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Sceglie i giorni di pioggia
Sceglie i giorni di pioggia
Sceglie i giorni di pioggia
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Sceglie i giorni di pioggia

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Qual è il confine tra realtà e immaginazione? Fin dove può spingersi la libertà nella finzione? Tra le strade notturne di Roma, passando per i vicoli di pietra del centro storico, nella sala d’attesa del dentista, su un traghetto diretto in Sicilia, in spiaggia o attraverso le correnti marine, tra le poltrone di un teatro viennese. Quando lo spazio della vita non basta, lo si cerca in un sogno, in un ricordo, in una fantasia più vera di altre. Una raccolta di racconti varia, al limite tra quotidiano e surreale, verosimile e onirico. Parole alla ricerca delle molteplici forme in cui può manifestarsi la ricchezza dell’esperienza umana.
 
LanguageItaliano
Release dateApr 2, 2021
ISBN9788869632686
Sceglie i giorni di pioggia

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    Sceglie i giorni di pioggia - Roberta Rotolo

    Roberta Rotolo

    SCEGLIE I GIORNI DI PIOGGIA

    Elison Publishing

    © 2021 – Elison Publishing

    Tutti i diritti sono riservati

    www.elisonpublishing.com

    ISBN 9788869632686

    Indice

    ELENA

    A PEZZI

    OCRA GIALLA E BLU

    A ZAGABRIA I TRENI NON PASSANO

    SCEGLIE I GIORNI DI PIOGGIA

    IL CAPOCANTIERE

    SALA D’ATTESA

    LA PRIMA STROFA

    CASCO D’ARGENTO

    FRASTUCA

    ACQUAMARINA

    IL BANCO DEI LIBRI

    IL PROCESSO

    L’EQUIVOCO

    I DUE PADRI

    LA BARCA DI FEDERICO

    UNA PIANTA

    ELENA

    Elena. La bellezza e la maledizione di questo nome se le portava addosso. Vestiva con abiti neri e bianche camicie scollate la sensualità dei suoi diciassette anni, scostandoli o scoprendoli al ritmo di gemiti e baci rubati. Se qualcuno avesse dovuto indicare il confine tra inferno e paradiso avrebbe eletto il limite di quelle labbra carnose, prominenti per conformazione o vizio. Molti di coloro che avevano giocato a fare gli equilibristi su quel filo teso erano finiti inevitabilmente per scivolare e cadere nell’abisso, vittime di duplice condanna: al momento di piacere seguiva la consapevolezza che non ne sarebbero mai stati sazi. Eppure sceglievano sempre la pelle liscia e il solco arabescato sulla curva della schiena, rampa del desiderio proibito.

    Elena, mi ami vero?, imploravano mazzi di rose rosse di mittente ignoto, catenelle d’oro abbandonate tra le dita, promesse o speranze o illusioni di voci che avrebbero desiderato qualcosa di più che il semplice dono del corpo in una notte sottratta alla noia. Lei rideva e la fresca rugiada del suo riso spazzava via tutto.

    Elena di tutti e mai completamente di nessuno. Elena dall’inconfondibile passo cadenzato, dal mento altero e dallo sguardo continuamente affilato da quello dei volti che non le resistevano. Parlava ad alta voce, quasi gridando, vinta dalla sola paura che il mondo potesse dimenticarsi di lei anche solo per un istante.

    Le urla di compagne tradite e amanti ferite dalla lama di un corpo più piacente del loro le arrivavano ovattate dal suono di un vinile jazz che ascoltava per moda o del brano dell’ultimo gruppo indie che strimpellava in un angolo ristretto di celebrità bohémien. Viveva il suo essere al mondo come una missione onerosa o chiamata alla leggerezza.

    Aveva imparato a planare ad ali tese sulla tensione superficiale del mare di eros, calcolando millimetricamente la distanza necessaria a non abbandonarvisi mai del tutto o a lasciare una scia sulle sue acque.

    Amava? Sì, la vita.

    Quando la maggiore età la sorprese con il luogo comune dell’assunzione di responsabilità, lei si vestì del più bell’abito color corallo che possedeva, ornò i lobi e il collo di accessori di bigiotteria e scelse un Giovanni di poche pretese che le facesse schivare abilmente le domande di amici e parenti. Perfetto per accompagnare con le note della chitarra il rito di notti estive da consumare attorno ad un falò… Ma il sipario calò presto, ché la fiamma si spegneva sotto la campana di vetro della quotidianità. Ritrovò se stessa nel gioco della caccia e della preda.

    Solo una volta alla pienezza del desiderio si sostituì l’ombra di una scura nostalgia: quando da universitaria andò a vivere in una chiassosa Roma per dimenticarsi del tutto e perdersi tra la folla che sfrecciava in bicicletta. Avvertì allora lo scacco: c’era una catena di ferro che legava i polsi e le caviglie anche dell’esistenza più libera. Si scoprì figlia di un padre, seme di una terra lontana, attrice di un palco non suo.

    L’ombra si dissolse in fretta. Seppe piegare anche la città eterna all’obbedienza alle sue ciglia lunghe e ai riccioli elastici.

    Oggi Elena è vecchia ma non ha accolto l’invito della sua età. Sogna ancora il ritmo delle onde che assaltano e si ritirano, la voce roca di un musicista che le dona sussurri di poesie tra le lenzuola, i portici sempre illuminati di una Roma che non dorme mai.

    Quando le è spuntata la prima ruga, ha sposato un ricco avvocato dai capelli bianchi e dalle mani piccole e tozze.

    Cosa ha amato di più? Il desiderio in sé oppure essere oggetto del desiderio? Probabilmente il secondo; ha deciso di vendere il primo in cambio di unghie sempre curate e una seduta settimanale dall’acconciatrice.

    A PEZZI

    Come da copione i visitatori del museo, dopo aver indugiato sulle trame impressioniste, dopo essersi lasciati alle spalle lunghi viali alberati macchiati di verde, si fermavano a rendere omaggio al quadro di Degas; Elisa li osservava in silenzio e leggeva perfettamente nei loro pensieri la pretesa di trovare l’immagine esatta corrispondente al negativo che avevano creato nella loro testa o ereditato da una cultura di stereotipi televisivi: lunghe gambe flessuose e filiformi, fruscio di sete cipria e nuvole evanescenti di pizzo e tulle. Cercavano la grazia dei movimenti, l’impeccabilità dello chignon, la serenità rassicurante sul volto di chi è araldo di una disciplina di bellezza, destinata a sciogliere o per lo meno a sospendere per qualche attimo il disgusto dalle brutture del mondo.

    E in effetti il quadro di Degas offriva loro quello che volevano vedere.

    In quei momenti si stringeva con forza al braccio di Andrea, per scrollarsi di dosso l’indignazione, invitandolo a fermarla in tempo prima che la scossa elettrica le pulsasse nelle vene e le facesse aprire uno squarcio proprio al centro, nel ventre della tela, affinché i mostri dello scrigno di Pandora fossero finalmente liberi e tutti, ma proprio tutti, potessero accorgersi che anche quella tela, quella ballerina impressa sulla tela, era carne, e poteva essere ferita.

    Andrea rideva di questo orgoglio immotivato, scioglieva il braccio dalla morsa delle sue dita sottili ed impazzite, le accarezzava i capelli e baciandola in fronte le diceva che no, non ne valeva la pena, che loro non sarebbero mai riusciti a decifrare i rivoli di sudore impressi anche sulla pelle più bianca e liscia. Eppure lui stesso s’era infatuato di quella porcellana, più che dei segni della fatica, delle acconciature perfette, dell’ornamento bello sul corpo bello, più che del rigore che contrae. S’era infatuato di lei che danzava.

    Ti ricordi, quando per la prima volta ti ho vista sul palco?

    Faceva caldo ed il teatro era pieno…

    Non lo era abbastanza. Ti cercavo con lo sguardo, ma a che serviva cercare quando tutto il resto era solo buio o ombra artificiale?

    Eravamo tutte brave.

    Tu più di tutte. Ti ho raccolta davanti allo specchio del camerino, con i capelli sciolti e un paio di scarpette legate ai polsi e alle caviglie.

    Mi conosci bene. Sai che per acquietare il mio orgoglio lo devi nutrire.

    Elisa allentò la presa sul braccio, e la mano scese fino a quella di lui, per chiedere ospitalità nell’intreccio di dita e proseguire la visita al museo, dimentica di Degas e del pittore che dipingeva la danza senza fare la danza.

    Andrea tagliò la corda in un pomeriggio di novembre, quando la pioggia aveva unto l’asfalto con l’acquasanta di una maledizione e aveva fatto sbandare una citycar grigia oltre il guard rail dell’autostrada. Dentro vi ritrovarono il corpo esile di una giovane donna, tinto dal sangue vermiglio e priva di coscienza.

    Le pareti bianche dei corridoi dell’ospedale sembravano voler assolvere una qualche missione di purificazione, o per lo meno donare quiete agli occhi e alle menti appartenenti a corpi che non erano stati risparmiati dalla falce della precarietà. Sì, – Elisa ne era certa– quello era pensato per essere proprio il luogo dell’oblio, degli orari stabiliti, delle uniformi bianche, dei pasti razionati e senza sale, dell’assopimento e della trance dei sensi.

    Aveva la testa fasciata da una benda di lino che le schiacciava i lunghi capelli castani sulla nuca: i medici avevano ceduto alle sue suppliche insistenti e lamentose e si erano astenuti dal rasarglieli nella parte in cui la ferita era più profonda e andava medicata…ma Elisa aveva dita sottili e stringenti come tenaglie in grado di attaccare e trincerare con inspiegabile forza le braccia di chi cercasse di rubarle quell’ultima, disperata bandiera di femminilità che ancora resisteva.

    Vinceva una battaglia, ma la guerra era persa.

    Al di sotto del bacino, quelle gambe lunghe e filiformi, perfettamente dritte e delicatamente tornite da un sottile strato di muscoli, questa volta giacevano immobili, assenti come i pezzi di legno di un burattino al quale sono stati tagliati i fili. Non v’era traccia di tremore, scatto, contrazione; avevano perso la loro vita, e con essa quella di Elisa sembrava essere volata via, lontano, lontano…

    Dietro le quinte della vita, quando la nostra scena è spenta e le assi di legno del palco sono crollate, si vive male: è limbo, lo spazio è stretto, si avverte la fatica, l’aria è rarefatta. Elisa sentiva che il sipario era calato e lei, che non era abituata a restare dietro le quinte, aveva il fiato corto e il respiro soffocato.

    La perdita parziale è dolorosa. Forse avrebbe accettato più serenamente la morte. Immaginava che le sue gambe fossero vive da qualche parte, che ancora danzassero e si contorcessero sulla superficie di un parquet di vita nuova.

    Non scostava mai il lenzuolo bianco che le copriva, barriera, diga o argine per tenere a bada lo strabordare di un dolore che l’avrebbe inondata tutta, fino alla testa.

    Nella stanza 47, accanto al suo letto, un anziano signore ottantenne, con il viso avvolto da una cannula d’ossigeno che disegnava un baffo proprio sotto il naso, condivideva in silenzio le giornate albine. Non riceveva mai visite, accoglieva con parsimonia le cure delle infermiere che lo aiutavano di volta in volta ad adempiere alle esigenze primarie, le ringraziava accennando un sorriso debole ma disegnato con tenacia sui rami di rughe scolpite.

    Tanto quieto di giorno, quanto tormentato di notte. Elisa lo sentiva muoversi, lottare sotto le lenzuola contro chissà quale demone invisibile; si strappava delirante la cannula d’ossigeno, le infermiere accorrevano, lo sedavano. Parlava, a volte urlava,

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