Guida pratica per genitori: Come aiutare i bambini a crescere sereni
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Guida pratica per genitori - Sabrina D'Amanti
bambino/a
¹ , quanto per la madre.
Egli, venendo alla luce, si separa dal mondo che ha conosciuto fino a quel momento ed entra in contatto con un mondo nuovo.
Il mondo nel quale è stato e nel quale si è sviluppato era piuttosto buio, privo di aria – per quanto alimentato da ossigeno – dalle sonorità ovattate e soprattutto pieno di acqua. Quello nel quale ora si trova è invece avvolto di aria, il suo corpo ne viene circondato e i suoi polmoni invasi, avvertendone una leggera sensazione di bruciore, da cui il pianto.
In questa nuova realtà viene circondato dalla luce e dai colori, che ancora fatica a percepire, e dai suoni che ora gli arrivano in modo più nitido e intenso.
Il liquido amniotico nel quale era immerso e che lo ha cullato, ora non c’è più e questo produce in lui una nuova percezione del corpo. La sua massa corporea, privata di quel liquido, è più consistente, i suoi movimenti richiedono più forza e producono sensazioni cinestesiche nuove.
Il liquido amniotico nel quale egli nuotò per nove mesi era il suo mondo, un mondo piccolo eppur completo. Lì non vi era sensazione di bisogno o stato di necessità, condizione irrimediabilmente perduta con l’evento della nascita e che mai più potrà sperimentare. Dal cordone ombelicale riceveva ciò che gli occorreva, cibo, acqua, ossigeno, senza avvertire lo stato di bisogno, venendone sollevato nello stesso momento della sua insorgenza. Se la sua mamma era serena, e se lo era l’ambiente nel quale ella era immersa, nel suo grembo il piccolo sperimentò pace e serenità. Lì egli non provò mai sensazioni di fame, sete, freddo. In quel liquido liberava le scorie defecando e urinando senza avvertire fastidio o bisogno.
Diversa fu invece per lui l’esperienza se la madre non era serena. Oggi sappiamo dalla risonanza magnetica funzionale che gli umori della gestante passano attraverso il cordone ombelicale, attivando aree neuronali nell’encefalo del bambino fino al punto da lasciare tracce mnesiche permanenti nel caso di esperienze prolungate e ripetute. La sensazione di benessere del piccolo, già durante la gestazione, è quindi condizionata dallo stato di benessere fisico ed emotivo della madre.
In ogni caso, al di là di quale sia stata l’esperienza prenatale, venendo al mondo, egli si separa da una realtà unica e mai più ripetibile. Da questo momento in poi sperimenterà il bisogno come conseguenza dell’assenza, ovvero come mancanza di ciò che gli è necessario. Gli occorrerà quindi adattarsi a una realtà nella quale le cose vanno diversamente da come è abituato. In questo nuovo posto sperimenterà la tensione che si origina dal bisogno e il dolore che ne deriva, quando essa si fa acuta. Quando il bisogno verrà appagato, proverà sollievo e uno stato di momentanea omeostasi, nuovamente turbato all’insorgenza di un successivo bisogno che rimetterà tutto in discussione, riavviando il ciclo.
In quei nove mesi egli non aveva mai provato nulla di tutto questo.
La depressione post-partum
La nascita è un evento di separazione anche per la madre. Anche per lei, come per il bambino, essa implica un cambiamento fisico al quale si accompagnano forti sensazioni emotive.
Il bambino, che è fuori dal proprio pancione, lascia un senso di svuotamento e di perdita che può turbare fino a sentire un umore molto depresso. Tale sentimento è l’opposto di quello provato mentre dentro di sé si sviluppava quell’esserino, il corpicino del bambino che il proprio corpo aveva concepito e ospitava. È come se, sul piano psicologico, compiuto tale processo di sviluppo e perduta questa importante funzione, il suo corpo venisse svuotato di ogni significato.
Può anche accadere che al vissuto di perdita si combinino sentimenti di preoccupazione per il compito da svolgere, ora che il piccolo è fuori da quel mondo e che, se questi si fanno forti, turbino e disorientino la madre oltre misura, facendola sentire depressa.
La qualità, l’intensità e il perdurare dei sentimenti di turbamento post-partum dipendono dalla personalità della madre. Quanto più la sua personalità è emotivamente fragile e quanto più lei è insicura rispetto alle sue capacità di affrontare il compito che la attende, tanto più si sentirà disorientata, frastornata e depressa. Nel caso di disturbi gravi dell’affettività o del pensiero da parte della madre, il parto produce uno sconvolgimento tale da slatentizzare il problema psicologico o psichiatrico e farlo emergere in tutta la sua asprezza.
Se invece la madre ha un rapporto armonioso con se stessa e con il partner e ha vissuto con gioia e desiderio la gravidanza, presto si riprenderà e riorganizzerà il proprio comportamento secondo le nuove esigenze, facendosi guidare dalla naturale predisposizione fisiologica che le appartiene.
L’angoscia del bambino
Dentro al corpo materno il bambino vive in fusione con la madre e lei, a sua volta, in fusione con il figlio.
Venendo fuori, il piccolo mantiene ancora questa sensazione e anche la madre, in buona parte, fa altrettanto.
La ragione di ciò per lui è associata all’immaturità del proprio sistema nervoso, che non gli consente di identificare con chiarezza la realtà che lo circonda, impedendone una nitida percezione; per lei, invece, ha valore ontogenetico e serve a garantire la sopravvivenza del piccolo, predisponendola psicologicamente nel migliore dei modi per realizzare tale obiettivo. Questo atteggiamento emotivo, che Winnicott (1965), pediatra e psicoanalista britannico, chiamò preoccupazione materna primaria, si sviluppa qualche mese dopo l’inizio della gravidanza, dura fino ai primi mesi dopo il parto e consiste in un decentramento dell’attenzione della madre dalla propria persona verso quella del figlio. In questo periodo ella vive una particolare sensibilità e un peculiare atteggiamento di tenerezza, necessari a identificare con solerzia i bisogni del piccolo e a rispondervi con altrettanta rapidità, sollevandolo da essi in modo adeguato.
In questa fase, continua Winnicott, la madre si adatta ai bisogni del bambino, dando risposta a questi nel momento stesso in cui insorgono. Una tale rapidità riduce al minimo la sensazione di disagio che essi producono, discostando di poco l’esperienza che il bambino ha fatto, fino a quel momento, nel grembo materno.
Sperimentare precocemente sensazioni di frustrazione forti, quale può essere l’assenza prolungata del seno che lo nutre, sarebbe invece per lui deleterio. Queste sottoporrebbero a sollecitazioni gravemente destabilizzanti il suo, assai poco evoluto, apparato mentale. Nel momento della fame, l’assenza del seno che lo nutre produrrebbe in lui un’angoscia di morte devastante. Non essendo ancora in grado di comprendere il divenire del tempo, e quindi che ciò che è assente può comparire in un momento successivo, interpreterebbe tale mancanza come evento immutabile e riterrebbe la propria sorte irrimediabile. Un’angoscia di tal genere è quella che si osserva nei bambini quando, in preda ai morsi della fame, piangono con disperazione, strillando e manifestando, con quanto fiato hanno in petto, il grido di dolore e l’angoscia provata, diventando persino cianotici se, l’invocato intervento, tarda ad arrivare.
Reiterate esperienze simili, in questa assai delicata fase dell’esistenza, producono danni irreparabili. È questa la ragione per cui, dopo la nascita, l’ostetrica dice alla madre di allattare il piccolo ogni qualvolta manifesterà i segni della fame.
Per i primi mesi è necessario che egli non viva lunghi intervalli di tempo fra la percezione della fame e la sua soddisfazione e che non sperimenti quindi, come traumatizzante, il passaggio da una dimensione dove la percezione del bisogno era del tutto assente, alla nuova realtà dove questa è presente.
La presenza del seno, in coincidenza alla sensazione di fame, lo induce a illudersi di essere un tutt’uno con esso e di essere quindi egli stesso a governarlo.
La madre, contemporaneamente, oltre a sollevarlo all’occorrenza dai morsi della fame, lo accudirà su tutto ciò che è a lui necessario, provvederà a mantenerlo pulito, lo metterà a dormire in un posto per lui comodo, gli massaggerà il pancino quando le colichette lo infastidiranno, lo cullerà. Sarà prezioso sul piano emotivo (oltre che utile materialmente), sia per la madre che per il bambino, che si dedichi a queste cure anche il padre.
La frustrazione
Dopo il primo periodo, di un paio di mesi circa, caratterizzato dalla riduzione a livelli minimi dell’esperienza della frustrazione, il pediatra dirà alla madre di dare le poppate a intervalli prestabiliti. Queste saranno tante nell’arco delle ventiquattro ore, ma occorrerà che il bambino aspetti di volta in volta che arrivi il momento di quella successiva, anche nel caso in cui dovesse reclamare con il pianto la necessità di anticiparla. Si avvia in questo modo per lui un’esperienza programmata della frustrazione. Questa, finora sperimentata a livelli assai bassi di intensità, diviene un po’ più intensa, entrando a far parte della sua vita in modo graduale e quindi non traumatizzante. Il suo apparato mentale che via via va crescendo, complessificandosi, ora è pronto ad accoglierla e poiché la frustrazione fa parte della vita, è fondamentale per lui conoscerla, comprenderla e gestirla.
Se, al contrario, verrà protetto da questa, ne rimarrà schiacciato quando – prima o poi – se la troverà davanti ed essendo impreparato, non saprà gestirla.
Alcune madri, per un loro rapporto inadeguato con tale esperienza, preferiscono disattendere le indicazioni del pediatra, continuando ad alimentare il proprio bambino ogniqualvolta egli con il pianto lo richieda. Tra le varie ragioni di questo comportamento vi è