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Quando decisi di non provare più sentimenti
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Quando decisi di non provare più sentimenti

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About this ebook

La morte della madre e una delusione sentimentale inducono Giovanni, un ragazzo come tanti con la passione per la cucina, a prendere una decisione drastica: non provare più sentimenti. Grazie a un implacabile lavoro su se stesso, riesce nell'intento di trasformarsi in un uomo impenetrabile, incentrando la propria esistenza priva di empatia sul continuo appagamento dei sensi. A spezzare la routine di un impiego noioso e di una solitudine inevitabile, la prospettiva della consueta visita a Parigi, città che non ha ancora avuto modo di apprezzare nella stagione estiva. Dopo aver visto una celebre pellicola hollywoodiana, gli balena in mente un'idea curiosa per aggiungere un po' di varietà alla sua vacanza oltralpe: portare con sé una guardia del corpo, seppur fittizia. La scelta ricade su Franco, un barista di mezza età che, a causa di un malinteso, gli ha confessato un particolare della sua natura sconosciuto ai più. Il viaggio nella capitale transalpina mette ben presto alla prova Giovanni e il suo proposito di non risvegliare alcun sentimento, complice la sensibilità di Franco e non solo.
LanguageItaliano
PublisherAUGH Edizioni
Release dateMar 23, 2021
ISBN9788893433051
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    Quando decisi di non provare più sentimenti - Fabio Angelino

    Angelino_piatto_HD.jpg

    © Utterson s.r.l., Viterbo, 2020

    AUGH! Edizioni

    Collana: Frecce

    I edizione digitale: marzo 2021

    ISBN: 978-88-9343-305-1

    Progetto grafico copertina: Luca Verduchi

    Progetto grafico interni: Stefano Frateiacci

    Libro pubblicato in collaborazione con l’agenzia letteraria BieMme

    Questa è un’opera di fantasia. Alcuni nomi, personaggi, istituzioni, luoghi ed episodi sono frutto dell’immaginazione e non sono da considerarsi reali. Qualsiasi somiglianza con fatti, scenari, organizzazioni o persone, viventi o defunte, veri o immaginari è del tutto casuale.

    www.aughedizioni.it

    Prefazione

    Devo essere sincero: è la prima volta che scrivo una prefazione. La cosa non mi risulta nemmeno semplice, a dirla tutta. Appartengo a quella categoria di lettori che evita di guardare gli strilli di copertina e salta le introduzioni ai romanzi come se non ci fosse un domani. A patto, ovviamente, che a scrivere quell’intro sia stato, che ne so, Stephen King. È un mio limite, lo so. Ho sempre pensato che le prefazioni siano una scusa, da parte di molti critici ed esperti di letteratura, di comparire in una pubblicazione dicendo al mondo: Ehi, guardatemi. Esisto anche io!.

    Pertanto, cercherò di essere rapido e indolore. Niente paroloni, nessun eccesso con le citazioni illustri o elenchi di letture sconosciute per dimostrare a voi, comuni mortali, che se mi hanno chiamato a scrivere queste paginette introduttive allora vuol dire che sono per forza uno strafigo. Bene, allora. Eccoci qui. Se siete arrivati a questo punto e non avete seguito la mia abitudine, voltando pagina e iniziando il capitolo uno, vi dirò un paio di cose su Fabio Angelino e Quando decisi di non provare più sentimenti.

    Scrivere non è per tutti. Per poterlo fare si deve essere innanzitutto un lettore vorace, uno di quei tizi a cui i polpastrelli profumano sempre di pagine fresche di stampa. Tabacco sulla pelle, i libri sono sigarette appena rollate e strette tra le labbra. Ciò che si legge deve restare attaccato addosso, deve accompagnare i pensieri mentre si fa altro. Vivere la propria vita e pensare ai personaggi dell’ultimo libro letto, al modo in cui hanno affrontato una determinata situazione, a come ci si sarebbe comportati se ci fossimo trovati al loro posto. A volte, tale empatia, tale attaccamento al libro come bene primario, come forma di sostentamento, spinge il lettore a voler essere qualcosa di più. Non si tratta di ambire ad avere il proprio nome in bella vista su una copertina e nemmeno a seguire una moda. Scrivere non è giocare, ma manifestazione pura di istinto narrativo.

    Fabio Angelino ripercorre il viaggio di un uomo, Giovanni, che ha giurato di non concedere più spazio all’amore nella vita, e lo fa con una prosa agile, lucida, dannatamente intelligente. Leggere in anteprima questo romanzo mi ha fatto pensare a John Updike – N.B. ecco che arriva la citazione – e alle sue parole a proposito dell’evoluzione stilistica della scrittura. La lingua, sostiene Updike, continua a evolversi in strada e nei mezzi di comunicazione parlati, e i libri ben scritti sono l’ultimo posto in cui si cerca ispirazione. Lo scrittore, quindi, segue la lingua parlata e di solito lo fa con timidezza. Questo è proprio il caso di Angelino che raccoglie sull’asfalto, nelle strade di Parigi, sulla via di casa, l’ispirazione per raccontare la crescita di Giovanni. La visione realista di una generazione di persone che fa delle imperfezioni, della rassegnazione alle insoddisfazioni, il proprio biglietto da visita.

    Se questo libro è un trip, allora non farò altro che augurarvi un buon viaggio.

    Antonio Lanzetta

    Parigi.

    Un’altra città come Parigi non esiste. Così malinconica quando accarezzata dal suono dolce di una fisarmonica la sera, così vigorosa quando ti soffermi a osservarla dall’alto della Torre Eiffel, così poetica quando passeggi a Montmartre, con lo sguardo che insegue le mani di quei pittori che hanno deciso di donare la propria vita all’arte, in quel luogo che è stato il rifugio di artisti immortali come Picasso e Modigliani.

    Come si fa a non innamorarsi di un posto così? In grado di farti sentire magicamente solo, anche se in mezzo alla folla, quando ti perdi nel guardare quelle meraviglie che l’uomo è riuscito a creare e in quell’atmosfera onirica, irriproducibile e impossibile da scalfire.

    Non puoi non lasciarti trasportare dal leggero galleggiare dei battelli che attraversano la Senna, che sembrano avere una vita propria e che abbiano deciso anche loro di passare la propria vita lì, in quella città.

    Meravigliosa quando la neve cade leggera sopra tetti radenti, mentre tu sei dietro a una finestra, con in mano un caffè fumante e nell’altra un pain au chocolat ancora caldo.

    Stupenda anche d’estate, baciata dal sole, quando l’erba verde smeraldo dei prati dei suoi parchi sembra ringiovanirla senza farle perdere fascino.

    Parigi è una bella donna che non invecchierà mai, un fiore che non può appassire, una dea dal sorriso malinconico che ti accoglie sempre con gioia, un’amica dalla quale rifugiarsi nei momenti difficili.

    Frenesia, tranquillità, poesia, volgarità, amore. Tutto in una sola, magica, immensa, piccola porzione di mondo.

    In una parola: Parigi.

    1.

    Mi presento: mi chiamo Giovanni e ho abbastanza anni da non sentirmi in colpa quando dimentico i nomi dei figli di qualche amico o se ho salato o no l’acqua della pasta.

    Mi hanno chiamato Giovanni perché mia mamma, fervente femminista, era idealmente innamorata di Giovanna d’Arco, anche se mio padre era convinto che mi avessero chiamato così in onore di Giovanni testa pelata Pasini, un cugino ubriacone di mia madre che tutti credevano morto ma che in realtà, si scoprì tanti anni dopo, era andato a vivere al Sud insieme a una donna conosciuta in una casa di cura.

    Ad ogni modo, non mi dilungherei in sciocchezze simili.

    Oggi vorrei raccontare una storia.

    Assurda, per certi versi incomprensibile ma comunque vera: la mia.

    Una storia molto triste, perché penso che sia proprio nella tristezza che l’uomo può trovare il coraggio per vivere e la forza per rincorrere la felicità. O perlomeno, per me è stato così.

    Partirei da due nomi.

    Il primo: Beatrice, mia madre. Fu lei la prima grave perdita della mia vita: quando morì ero giovane, avevo all’incirca quindici anni e non avevo mai conosciuto la reale tristezza, quella che ti sconvolge la vita, che ti strappa via la voglia di sorridere e non te la restituisce per settimane.

    Se la portò via un brutto male in pochi mesi.

    Ricordo la sua pelle schiarirsi ogni giorno di più, il suo corpo diventare sempre più esile e i suoi occhi più scavati.

    Ricordo la sua voce incupirsi, farsi più flebile, e le sue ultime parole:

    «Giovanni, prenditi cura di tuo padre, non sa nemmeno stirarsi i pantaloni».

    Risi molto, lo ammetto. Mia madre fu in grado di farmi ridere anche in punto di morte, non ho mai capito se volutamente o per poca lucidità. So solo che dopo aver riso per la battuta la strinsi forte e lei si addormentò e piansi con il volto appoggiato al suo petto per sentire i suoi ormai deboli battiti del cuore, con la stupida speranza che non cessassero mai, che quella lenta cadenza si perpetuasse a dispetto di quello che avevano detto i medici.

    Egoisticamente speravo che mia madre rimanesse in vita anche in quelle condizioni, non ero pronto a dirle addio e avrei accettato qualsiasi compromesso.

    Un giorno ne parlai con il medico.

    «Non possiamo tenerla in vita? A me va bene anche così» dissi, grondante di lacrime, «almeno ogni tanto posso venire qui e abbracciarla».

    Quando tornai a casa mi sentii stupido ad aver pensato una cosa del genere, ma con gli occhi di adesso comprendo che quella era solamente paura e quando si ha paura, purtroppo, si finisce sempre con il fare o pensare cose stupide.

    Da quel giorno, comunque, essendo un ragazzo diligente, diventai molto responsabile e passai intere serate a ispezionare il web in cerca dei migliori tutorial che mi insegnassero a stirare i pantaloni e le numerose camicie che mio padre usava per andare a lavoro.

    Inutile dire che diventai un maestro nell’arte dello stiro, ci presi quasi gusto.

    Ma quello non fu l’unico campo in cui affinai le mie capacità. Diventai perfino un ottimo cuoco.

    Avevo talento tra i fornelli e non lo dico per stupida millanteria, ero realmente bravo e imparavo in fretta anche le ricette più complicate, ed è proprio da qui che mi collego al secondo nome: Sara.

    Quando scoprii la mia passione per la cucina avevo ormai finito il terzo anno di liceo scientifico e secondo mio padre sarebbe stato poco intelligente lasciare quel percorso di studi per tuffarmi da tutt’altra parte, così giunsi a un compromesso: avrei frequentato un corso serale per aspiranti cuochi all’Università popolare che, tra l’altro, era anche abbordabile per le nostre finanze.

    Fu proprio a questo corso che conobbi Sara.

    Due occhi neri, vispi e maliziosi in un viso paffuto e pallido; non rispettava i canoni di bellezza e aveva un fisico poco aggraziato, ma il suo sorriso e la dolcezza con la quale si rivolgeva al prossimo erano in grado di migliorarti anche la giornata peggiore, dava l’impressione di non voler altro che parlare con te e ascoltarti.

    Ero più piccolo di Sara di un anno e, nonostante la mia poca esperienza, ero più bravo di lei, ma questo non sembrava turbarla o causarle invidia.

    Mi ascoltava, mi guardava rispettosamente e seguiva i miei insegnamenti con maniacale attenzione.

    Dopo qualche settimana le chiesi di uscire.

    Fu molto imbarazzante e io molto goffo ma lei accettò subito e con sincero entusiasmo. Le piacevo e a sedici anni, due mesi e dodici giorni, iniziai quella che era a tutti gli effetti la mia prima storia.

    La sera che accettò di uscire con me passai due ore in bagno a masturbarmi pensando a lei. Fu molto imbarazzante quando mio padre entrò di soppiatto e mi trovò immerso nella vasca da bagno con il pene in mano e gli occhi strizzati.

    «Sara…» stavo sussurrando mentre la porta si aprì.

    Fu l’ultima volta che mio padre entrò in bagno senza permesso, anzi da lì in poi iniziò a bussare su qualunque porta ci dividesse.

    Toc-toc. Posso entrare?

    Sì, papà. Sto leggendo un libro.

    Toc-toc. Posso entrare?

    Sì, papà mi sto lavando i denti.

    Toc-toc. Posso entrare?

    Sì, papà. Sono in cucina, non devi bussare anche quando sono in cucina!

    Ad ogni modo, con Sara partì alla grande, fui immediatamente coinvolto e travolto dalla nostra relazione. Mi ero innamorato di lei senza conoscere bene l’amore e questo a volte è un grosso rischio perché, come diceva sempre mia mamma – ah, chissenefrega di quello che diceva mia mamma, non sono nemmeno sicuro che fosse lei a dirmi quello che stavo per scrivere.

    Comunque non starò qui a raccontare minuziosamente quello che accadde dopo, perché è dalla fine della nostra relazione che la mia storia ha senso di essere raccontata, più precisamente da quel giorno in cui in macchina, sotto una pioggia torrenziale che non ci faceva vedere fuori dal finestrino, decise di lasciarmi.

    «È finita» mi disse, «non sono più innamorata di te».

    Pochi giri di parole, diretta, concisa, perforante.

    Maledettamente stronza.

    Litigammo, piansi come un bambino, le diedi della troia e poi le porsi le mie scuse. Lei le accettò senza battere ciglio e questo mi fece infuriare di nuovo e così le diedi ancora della troia, della brutta troia, e lei trovò perfino la lucidità per rispondermi con ironia.

    «Brutta troia?» mi disse. «Io non sono per niente brutta».

    Non le dissi più niente, rimasi impassibile alla sua battuta e al suo sorriso, avevo come l’impressione che lei in realtà non mi avesse mai amato, ma questo è il solito stupido pensiero che assilla quando la persona che ti scarica sembra non soffrirne affatto.

    La lasciai davanti al portone d’ingresso del palazzo in cui abitava e provò a baciarmi sulle labbra, la evitai e tornai in casa. Mi fiondai in camera sbattendo la porta e mio padre, preoccupato, venne a bussare.

    «Posso entrare?» chiese.

    «No, papà. Mi sto facendo una sega!».

    Se ne andò via corrucciato e io scoppiai a piangere fino a non aver più lacrime.

    Mi alzai e andai verso lo specchio, avevo il volto arrossato e mi sentivo prosciugato di tutti i sentimenti.

    «Basta» dissi, e con il cuore spezzato promisi a me stesso che non avrei provato mai più alcun sentimento. Sì, nessun sentimento.

    «Nessuno mi farà soffrire» dissi ad alta voce.

    Nessuno!

    2.

    Qualcuno potrà chiedersi se sia possibile non provare più alcun sentimento. Sembra assurdo, anche con il massimo impegno prima o poi una persona che ci smuova, una canzone che ci rattristi o ci rallegri la troviamo, eppure per me fu proprio così: quelle per Sara furono le mie ultime lacrime versate.

    Cancellai le nostre foto, alcune le bruciai. Non risparmiai quelle di mia madre, che feci sparire dalla mia stanza e dal resto della casa, a eccezione della camera di mio padre.

    «Cosa stai facendo?» mi chiese un giorno e io non gli risposi, lo guardai risoluto e me ne tornai in camera mia, senza la minima reazione.

    Mi ero spento, avevo disintegrato tutto ciò che avrebbe potuto farmi soffrire e per far sì che questo accadesse mi ero ritrovato costretto a cancellare anche i ricordi felici e le sensazioni positive.

    Ero un robot, un automa dall’aspetto umano. Persi tutti gli amici! Stefano, Davide, Jacopo, o i ragazzi che avevano frequentato il corso di cucina con me. Li cancellai dalla mia vita e dalla rubrica del mio telefono senza dare alcuna spiegazione. I loro messaggi non ricevettero risposta, così come le telefonate e i saluti.

    «Giovanni, hai bisogno di aiuto» mi disse un giorno Jacopo, nei corridoi della scuola. «Tu non stai bene».

    Non gli risposi nemmeno, lo superai e sparii dietro l’angolo e da allora non mi rivolse più la parola.

    Rimasi impassibile anche di fronte alla morte di mio padre, una decina di anni dopo.

    Ero lì, di fianco al suo letto, i parenti più stretti a stringermi forte e a baciarmi sulle guance che, anche se in ritardo, avevano conosciuto un po’ di barba.

    «Devi essere forte» mi ripeteva zia Carmela, con il volto rigato dalle lacrime, «noi ti saremo vicini e ti daremo una mano».

    Forte? Io ero più che forte, ero asettico, gelato, sentimentalmente lobotomizzato. Non versai una lacrima, non provai il minimo sconforto di fronte al volto asciutto e pallido di mio padre, al suo ultimo sospiro e soprattutto alle sue ultime parole.

    Le ricordo alla perfezione, riverberano ancora nell’aria.

    Eravamo soli, io seduto su una sedia di metallo gelida e scomoda, mi prese la mano e mi disse:

    «Ti voglio bene».

    «Anche io» risposi placido, senza palesare alcuna emozione e mio padre si accorse del mio totale distacco.

    Si era reso conto che dalla fine della mia storia d’amore qualcosa era cambiato. Non ascoltavo musica, non guardavo più film, non leggevo più libri. Passavo ore a cucinare, a studiare svogliatamente e poi, dai vent’anni, a lavorare. Senza sorridere, piangere o lamentarmi di qualcosa. Ero un coinquilino silenzioso che non cambiava mai il suo piatto tono di voce.

    Però sperava che, almeno di fronte alla sua imminente morte, tornassi a provare qualcosa, che il mio viso si storcesse un minimo, che i miei occhi si velassero di un leggero strato di lacrime.

    Niente, non provai nulla e nemmeno riuscii a

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