Mamma non mamma: Storia dell'affido di due gemellini a una single
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Book preview
Mamma non mamma - Carla Forcolin
Mamma non mamma
Storia dell’affido di due gemellini a una single
Carla Forcolin
FuoriStampa.itFuoriStampa.itPrima edizione: Marsilio Editori s.p.a. in Venezia • 2007
© FuoriStampa.it • 2021
ISBN 978-88-945597-5-0
Progetto grafico: Antonluca Indrieri
Con la collaborazione di: Valentina Marinacci
www.fuoristampa.it
Libri con una storia
a mia madre,
che mi ha insegnato a fare la mamma
Indice
Nota alla seconda edizione
Introduzione
Nel momento più sbagliato
In loro attesa
Il primo periodo
La mamma rotta
Buon Natale e buone feste
Influenza
Arresti domiciliari
Pasqua
Accolgo la sua frustrazione
Quando i cachi saranno maturi
Giugno: in spiaggia
In montagna
In attesa di espulsione
Quattro anni
Reato ostativo
Conclusioni
Quel che accadde dopo
Cenni biografici
Nota alla seconda edizione
Ringrazio FuoriStampa.it, che ha voluto una riedizione del mio libro Mamma non mamma, pubblicato da Marsilio nel gennaio del 2007, oggi esaurito.
Questo libro nasce prima della legge 62/2011, che ha istituito gli ICAM (Istituti a custodia attenuata per madri) con l’illusione di evitare ai figli delle detenute il carcere per sempre. Non è stato così e questi bambini, che prima del 2011 uscivano dal carcere a tre anni — come accadde ai protagonisti di questo libro — finirono per uscirne a sei, come avviene oggi.
Questo libro nasce anche prima della legge 173/2015, che garantisce — in teoria — ai bambini in affidamento la continuità degli affetti e permette che, qualora il bambino affidato a una famiglia venga dichiarato adottabile, possa essere adottato dagli affidatari: da coloro che già lo stanno trattando come un figlio. Previa valutazione dei Servizi sociali e del Tribunale per i Minorenni, ovviamente.
Nasce quando l’istituto dell’affidamento veniva apprezzato e le comunità per minori venivano chiuse. Ora si tende piuttosto a valorizzare le case-famiglia e a svalutare l’affidamento familiare. Addirittura c’è chi dice che gli affidatari ne traggono vantaggio economico.
Spero che questa storia di affido — la storia vera del passaggio dal carcere alla vita normale di due fratellini nigeriani di tre anni — possa gettare una luce più giusta su un istituto dai mille effetti positivi sui bambini, che ne hanno bisogno.
Introduzione
Per tanto tempo ho desiderato avere un bambino in adozione, ma il mio stato civile di donna divorziata non me lo permetteva o meglio mi permetteva solo di adottare in casi particolari. Non m’importava che il bambino fosse mio
, volevo soprattutto prendermene cura. Divenni così la prima affidataria single del mio Comune, ma tra la prima esperienza e la seconda, che qui narro, passarono dieci anni, durante i quali mi ero rassegnata a vivere senza bimbi. Quando non ci pensavo più, quasi a cinquantaquattro anni, me ne arrivarono due: fratelli gemelli, maschio e femmina, tre anni appena compiuti. Dalla lettura di questo libro emerge di certo la fatica connessa al compito di fare il genitore affidatario. Spero emerga anche la dolcezza di far crescere nel miglior modo possibile dei bambini che hanno bisogno di essere aiutati a collocarsi nel mondo, dopo la separazione dalla mamma e, in questo caso, dopo la carcerazione subita nei primi tre anni di vita.
Ogni affidamento è un’avventura difficile in sé: accogliere un bambino nella propria casa, trattarlo come un figlio e poi riconsegnarlo alla famiglia d’origine (se e quando le cose vanno bene) non è scelta priva di turbamenti. Non è facile vivere per mesi e anni da genitore che mette il figlio più fragile in cima ai propri pensieri e poi spostare l’asse dei propri interessi e l’organizzazione del proprio tempo con tutto ciò che ne consegue. Eppure vivere un affidamento è vivere una preziosa opportunità per arricchire la propria esistenza con affetti ed esperienze che contribuiscono a dare senso alla vita. È concedersi il lusso di volere bene a uno o più bambini pur non sapendo se in futuro li si potrà seguire, anzi prevedendo che le cure genitoriali offerte non avranno contropartita alcuna. Farsi carico di un affidamento è, per una donna sola, nel nostro paese (il solo tra tutti i venti Stati della rete europea che ha Osservatori nazionali sull’infanzia), anche l’unica forma di maternità non biologica che le è legalmente concessa se si escludono i casi particolari che sono contemplati nell’art. 44 della legge 184/83, ora art. 25 della legge 149/01.
Dunque, la legge attuale non esclude del tutto le singole persone dall’adozione, ma è prassi consolidata che la loro disponibilità non sia nemmeno presa in considerazione. La banca dati nazionale dei minori adottabili e degli adulti disponibili all’adozione, prevista dall’art. 40 della legge attuale, in cui dovrebbero essere menzionate anche le singole persone, non è mai stata fatta, in palese violazione della legge stessa. Generalmente i single non sono molto apprezzati nemmeno per gli affidamenti: i Servizi, prima di fidarsi di una donna sola (e a maggior ragione di un uomo solo), devono conoscerla bene e pensarla possibilmente inserita in una rete di famiglie che pratichino il mutuo aiuto e sostegno. Naturalmente è logico pensare che questa diffidenza si basi sulla oggettiva maggiore difficoltà a svolgere un ruolo genitoriale da soli anziché in coppia. Ma ci sono situazioni in cui si ha molto bisogno di qualche persona il cui requisito principale sia, ad esempio, la disponibilità ad accompagnare i bambini ai colloqui con la mamma o il fatto che viva in una certa zona (e sia ragionevolmente in grado di svolgere il compito affidatole). In questi casi le resistenze dei Servizi nei confronti delle famiglie non tradizionali passano in seconda linea.
Fu proprio ciò che accadde nel caso qui narrato: si doveva trovare una sistemazione per due bambini piccoli, vicina al carcere in cui si trovava la loro mamma.
Alle detenute madri è consentito tenere i figli con sé fino all’età di tre anni. Questo avviene per non privare i bambini del contatto con la mamma nella prima parte della vita, quando questo rapporto è fondamentale per il loro sviluppo psicologico. È evidente però che crescere in un carcere, sia pure in condizioni meno svantaggiate della norma, nei cosiddetti nidi
, istituiti appositamente negli istituti penitenziari femminili, reca con sé vari handicap. Per questo, al compimento dei tre anni, i bambini vengono staccati dalla madre e dati in affidamento a qualche membro della famiglia di provenienza o a delle comunità. Sarebbe giusto e sarebbe nello spirito dell’affidamento che proprio questi bambini, istituzionalizzati fin dalla più tenera infanzia, trovassero invece, in mancanza della famiglia originaria, altre famiglie disposte ad accoglierli; ma raramente i Servizi cercano per i piccoli tali sistemazioni. Di solito sono le mamme stesse a opporsi alla cosa, temendo di perdere l’affetto dei loro bambini. Nel caso qui narrato, invece, la mamma dei gemelli non voleva assolutamente che i bambini fossero istituzionalizzati e avrebbe preferito farli rimpatriare in Nigeria, da un padre mai visto, piuttosto che saperli in una comunità o in un istituto.
Avevo accolto due bambini che non sapevano quasi parlare, che avevano paura anche dei gatti che incontravano per strada, che non avevano visto quasi nulla del mondo. Poco più di un anno dopo, avevano una capacità di espressione identica a quella dei loro coetanei nati in Italia da famiglie colte, erano capaci di ubbidire e di rispettare delle regole, capendone il senso. Erano diventati bambini in grado di fare ragionamenti autonomi perfettamente logici e si divertivano a inventare canzoncine, a fare disegni, a leggere
libretti, a costruire puzzle ecc. Erano allegri e affettuosi.
Mi avevano insegnato a vivere calata nella dimensione del presente come nessun maestro di yoga aveva fatto: d’altra parte si fa di necessità virtù e quando non si può programmare il futuro si vive il presente. Mi avevano insegnato ad accettare quello che la vita passa, soprattutto con l’esempio: erano venuti con me accettandomi fin dal primo momento. Avevano sopportato i miei malesseri e il mio nervosismo senza mai togliermi un briciolo del loro affetto e della loro fiducia, cosa che per noi grandi è inimmaginabile. Mi tenevano il broncio solo se li escludevo dalle cose che facevo, ma capivano che certe mie attività non erano da bambini
ed erano fieri di me per quello che sapevo fare. Mi avevano dato un concentrato di maternità come non l’avevo mai avuto: due piccini, maschio e femmina, a cui far conoscere il mondo partendo quasi da zero, perché prima erano stati rinchiusi in carcere.
Erano anche capaci di quel difficilissimo sentimento di riconoscenza che sarebbe sciocco e quasi meschino richiedere, ma che quando arriva fa piacere. Un giorno, mentre attraversavamo piazza San Marco (vivo a Venezia) mi venne in mente di fare loro la proposta: «Andiamo in cima al campanile?» La risposta fu entusiastica, ma poi la bambina aggiunse, come folgorata da un pensiero improvviso: «Eravamo in carcere e non avevamo visto niente, poi sei arrivata tu e… e… ci hai fatto vedere…» era difficile finire il concetto, ma un gesto rotondo ed eloquente e un abbraccio in mezzo alla piazza lo conclusero. Io ero stata tramite tra loro e il mondo e me n’erano grati. Per me è stato l’aspetto più bello di quella maternità
.
Avevo avuto un altro affidamento, molti anni prima. Era stato completamente diverso ed era andato molto meno bene. So di affidamenti finiti tragicamente, benché gli affidatari fossero bravissimi. So di persone che si sono depresse e separate dopo aver vissuto quel terribile trauma di vedersi portare via un figlio piccolo non per restituirlo ai genitori, ma perché altri lo prendessero in adozione. So di affidamenti divenuti in realtà rapporti permanenti, pur in presenza dei genitori (o di un genitore) naturali, con soddisfazione di tutti i personaggi coinvolti, e di affidamenti divenuti adozioni. Non ci sono due affidamenti uguali e in