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La casa dalle nuvole dentro
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La casa dalle nuvole dentro

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About this ebook

Andrea è un padre di famiglia che abita a Firenze. Conduce una vita da pendolare seguendo i suoi riti. Nella primavera del 2015, alcuni eventi improvvisi incrinano però il suo precario equilibrio. Una spirale di tensione e violenza coinvolgerà la moglie Rebecca e il figlio Luca in un crescendo di colpi di scena. A volte serve partire, per sapere come tornare. Con l’aiuto del terapeuta Ernesto, Andrea andrà in Calabria, luogo di origine del padre, per evitare di mettere ulteriormente a rischio la sicurezza della sua famiglia. Sarà qui, grazie all’affetto dei suoi parenti e a nuovi e vecchi incontri, che riuscirà a riappropriarsi della possibilità di scegliere che uomo diverso essere. Una possibilità che lo aspettava da più di trent’anni. Giacomo Grifoni lavora come psicologo e psicoterapeuta ed è socio fondatore e Responsabile della formazione del Centro Ascolto Uomini Maltrattanti di Firenze, il primo centro in Italia che si occupa di favorire il cambiamento di uomini violenti nelle relazioni affettive. Nel 2016 ha pubblicato con Franco Angeli il testo “L’uomo maltrattante. Dall’accoglienza all’intervento con l’autore di violenza domestica”. Ha scritto diversi saggi sull’argomento ed è al suo primo romanzo
LanguageItaliano
PublisherAmico Libro
Release dateFeb 20, 2017
ISBN9791220282864
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    La casa dalle nuvole dentro - Giacomo Grifoni

    scena?

    PRESENTAZIONE

    C

    i sono cose che si scoprono nella relazione. Aspetti di sé, cose del mondo, aspetti degli altri. Il protagonista del racconto attraverso le relazioni intreccia un percorso di conoscenza di sé. Ma non è solo il protagonista che si interroga, fantastica, imbocca false piste e cerca strade nuove. Anche il lettore è invitato a seguirlo in un dinamico gioco di specchi e di cambi narrativi che alternano ironia, distacco, gioco intellettuale, ricchi di passaggi da picchi di dramma a spazi gigioneggianti. Lo stile narrativo è poliedrico con intrecci da giallo e momenti d’intensità lirica fragile e forte. Ha la qualità delle emozioni forti che riescono ad avvolgere il lettore in un ritmo incalzante come il frangersi del mare o il crescendo di un amplesso.

    È un libro sulla violenza?

    Forse... più ancora è un libro che narra la fragilità delle persone e il potere delle relazioni che possono distruggere e possono guarire. La storia non è mai banale pur avendo il sapore della quotidianità e l’autore riesce a creare una sospensione narrativa per cui il lettore non sa mai cosa sta per accadere. Procediamo in una strada, come il nostro protagonista, senza mai sapere cosa si troverà dietro la prossima curva. Eppure non è la trama degli eventi che avvince. È la storia interiore, una ricerca di senso nelle relazioni con sé e con gli altri che dal primo momento narra l’intimità di un uomo in crisi. Lo sguardo dentro la psicologia di un uomo sarebbe già un raro squarcio. In questo lungo racconto interiore si analizza però non solo la crisi, ma anche la violenza verso la compagna come risposta a un disagio interno.

    Ci sono momenti nella lettura in cui ci sentiamo terrorizzati e disgustati dal protagonista e altri in cui siamo al suo fianco. Sentiamo a momenti il rischio di non riconoscere neanche più lo spazio che sempre accompagna la scelta di agire violenza. Quando questo accade andiamo in crisi e pensiamo: Non lo staremo mica giustificando? Ma è proprio la capacità di accompagnarci dentro e fuori un processo di consapevolezza che oscilla fra giustificazione e assunzione di responsabilità che rende questo romanzo speciale e diverso dagli altri. Oltre a dare il punto di vista di un uomo maltrattante ci avvicina alla complessità delle relazioni in cui c’è violenza.

    In questo senso sento una grande continuità intellettuale, politica e di sensibilità con questo testo, che analizza sul piano emozionale, come solo la narrativa sa fare, ciò che da anni cerchiamo di portare avanti come CAM – (Centro di Ascolto Uomini Maltrattanti) Firenze sui temi della violenza. Offrire una lettura della complessità e formare a navigare le complessità relazionali di chi vive situazioni di violenza.

    È quindi un romanzo di formazione, ma è anche un romanzo che forma perché oltre a essere una lettura avvincente è anche una lettura istruttiva. Spiega meglio di molti manuali la psicologia di un uomo che compie violenza, le crisi che possono portare al cambiamento e cosa può sostenerlo. Non solo, credo che possa anche aiutare gli uomini a pensare ai propri comportamenti in una chiave più complessa: quali potrebbero essere le parole dietro alcuni scatti o malumori spesso piuttosto opachi anche a se stessi.

    Ormai da alcuni anni il gruppo di lavoro del CAM cerca di riportare il tema della complessità all’interno del paradigma della violenza di genere. Pur avendo un chiaro orientamento di genere e una posizione visceralmente schierata a contrastare la violenza, cerchiamo tuttavia di non banalizzare l’esperienza della violenza o le soluzioni proponibili. Quando rispetto alla violenza i colori sono solo il bianco o il nero, il rischio è quello di semplificare ed escludere senso dalla ricchezza dell’umanità delle persone che incontriamo, siano esse vittime o autori di violenza. Questo romanzo tiene insieme con una finzione letteraria le contraddizioni e le complessità della vita reale e la banalità della violenza quotidiana. Parla della violenza come non siamo abituati a pensarla, insinuata fra le pieghe di una pausa in autogrill o nelle scelte per la cena al supermercato. In luce una narrazione che riguarda il presente e le scelte dell’oggi, nell’ombra si intravede un passato traumatico che ha frantumato la linearità di una auto-narrazione consapevole. Il fuoco è su uomo che agisce violenza, ma anche sulle scelte di una donna e del figlio, che subiscono e reagiscono a questa violenza.

    Infine è nelle relazioni che si scoprono cose di sé. C’è qualcosa del modo in cui Giacomo mi propone le sue idee e c’è qualcosa nelle sue idee stesse che stimolano la mia creatività. È come se Giacomo riuscisse a illuminare strade e percorsi che prima non riuscivo a vedere. Lui dice che sono capace di vedere cose che non c’erano, trascura di dire, non so se consapevolmente oppure no, che spesso è lui che me le mostra.

    Abbiamo ancora molto da fare.

    Alessandra Pauncz

    Firenze, 28 maggio 2016

    A Cristina, Davide e Gabriele

    Tre voci dentro

    Debbono esserci isole verso il sud delle cose dove soffrire è qualcosa di più dolce, dove vivere costa meno al pensiero, e dove è possibile chiudere gli occhi e addormentarsi al sole e svegliarsi senza dover pensare.

    Dalla poesia di Fernando Pessoa "Ricordo bene il suo sguardo".

    QUALCOSA DI ESOTICO

    1. Una botta alla sua sveglia

    I

    L

    a mamma entra in camera mia con la testa piegata. Sembra una marionetta a cui hanno staccato un filo. Parla a voce bassa. Amore, oggi non vai a scuola. L’abbraccio e le dico: Ti voglio bene. Lei risponde: Lo so.

    Di nuovo la stessa scena. Una manciata di fotogrammi sempre uguali. Poi è partita la voce della giornalista dalla sveglia di Rebecca, che non ho mai avuto voglia di capire come funzioni. Tutte le mattine le tiro una botta facendo leva sul gomito sinistro, cercando di non schiacciare mia moglie. Lei ripete sospirando: Andrea... basta spingere il bottone..., ma a me piace così. I bottoni da premere sono per altri uomini. La radio riferiva della crisi economica greca. Un motivo in più per zittirla con il fruscio del sintonizzatore, scendere dal letto ed effettuare il check. Ho questa abitudine fin da bambino, quando pensavo che di notte dei diavoletti si divertissero a spostare i miei giocattoli. Li immaginavo correre da un angolo all’altro della casa giusto per mettere le cose in disordine. Siccome la mattina ritrovavo i giocattoli al loro posto, la mamma diceva che era una mia fantasia. Proprio la sua spiegazione non mi convinceva, perché non negava l’esistenza in sé dei diavoletti. Sceso dal letto sono subito andato a controllare dove fosse il portafoglio. Era sul tavolo. Il lettore mp3 si accendeva regolarmente e allora sono partito. Dovevo perlustrare casa e soprattutto interagire con Rebecca e Luca prima di andare a lavoro. Sembrava una giornata qualsiasi. Niente lasciava immaginare come sarebbero andate le cose.

    Il mio risveglio ansioso credo dipenda dal fatto che da piccolo la nonna Anita entrava in camera gridando: In piedi dormiglione! Devi andare a scuola! Quest’azione contrastava con la sua dolcezza e derivava dal modo in cui era stata svegliata dai miei bisnonni durante la guerra. La mamma aveva sofferto i suoi modi bruschi ed era convinta che con me adottasse un altro metodo. Io glielo facevo credere, per non darle altre preoccupazioni. Finita la colazione, nonno Alfredo mi accompagnava a scuola. Al momento dei saluti mi metteva in tasca un pacchetto di fazzoletti senza frastornarmi con le chiacchiere di mio padre sul fatto che dovessi essere forte. Da grande ho capito che la sua consegna dei fazzoletti era un’autorizzazione a piangere in grado di farmi sentire meno triste anche se non avevo visto i miei. In casa, infatti, loro non c’erano quasi mai. Mio padre si chiamava Domenico, faceva il ferroviere ed era spesso via per lavoro. La mamma invece usciva alle sette per badare a una signora anziana e per questo veniva soprannominata dal babbo Anna la Dottoressa. Così passavo molto tempo con i nonni materni, due persone buone che impiegavano le loro giornate per stare con me. Sembravamo tre piccoli boy-scout chiusi in un appartamento. Tornato da scuola giocavo a calcio in salotto con il nonno. Preferivo non andare ai giardini perché volevo aspettare la mamma. Rientrava tardi per dare il cambio turno ai nonni e vederla salire le scale mi rendeva felice. Di solito a quell’ora pedalavo su una biciclettina con cui facevo la spola tra cucina e camera; era il vantaggio di avere un corridoio in casa, che mi consentiva di sputare dietro alle porte i bocconi della braciola. Una sera la nonna se ne accorse e mi disse: Sei un bambino cattivo! Io la ciccia non te la compro più! Per fortuna, il giorno dopo mi resi conto che era uno scherzo; aveva di nuovo comprato una braciola, chiusa nella carta bianca di cui ricordo ancora il fruscio. La carne è l’alimento migliore per farmi crescere robusto, diceva. Siamo fatti di carne e il suo ragionamento, da un certo punto di vista, era del tutto logico.

    A differenza di quella della mia infanzia, la casa in cui vivo non ha il corridoio ma un ingresso da cui partono tutte le stanze. È una specie di quadrato al terzo piano di un palazzo nel quartiere fiorentino di Rifredi, scelto con cura da Rebecca poco prima che nascesse Luca. Cercava un appartamento con due terrazzini e non è stato facile trovare la casa giusta che si aerasse come voleva lei. A me sarebbero andate bene tutte, purché non fossero a pian terreno a causa di una certa fobia dei ladri. All’epoca una delle nostre conversazioni tipiche suonava così:

    Stasera vado con l’agente immobiliare a vedere l’appartamento.

    A che piano è?

    Al quarto.

    Se non viene troppo, a me va bene.

    Anche senza vederlo?

    Anche senza vederlo.

    Finimmo per comprare il nostro quadrato a cui nel tempo ho imparato ad affezionarmi. Sono un uomo che dopo l’indifferenza iniziale è in grado di provare un forte attaccamento per cose, luoghi e persone, al punto da non rinunciare più alle mie certezze, indipendentemente dal fatto se siano sane o no. Ci sono centinaia di libri con la formula perfetta per diventare felici, ma credo di essere abbastanza convinto del seguente assioma: ciascuno di noi è uno staterello la cui costituzione si fonda sulla fatica. Per questo motivo, non rinuncerei mai a proseguire il check.

    II

    Vicino alla porta d’ingresso del nostro quadrivano c’è uno specchio a muro di fronte al quale passo due minuti tutte le mattine e anche stamani ci sono andato davanti, con il senso di pesantezza che nasce quando sai che ti aspetta una delusione. Durante le ispezioni rituali del girovita a cui mi sottopongo, mi è sembrato di percepire nuovi rotoli di grasso intorno ai miei fianchi. È sicuramente stata la prima nota storta della giornata e ho bestemmiato per il fatto di aver mangiato una doppia porzione di dolce ieri sera. Mi sono allora stirato la pelle ipotizzando come sarebbe stato il mondo se avessi avuto la pancia piatta. Un esercizio impietoso per ogni quarantenne, fatto in penombra per prendere atto a metà del tempo che passa. Ho pensato che con la pancia piatta forse nella mia vita avrei rimorchiato qualche sguardo in più. Alle donne piace l’uomo dal ventre snello, per quanto la pelle flaccida d’inverno non si noti di primo acchito. Il problema è che stiamo andando verso l’estate e non so giudicare il mio aspetto fisico. Quest’inverno sono stato piuttosto attento a non esagerare con il cibo ma non riesco a valutare se possa definirmi vicino all’idea di essere in forma. Ho i capelli mossi tendenti al rossiccio, un naso che qualcuno definirebbe greco e due occhi tondi che gradirei più affusolati e meno a pesce lesso. Sono alto un metro e ottantacinque, come recita la carta di identità. Da quando avevo diciotto anni ho dichiarato un paio di centimetri in più allo Stato e nessuno se n’è accorto. Il mio corpo soffre di un’approssimazione all’obesità che sono contento di non aver trasmesso a mio figlio. Non sono esattamente grasso: lo sembro. Nel mio DNA pare ci sia un gene che mi fa essere in sovrappeso anche in caso di attività sportiva. Un ragazzo incontrato in un bar in autostrada mi spiegò come sta la questione. Dentro di me ho dei cromosomi sadici e sono loro i responsabili dei miei tessuti lassi. Nella nostra breve amicizia, quel ragazzo mi comunicò tutta la sua comprensione dall’alto del suo fisico tonico e dotato di un metabolismo più fortunato del mio. A partire da quel giorno ho capito che a causa di questi cromosomi non mi vedrò mai bello e a poco sono valse le rassicurazioni di Rebecca. Come quelle di una madre valgono meno della metà. Giusto l’altro giorno dicevamo:

    Guarda che non sei ingrassato.

    Ho il fisico molle. Sono i cromosomi sadici.

    A me piaci lo stesso anche con queste lonzettine!

    Ferma. Non toccarle!

    Sei mio marito o no?

    Un uomo vorrebbe sentirsi dire che è bello da tutte.

    Chi te l’ha detto?

    Un ragazzo in autostrada.

    Ho ripreso a fumare da un paio di mesi. Avevo smesso ma tempo fa entrai in un tabacchi e una ragazza colorata di rosso per motivi di marketing mi offrì un pacchetto di sigarette appena uscito sul mercato. Ne fui attratto come un toro in corrida e divenni un cliente affezionato di quella marca, perché io funziono per schemi. Danno ordine alla mia vita e forse nascondono il bisogno sentimentale di mantenere certe consuetudini, come il bere. Amo l’alcool e sui tessuti lassi insistono anche i suoi effetti, che in gergo comune si traducono con la parola pancetta. Non sono un grande intenditore di vini. Ho cercato di capirci qualcosa comprando un volumetto a prezzo scontato in libreria e per un paio di settimane mi sono improvvisato sommelier, mollando presto la presa. Adesso sono tornato al punto di partenza. Dopo un paio di bicchieri, le etichette delle bottiglie iniziano a confondersi tra loro, diventando tutte icone dei miei sbandamenti, siano doc o veleno puro. Infine non mi interesso di politica. È stata una decisione presa una sera in cui vedevo un servizio sui pesci tropicali in via di estinzione in Sud America. Seguii con interesse il dibattito politico sull’argomento e in quella circostanza compresi che, indipendentemente da chi è al governo e dal tipo di problema per cui si dibatte, in tutte le parti del mondo l’opposizione ha sempre la soluzione pronta ma non può fare niente senza il potere.

    Concluse le ispezioni allo specchio giudicando il mio appeal a rischio, sono entrato in bagno inciampando su Whiskey, il nostro gatto greco bianco e nero. Come sempre, era seduto di fronte al water a guardare davanti a sé con le orecchie sugli attenti. Whiskey ha avvertito fin da subito la mia necessità di avere un guardiano del cesso. È la parte della casa più esposta al mondo esterno con un buco che fa da conduttore. E poi, quel giorno mia mamma andava in bagno. Le scappava di continuo la pipì e tirava ogni cinque minuti lo scarico, passando di fronte a camera mia con la testa piegata e un sorriso stanco. Whiskey è un tipo complesso che trovammo nel Peloponneso dieci anni fa. Guidavo e scorsi con la coda dell’occhio un batuffolo di cinque centimetri contorcersi in un campo accanto a una bottiglia vuota di whiskey. Frenai bruscamente, rassicurando Rebecca che non ero arrabbiato ma avevo visto un gattino tra le fronde. Fu bello fare la caccia al tesoro e trovare un concentrato di tenerezza tra i ciuffi d’erba, che presto si sarebbe trasformato in un sacchettino inanimato di pelle e ossa. Imbastimmo un guinzaglio con dello spago e portammo Whiskey con noi per tutto il viaggio, comprando latte fresco che gli davo personalmente con una siringa. In una spiaggia lo salvai per la seconda volta da un branco di cani selvatici. Facevamo il bagno e corsi verso di loro lacerandomi i piedi, riuscendo a farli scappare a sassate.

    Corri Andrea! Stanno arrivando!

    Whikki babbo! Whikki more!

    Via brutti bastardi. Lasciatelo stareee. Viaaa!

    Whikki babbooo! More!

    Corri Andrea!

    Io vi ammazzo brutti cagnacci. Vi ammazzo tutti!

    Durante il ritorno in nave Whiskey saltava lungo il ponte come un canguro, venendosi a prendere a intervalli regolari le mie carezze per poi proseguire il suo tour. Penso volesse comunicarmi la sua riconoscenza, facendomi sentire stimato in famiglia. Portandolo in Italia ho infatti reso contenti mia moglie e mio figlio.

    Anche oggi il gatto mi ha seguito in cucina miagolando con insistenza. Credo sia un riflesso che ripete appena sveglio, quando vengono fuori più facilmente le nostre debolezze. Gli ho sbriciolato un biscotto per terra e ho osservato intorno a me un panorama desolante, fatto di bottiglie aperte e piatti sporchi. Era tutto da mettere a posto. Accanto al cestino dei rifiuti spuntava un pezzo della calamita adesiva della Val Gardena. Dietro la porta un quarto di quella di Piccadilly Circus. Non avrei voluto far cadere i nostri souvenir, ma di fronte ad alcuni atteggiamenti di mia moglie è impossibile non perdere il controllo. Alla cena di ieri sera ho accolto i colleghi di Rebecca con l’indifferenza tipica di chi frequenta persone introdotte dall’altro. Dopo la pasta con le sarde avrei voluto congedarmi dicendo: Signore e signori. Proseguite pure la conversazione. Non ho nessun’altra osservazione intelligente che possa rimanervi impressa. Buonanotte. Invece sono rimasto come un bamboccio ad aspettare il momento in cui si sarebbero tolti dalle scatole. Capire quando andarsene è una questione di intuito, di cui gli ospiti sembravano completamente privi. Mentre Whiskey trangugiava il biscotto riflettevo che, dopo quanto era successo nel pomeriggio, non ne era valsa la pena di sporcare casa per una cena in cui avevo cercato inutilmente di inserire un mio pensiero sull’Europa unita. Stavo accarezzando il gatto e Rebecca con il suo modo compresso di pronunciare le parole mi ha chiesto se avessi messo su il caffè. Lo ha fatto con il tono di chi se l’è legata al dito e il giorno dopo te la vuole far scontare.

    ...’ffè?

    Ancora no tesoro.

    Ah.

    Il ’ffè? di Rebecca sta a significare: Hai smesso con le fisse di controllarti il girovita e rimbalzare da una parte all’altra della casa e hai fatto una buona cosa come mettere il caffè? Questa volta non è stato difficile decodificare il suo messaggio e ho riflettuto sulle nostre differenze. L’uomo che Rebecca ha in testa si alza e va a mettere il caffè. Il caffè di questo ipotetico uomo è uno splendido esempio di caffè ben preparato, ma il problema è che è maledettamente distante da me. Sono maldestro, non so accendere una lavatrice, sturare i lavandini, appendere i quadri e ascoltare le donne. Rebecca sottoscriverebbe quest’ultimo punto, aggiungendo che sono incazzato con il mondo. Comunque, per cercare di portare un argomento a sfavore del suo teorema sulla mia insensibilità ho risposto: Ancora no tesoro, mettendo l’accento sulla parola tesoro. Le donne apprezzano certi particolari e molti rapporti sono sapientemente conservati da questa abilità tipicamente maschile, che tratta i sentimenti con le parole giuste da dire come il sale fa con le acciughe.

    III

    Mia moglie si è alzata proprio quando ho cominciato a preparare la moka. È una piccola impresa composta da operazioni come svitare e avvitare in una fase di profondo rimbambimento qual è il risveglio. Una delle prime cose imparate grazie a Rebecca, che mi insegnò a disporre con cura il macinato. Il segreto sta nel non comprimere troppo la polvere e detto da lei, che comprimeva le parole, mi è sempre sembrato strano; all’epoca su questi doppi sensi finiva che facevamo l’amore. Mi sono messo a ridere al ricordo di quei tempi. Whiskey osservava le mie mani in attesa di un nuovo contentino. Ho tirato fuori dal frigo la confezione del latte per controllare che non fosse scaduto come faceva mio padre, e gliene ho versato un dito nella ciotola. Basta verificare che la data in cui ti svegli sia antecedente al timbro sulla confezione e il calcolo non è molto difficile se hai a disposizione un calendario. Con l’intenzione di proseguire la simulazione del buon padre di famiglia, ho detto a voce alta: Il latte si può bere anche oggi tesoro. Allora Rebecca mi ha raggiunto in cucina con un sorriso anonimo di quelli che si potrebbero fare al giornalaio. Gli occhi mi sono caduti sui cagnolini gialli disegnati sul pigiama, tutti uguali e con la stessa espressione. Potevano pure variare sul tema alla fabbrica di pigiami.

    Eri agitato stanotte...

    Russavi.

    È questo raffreddore che non se ne va. E poi ho mal di pancia.

    Russi con il naso. Mica con la pancia.

    Facevo per dirti che ho avuto mal di pancia.

    Sarà colpa mia adesso?

    Lasciamo perdere. Luca ha il compito di matematica.

    Grazie per avermelo ricordato. Lo inserisco in agenda.

    Mi ha rivolto un altro sorriso di circostanza e si è messa a scaldare il latte stirandosi la schiena. Ho osservato i suoi seni, piccoli e ancora sodi. Ha trentotto anni ed è una bella donna, anche se le sue labbra cadono verso il basso, ricordandomi un fiore raccolto nel bosco che il giorno dopo giace appassito nel vaso accanto al divano. A volte le dico: Non sei più bella come prima... giusto per farle un dispetto, come se nella mia bocca abitasse uno scienziato specializzatosi nel mettere in evidenza i suoi difetti.

    All’inizio non era così. Quando ci siamo conosciuti aveva due cerbiatti al posto degli occhi e sembrava una piccola indiana prestata a una lezione di economia dalla sua tribù, con il nasino all’insù che sfidava la forza di gravità. La incontrai in un’aula della Facoltà di Economia e Commercio, in mezzo a una folla fradicia di studenti a causa di un temporale. Fu una lezione umida, tra capelli gocciolanti e ombrelli sparsi. Ci puntammo per un’intera ora. Lei era in piedi dietro alla cattedra con la schiena appoggiata al muro e io in prima fila, accanto a un flirt di cui mi disinteressai subito. La sua bellezza era un sogno precipitato in uno spicchio di realtà dove il Professore parlava di contabilità, permettendomi di guardarla con una scusa. Finita la lezione, scendendo le scale, la sua mano spuntò da dietro le mie spalle e accese la sigaretta che avevo tra le labbra.

    Grazie!

    Era spenta...

    Posso portarti con me?

    Compra te gli accendini. Ne perdo uno al giorno.

    Aveva la fiamma, oltre che la voglia di vivere con cui mi contagiò, insegnandomi a visitare posti sconosciuti, ad andare al ristorante il sabato sera e a fare sesso. Riti della sua tribù che trasmise a un viso pallido di due anni più grande di lei, che fino a quel momento aveva brancolato nel buio. Adesso, invece, si vede che non è una donna contenta. Ieri durante la cena è scomparsa dalla conversazione dopo il secondo. Gli ospiti sbevucchiavano la mia grappa preferita e lei modellava pensierosa la mollica del pane in tanti piccoli pallini tutti uguali. Sembrava proprio pensare a un altro. Quando i suoi colleghi se ne sono andati, abbiamo accatastato i resti della cena in frigorifero come se giocassimo a battaglia navale.

    La pasta con le sarde bruciacchiata?

    Qui.

    L’insalatina di mare che ti piace tanto?

    Più sotto a destra.

    Il trancio di tonno avanzato che è venuto da schifo?

    ...’ssetto.

    Oh! E parla per bene cazzo! Dove?

    Sopra. A sinistra. Terzo cassetto.

    La macedonia? Anzi il frappè di frutta?

    Nel cestino, insieme alla mollica.

    Colpiti e affondati. A letto ci siamo sdraiati su due materassi singoli, lei con la testa verso il soffitto e io rannicchiato nell’angolo opposto. La pasta con le sarde era venuta salata e il tonno troppo abbrustolito. Se Rebecca avesse pronunciato per bene la parola aglio, non sarebbe accaduto tutto questo. E prima di addormentarmi, è di nuovo comparsa l’idea. Un pensiero tornato nel pomeriggio appena l’ho vista uscire dal bagno mentre stavo facendo un inutile trito di aglio e prezzemolo. Tutte le volte che non ci capiamo compare questo dubbio freddo, a meno che le circostanze non lo riscaldino, come è successo in passato quando alcuni suoi comportamenti mi hanno convinto di essere vittima di un tradimento. Stavo per dirle: Confessa, hai ripreso a scopare con un altro, ma ho messo i cuscini sopra la testa in modo che i miei pensieri si calmassero un po’. Questa è un’altra specialità brevettata da piccolo. Mi serviva per non sentire urlare mio padre.

    IV

    Rebecca ha finito di bere il caffè ed è tornata in camera a prepararsi. Nel frattempo, in cucina ha fatto una veloce apparizione Luca, che ondeggia da una stanza all’altra della casa come uno straniero alla ricerca di un bed and breakfast. È un bel ragazzo di dodici anni. Ha la mia stessa bocca carnosa, armonizzata alla perfezione con gli occhi a mandorla di Rebecca e il suo nasino all’insù. I capelli neri e lisci sono uguali a quelli che avrei voluto per evitare lo stress di pettinarli. Presto sarà pieno di ragazze grazie ai lineamenti accattivanti del suo volto, a cui si somma il valore aggiunto di non possedere i muscoli lassi. Gli ho rivolto la parola cercando di fargli capire chi mette le regole.

    Ciao. Hai mica bisogno di una mappa?

    No.

    Non mi sembri in grado di orientarti da solo.

    Tutto a posto.

    Potresti fermarti?

    Ho da ripetere una cosa.

    Dovevi studiare ieri. Hai il compito di matematica, vero?

    .

    Tutto ok?

    Tutto ok.

    Ti mando un messaggio dopo.

    Bene. Devo andare in bagno.

    Buon viaggio.

    Il rito mattutino non prevede grosse variazioni. Ha mangiato una merendina ed è filato via, nonostante in passato abbia cercato in tutti i modi di convincerlo a fare colazione come Dio comanda. Mio padre con me c’era riuscito. Luca sembra proprio non ascoltarmi di proposito e non ho perso occasione per farlo notare a Rebecca mentre si infilava i jeans.

    Non lo sopporto. Chi si crede di essere?

    Dovresti parlarci di più.

    Certo. Tu sai tutto. Sei la psicologa della famiglia!

    Ti volevo solo dare un suggerimento...

    Il fatto è che voi due siete uguali e io un povero stronzo che porta i soldi a casa.

    Non ti arrabbiare. Stai calmo dai, che oggi ha il compito.

    Povero.

    Frequenta la seconda media. I professori lo ritengono un ragazzo intelligente ma con la testa tra le nuvole. Rebecca sostiene che è distratto dalle nostre tensioni coniugali e dalle sue questioni di preadolescente e vorrebbe gli stessi più vicino. Secondo me è solo un ragazzo viziato.

    La nostra estraneità è nata quando era piccolo e lo portavo al luna park. Lui voleva andare sull’autoscontro e a me piaceva giocare con i fucili ad aria compressa. Assomigliavamo più a una coppia di fratelli che a un padre e a un figlio, e finiva che andavo sull’autoscontro con il broncio. Rebecca mi invogliava a mostrare entusiasmo ai bordi della pista. Ricordo ancora le sue movenze da ragazza pon pon. Daiii, che ce la fate a prendere il palloncino! Un sabato l’avevo quasi agguantato, ma una coppia di bambini urtando la nostra macchina ci allontanò dal centro della pista. Scesi dalla macchina e li trattai malissimo. Luca riuscì a

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