi della medicina moderna non devono però trarre in inganno, in quanto creare nuove specie ibridando animali di razze diverse, quant’anche imparentate, non è facile. È noto a tutti per esempio che un asino, Equus Asinus, maschio può essere incrociato con una cavalla, Equus Caballus, femmina perché, pur appartenendo a due specie diverse, sono dello stesso genere ma sappiamo bene che si ottiene un mulo, che è un ibrido sterile e non può riprodursi e conseguentemente dare spontaneamente origine a una nuova specie.

Circa trent’anni fa venne creato un ibrido capra-pecora, una chimera con le corna e col mantello di lana, ma ciò fu più il risultato del caso, in un processo di fusione embrionale, piuttosto che il successo di un’attenta pianificazione scientifica. Tenete quindi molto ben presente che, come risulta oltremodo evidente, Madre Natura tende a impedire naturalmente l’incrocio tra specie diverse, considerandolo alla stregua di un qualcosa di negativo e perciò da evitare.

Da tempo abbiamo poi dimostrato di essere in grado di clonare un animale complesso

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