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Cuori partigiani: La storia dei calciatori professionisti nella Resistenza italiana
Cuori partigiani: La storia dei calciatori professionisti nella Resistenza italiana
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Cuori partigiani: La storia dei calciatori professionisti nella Resistenza italiana

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Cosa hanno in comune Giacomino Losi da Soncino, detto “core de Roma”, secondo solo a Totti e a De Rossi per presenze con la maglia giallorossa, e Raf Vallone, definito “l’unico volto marxista del cinema italiano” per la sua carriera cinematografica eppure anche capace, da calciatore, di alzare la Coppa Italia vinta dal Torino nel 1936?
Cosa rende simili l’attaccante Carlo Castellani, bandiera dell’Empoli, e il mediano Bruno Neri di Faenza, nel giro della nazionale dopo aver militato nella Fiorentina e nel Torino?
Tutti questi atleti, non c’è dubbio, presero a calci un pallone nemmeno lontanamente paragonabile alla sfera non più di cuoio con cui al giorno d’oggi si gioca negli stadi di tutto il mondo.
Ma oltre a questo, tutti loro, mentre sull’Italia fischiava il vento e infuriava la bufera dell’occupazione nazifascista, compirono la stessa scelta fatta allora da migliaia di ragazzi nel paese: lasciarsi tutto alle spalle per imbracciare il fucile e combattere contro tedeschi e fascisti.
Inizia in questo modo la storia mai raccontata dei Campioni della Resistenza: calciatori-partigiani come Armando Frigo, capace di segnare una doppietta con un braccio mezzo ingessato in un memorabile Vicenza-Verona 2 a 0 e poi fucilato dai tedeschi dopo aver eroicamente difeso il passaggio montano di Crkvice, in Jugoslavia; o come la bandiera lariana Michele Moretti, comunista e membro del gruppo partigiano che il 28 aprile del 1945 giustiziò Benito Mussolini in nome del popolo italiano.
LanguageItaliano
Release dateMar 22, 2021
ISBN9788867182862
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    Cuori partigiani - Edoardo Molinelli

    cammino.

    PRIMO TEMPO - PARTIGIANI

    L'uomo oltre la foto. Bruno Neri, simbolo dello sport antifascista

    In Italia l’accostamento di due argomenti all’apparenza agli antipodi come calcio e Resistenza conduce quasi invariabilmente a un nome: Bruno Neri. Un nome che ormai non rappresenta più una persona realmente vissuta, la cui esistenza è perfettamente documentata, ma è divenuto il simbolo stesso di ogni calciatore, per non dire ogni sportivo, che dopo l’8 settembre scelse la via della lotta e partecipò attivamente alla guerra di Liberazione. Ciò si deve di certo al libro di Massimo Novelli Bruno Neri, il calciatore partigiano, che ha avuto l’indubbio merito di restituire alla memoria collettiva nazionale una storia rimasta confinata per anni a Faenza e dintorni. Più del libro di Novelli, però, ha potuto una foto del 1931, oggi notissima, potente e metaforica come tutte le rare immagini capaci di raccontare un’intera epoca. Era il 10 settembre: lo stadio della Fiorentina dedicato a Giovanni Berta, un fascista ucciso da militanti comunisti, stava per essere ultimato (e quella forma di D, D come Dux, sarebbe rimasta fino a oggi, al contrario del nome) e i viola si preparavano alla partita inaugurale contro l’Admira Vienna prevista tre giorni più tardi. Per non lasciare niente al caso, quel giorno era stato deciso di disputare un’amichevole col Montevarchi, una sorta di prova generale in vista del debutto ufficiale del nuovo impianto. La partita, conclusasi 6-0 per i gigliati, sarebbe nel dimenticatoio da decenni se non fosse per la foto che fu scattata prima del calcio d’inizio. Un’immagine che ha fatto entrare Neri nel mito, e che lo rappresenta a testa alta e braccia distese lungo i fianchi mentre tutti i compagni attorno a lui fanno il saluto romano. Un atto di ribellione al regime che, combinato con la sua militanza nelle file partigiane post armistizio, lo ha reso il santino perfetto dell’atleta resistente. Ma la storia ci insegna che i santini, tutti i santini, hanno poco senso di esistere. Mitizzare un essere umano non ha mai giovato né alla sua memoria, né alla causa da lui difesa in vita. E il legame di quella foto del 1931 con la partecipazione alla Resistenza e con il sacrificio ultimo di Neri è molto meno evidente di quanto si creda. Per rendersene conto è sufficiente ripercorrere la sua biografia: ciò che emerge è una storia complessa e ricca di sfaccettature, molto diversa dalla stereotipizzazione che negli ultimi anni è stata fatta della sua figura. La realtà è sempre più complessa della leggenda, meno epica forse, di certo non meno intrigante.

    Bruno Neri nacque a Faenza il 12 ottobre 1910 e iniziò a giocare a calcio seguendo l’esempio del fratello maggiore, Gaetano. A 16 anni esordì nella prima squadra del Club Atletico Faenza, allora in Seconda Divisione (la terza serie del sistema calcistico dell’epoca), e sotto la guida dell’allenatore ungherese Béla Balassa, che aveva notato la sua capacità di gestire ottimamente il pallone, passò dal ruolo di terzino destro a quello di mediano. Con i biancazzurri guadagnò la promozione in Prima Divisione nel 1928 e giocò un buon campionato l’anno seguente, attirando su di sé l’attenzione dei giornali («La squadra di Faenza, giunta solo quest’anno alla Prima Divisione, è degna di stare a fianco dei maggiori squadroni della categoria. La difesa, pur senza eccellere, è ottima e di rendimento continuo. Lo stesso dicasi della linea di sostegno che ha al centro Neri II, un giocatore che ha dato del filo da torcere a più di un attaccante trevigiano» – Il Littoriale, 1 ottobre 1928) nonché di squadre più importanti. Fu la Fiorentina del marchese Ridolfi, ambiziosa squadra di B, ad acquistarlo nel 1929 per la somma di 10.000 lire, un investimento di notevole entità per un diciannovenne. A Firenze si guadagnò ben presto un posto da titolare a centrocampo, formando con Staccione, Galluzzi e Pizziolo un reparto di grandissima qualità per il torneo cadetto. Dopo un buon quarto posto nel 1929/30, i viola (che avevano assunto quel colore proprio nel settembre del 1929) vinsero il campionato 1930/31 a pari punti con il Bari e furono promossi in A. Neri aveva ormai sviluppato tutte le caratteristiche che lo avrebbero distinto nel corso della sua carriera, rendendolo uno dei migliori mediani italiani degli anni Trenta:

    alto 1,70 per 71 kg di peso, era costituzionalmente molto robusto […] e possedeva una notevole solidità del tronco, per cui era molto forte nei contrasti. Rapido e agile nella corsa e nel trattamento e smistamento del pallone, possedeva doti di grande elevazione. […] Nato calcisticamente con l’uso del solo piede destro, imparò a servirsi del sinistro in modo perfetto, tanto che preferiva schierarsi nella zona sinistra del campo. Tecnicamente era completo, palleggiatore raffinato con tocco soffice ma deciso, e in ogni movimento era naturalmente coordinato. […] Era un giocatore di classe autentica. […] In campo sapeva farsi rispettare, ma era sempre leale e generoso [ Bruno Neri atleta e partigiano, pp. 47-48].

    Nell’estate del 1931 il marchese Ridolfi rinforzò la squadra in vista della nuova avventura in serie A, portando a Firenze, tra gli altri, anche i mediani Pitto (allora membro della nazionale) e Bigogno. Nonostante la concorrenza nel ruolo e il fisiologico periodo di adattamento alla massima serie, Bruno giocò 23 partite e segnò un gol, l’unico in carriera con la Fiorentina, dando un contributo importante al quarto posto finale dei gigliati, vera e propria sorpresa della stagione; l’azzurro Pitto, che avrebbe dovuto essere un punto fermo dell’undici del tecnico Hermann Felsner, si fermò a 18 presenze, tanto da far domandare ai giornalisti chi fosse realmente la riserva tra lui e Neri. Dopo un’altra stagione di dualismo con Pitto (25 presenze a 18 per quest’ultimo, anche a causa di alcuni infortuni occorsi a Bruno, con la squadra che chiuse quinta in classifica), nel campionato 1933/34 il faentino divenne titolare inamovibile dopo la cessione del suo maggior concorrente e disputò ben 32 incontri, secondo giocatore più impiegato alle spalle del terzino sinistro Lorenzo Gazzari. I viola chiusero sesti, confermandosi squadra solida e ormai stabilmente capace di lottare per le posizioni nobili della classifica, seppure ancora privi della continuità necessaria per impensierire davvero le corazzate della serie A. L’anno successivo, tuttavia, un inizio clamoroso fece balzare la Fiorentina in testa alla classifica: la prima sconfitta arrivò alla tredicesima giornata (Bologna-Fiorentina 2-1) ma non le impedì di laurearsi campione d’inverno, anche se nel girone di ritorno non riuscì a mantenere il ritmo indiavolato della prima parte di stagione e finì terza, a cinque punti di distanza dalla Juventus pentacampione. Neri scese in campo 29 volte in campionato e fece parte della prima, storica avventura dei gigliati in una competizione europea, la Coppa dell’Europa Centrale, nella quale eliminarono l’Újpest agli ottavi di finale prima di cadere sonoramente contro lo Sparta Praga; la linea mediana Pizziolo-Bigogno-Neri era ormai considerata una delle migliori della serie A, e Bruno «venne segnalato sempre fra i migliori in campo e fu giudicato dalla stampa sportiva il miglior mediano d’Italia, assieme a Corsi e al vecchio Bertolini. Aveva raggiunto la perfezione tecnica» [ivi, p. 31]. Nel 1935/36 la Fiorentina non riuscì a ripetere l’exploit dell’anno precedente, disputando un anonimo torneo di centro classifica e ravvivandosi solo in Coppa Italia, dove venne eliminata in semifinale dai futuri campioni del Torino. Fu questo l’ultimo anno in maglia viola per Bruno, che si trasferì alla Lucchese dopo sette anni e 187 partite di campionato. Nell’ottobre del 1936 ebbe l’enorme soddisfazione di essere convocato per la prima volta in nazionale maggiore, dopo aver disputato sei incontri tra Italia B, Rappresentativa federale e Rappresentativa goliardica, la nazionale universitaria (era infatti iscritto all’Università L’Orientale di Napoli), facendo peraltro parte della squadra che aveva trionfato ai Giochi Universitari del settembre 1933 a Torino. La Gazzetta dello Sport scrisse che «il prestante giocatore, passato come è noto nei ranghi della Lucchese, in virtù della sua elevata classe ha meritato di arrivare alla meta a cui aspirava. Giocatore serio, coscienzioso, tenace» [ivi, p. 33]. Esordì dunque in azzurro il 25 ottobre del 1936 in Italia-Svizzera 4-2, partita valevole per la Coppa Internazionale del biennio 1936/38, mostrando la regia efficace e il gioco estremamente energico che erano il suo marchio di fabbrica. La prima presenza con l’Italia fu un ottimo viatico per la stagione a Lucca: sotto la guida di Ernő Erbstein i rossoneri, all’esordio assoluto in A, stupirono tutti e ottennero un incredibile settimo posto a pari punti con l’Inter, salvandosi con largo anticipo e anzi mettendosi alle spalle squadre di ben altro prestigio come Roma, Napoli e Fiorentina. L’ottimo rendimento di Neri fu confermato dalla seconda presenza in nazionale (Italia-Cecoslovacchia 2-0 del 13 dicembre 1936) e dall’interessamento estivo del Torino, tornato ad alti livelli dopo alcune stagioni difficili, che lo ingaggiò anche per le sue doti morali: in granata Neri (specie dopo l’arrivo di Erbstein, nel 1938) fu non solo ottimo giocatore, ma anche guida riconosciuta dei giovani talenti che stavano crescendo all’ombra della Mole. Nel 1937/38 il Toro chiuse ottavo in campionato, ma raggiunse la finale di Coppa Italia, persa nella doppia sfida con la Juventus; Neri fu in campo al ritorno, mise insieme 32 partite totali e si guadagnò la sua terza e ultima presenza con l’Italia (Svizzera-Italia 2-2 del 31 ottobre 1937; il 13 giugno aveva invece giocato per l’ultima volta con la nazionale goliardica contro l’Ungheria). La stagione seguente, di segno completamente opposto, se il Torino fu eliminato dal Venezia agli ottavi di Coppa Italia, in campionato fu in grado a lungo di lottare alla pari col Bologna, anche se alla fine furono i felsinei a spuntarla: il secondo posto fu il miglior piazzamento in serie A ottenuto in carriera da Bruno, il più presente dei granata con 30 incontri disputati. Non era ancora il tempo del Grande Torino, che pure il neo-presidente iniziò a costruire quell’estate a partire dall’acquisto di Franco Ossola; quella 1939/40 fu una stagione di transizione e la squadra chiuse al sesto posto. Il mediano faentino scese in campo solo nove volte, anche a causa di un infortunio: aveva 30 anni e il suo stile di gioco, tanto generoso da rasentare lo sfinimento, gli presentò il conto di una carriera lunga e impegnativa. Dopo più di 350 partite ufficiali, Bruno Neri si ritirò. Allenò per sei mesi il Faenza nella Prima Divisione 1940/41 e tornò a giocare brevemente coi biancazzurri nel Campionato Alta Italia del 1943/44, ma il calcio era ormai diventato secondario: a quel tempo la sua attività partigiana si stava facendo sempre più preponderante e presto lo avrebbe condotto sui monti dell’Appennino, in clandestinità.

    Da dove venne la decisione di aderire alla Resistenza? La foto del mancato saluto di Bruno sembrerebbe raccontare di un uomo che, nel marzo del 1931 (e dunque a 21 anni ancora da compiere), era già compiutamente antifascista, ma le testimonianze di chi lo conobbe tratteggiano un ritratto differente. Secondo Massimo Novelli, Neri in pubblico si comportava in modo ortodosso, anche se riservato: «Non l’ho mai sentito parlare di politica […] ricorda Rossetti» [Novelli, 2002, p. 28]. A Firenze aveva avuto un ottimo rapporto col marchese Ridolfi, fascista della prima ora, e secondo il centrocampista Mario Bo a Torino aveva frequentato feste organizzate da esponenti del regime. Non risulta però alcuna vicinanza o simpatia di Bruno per il fascismo al di là di questi rapporti di facciata, anzi: «La parola libertà intesa nel suo più aperto e vasto significato fu udita dalla viva voce di Bruno in molte circostanze, ma la data del passaggio all’idea di una fattiva partecipazione ad un’azione di contrasto e di lotta contro il governo fascista non è precisamente conosciuta» [ivi, p. 63]. Dopo il ritiro aveva acquistato un’officina a Milano attraverso la mediazione del cugino Virgilio Neri, notaio ed esponente antifascista di ispirazione azionista. In questo periodo, facendo la spola tra Faenza e Milano, era entrato stabilmente in contatto con il mondo degli oppositori del regime frequentati da Virgilio, ma è praticamente impossibile stabilire se fu allora che maturò una solida coscienza antifascista o se la consapevolezza di essere un oppositore del regime fosse presente in lui già in gioventù. Cosa mostra, dunque, la sua celebre foto? Un atto consapevole poi ribadito dalla scelta successiva di Bruno o un episodio isolato frutto di un estemporaneo momento ribelle, dettato dall’età e dal carattere non ufficiale dell’incontro? Non ci sono certezze in merito. Quel che è sicuro, invece, è che morì per i propri ideali sui monti, da partigiano. Ed è per questa sua testimonianza viva, reale e concreta, più che per un’immagine in bianco e nero (per quanto meravigliosa), che andrebbe ricordato.

    Dopo l’8 settembre Neri, di stanza in Sicilia come soldato semplice, rientrò a Faenza e qui ritrovò Virgilio, che aveva lasciato Milano ed era membro del Comitato Romagnolo di Resistenza. Bruno entrò a farne parte e, nei mesi successivi, agì prevalentemente nell’ombra, aiutando il cugino a mettere in piedi un’organizzazione che potesse dare supporto logistico alle bande partigiane che si andavano formando nella zona. «È nota la sua presenza il 7/2/1944 in una riunione presso la cantina Melandri di via Laghi con la presenza di Corbari ed altri rappresentanti delle forze antifasciste, ed un secondo incontro con gli stessi tenuto addirittura in casa sua in viale Beccarini» [ Bruno Neri atleta e partigiano, p. 54].

    La svolta avvenne nel marzo del 1944, quando il gruppo di Neri entrò in contatto con alcuni agenti dell’Ori (Organizzazione Resistenza Italiana), nata nel novembre precedente dalla collaborazione di alcuni antifascisti napoletani, con a capo il genero di Benedetto Croce, Raimondo Craveri, e l’Oss (Office of Strategic Services), il servizio segreto statunitense. Il modus operandi dell’Ori prevedeva di infiltrare dietro le linee nemiche piccoli gruppi di tre o quattro uomini, dotati di radio ricetrasmittenti per restare in contatto con le basi operative dell’Oss; una volta trovatisi in zona operativa, gli uomini dovevano occuparsi di azioni di sabotaggio e della raccolta di informazioni utili al comando alleato, nonché del coordinamento delle formazioni partigiane che si fossero rese disponibili a collaborare. La prima missione dell’Ori era partita ufficialmente il 17 febbraio 1944, con l’obiettivo di infiltrare via sommergibile tre squadre al di là del fronte: la prima (nome in codice Lemon/Bianchi) avrebbe dovuto operare nella zona di Venezia, mentre le altre due (Raisin/Zella e Banana/Elvira) avrebbero dovuto prendere terra poco sopra Ravenna, in modo da infiltrarsi in Emilia Romagna (Raisin nella zona di Faenza e Forlì, Banana lungo la costa tra Ravenna e Rimini) e capire la reale consistenza delle difese naziste sulla Linea Gotica.

    Fin dall’inizio le cose non erano andate come previsto. Le cattive condizioni del mare avevano costretto il comandante del Platino a lasciare Lemon vicino a Parenzo, in Istria, invece che presso la foce del Brenta; qualche tempo dopo, mentre gli uomini del comandante Domenico Montevecchi cercavano di raggiungere Venezia furono catturati, imprigionati e torturati. Gianni De Bartoli si suicidò, mentre Montevecchi e l’operatore radio Vilores Apollonio furono fucilati il 12 settembre del 1944 a Bolzano insieme ad altri 21 soldati e agenti italiani, in quello che è noto come eccidio della caserma Mignone.

    Le squadre Raisin (formata da Antonio Farneti Roberti, Celso Minardi Benazzi e Andrea Grimaldi Zanco) e Banana (Matteo Savelli Arcangeli, Giorgio Roncucci e Luigi Cima) avrebbero dovuto prendere terra nei pressi di Porto Garibaldi, ma per un errore erano state sbarcate 15 chilometri a nord, vicino alle foci del Po di Goro. Inoltre la Raisin era finita su un banco di sabbia e, credendo di essere già sulla costa, aveva distrutto il proprio sommergibile; fortunatamente era stata soccorsa dall’altra squadra e i

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