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David la Stella del Destino: Equilibrio
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David la Stella del Destino: Equilibrio
Ebook352 pages3 hours

David la Stella del Destino: Equilibrio

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FictionThriller Storico (paranormale)
LanguageItaliano
PublisherYoucanprint
Release dateFeb 24, 2021
ISBN9791220316385
David la Stella del Destino: Equilibrio

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    David la Stella del Destino - Manuele Bonafede

    Destino.

    I

    Nel 1944, l’invasione angloamericana diresse i propri eserciti alla volta di Roma.

    Il comando delle Schutzstaffel, collocato in Via Tasso, ricevette da Berlino un dispaccio firmato personalmente da *Adolf Hitler.

    L’ordine era di scovare prigionieri politici, nascosti dalle potenti casate ebraiche e di deportare quest’ultime.

    L’ideologia antisemita nazista che, come un cancro si infondeva negli animi di molti soldati, mise nelle mire del Reichsführer SS, Katter Eichmann, l’ebreo David Verano, facoltoso commerciante di marmi in Italia, che risiedeva con la sua famiglia nella provincia romana.

    Italia, Castelli Romani primavera 1944

    L’acqua cadeva dal cielo a secchiate, sembrò che Dio cercasse invano di arrestare la corsa della vettura.

    La morte viaggiò a velocità sostenuta quella sera, sfrecciò sulla strada ricoperta di fango verso un destino universale.

    Alla fine del percorso un cancello di ferro battuto costrinse l’auto a fermare la corsa, i fari del mezzo accecarono il cane che, dall’altro lato, abbaiò verso la luce artificiale, la portiera del lato destro si aprì, un soldato tedesco coperto da una mantella per la pioggia verde bosco uscì dall’auto.

    Tuoni e lampi s’intrecciarono nel cielo senza sosta.

    Il militare da sotto il tabarro sfilò un mitra, lo rivolse contro il cancello chiuso da una grossa catena, dall’arma partirono delle raffiche: i boati della canna tonante si mescolarono con il fragore di un tuono, il lucchetto saltò, con un calcio ben assestato spalancò l’accesso.

    L’auto con il suo carico di odio si lasciò alle spalle il cane, che sdraiato tra il fango e l’acqua pluviale ansimò gli ultimi respiri.

    All’interno della casa Liebert Wagner, con l’aria di un perfetto intellettuale, seduto su di una poltrona, contemplava le fiamme del camino.

    Elena Verano aveva lunghi capelli rossi lucenti, la sua carnagione chiara tempestata di nei le conferiva un aspetto inglese, vestita di bianca seta e merletti, sussurrava una filastrocca per bambini mentre cullava tra le braccia un neonato.

    Io son contadinella e vengo dalla campagna bella, se fossi una Reginella sarei incoronata, ma sono contadina e ai campi lavorar. E cinquecento cavalieri con la testa insanguinata, con la spada rovinata indovina che cos’è? E sono, sono le ciliegie che maturano in giardin!

    Wagner, davanti al camino, disse: «Questa pioggia non smette di scendere! A volte penso che il padre eterno si sia alleato con i tedeschi!».

    Elena sorrise, rispose cortese: «Su con la vita Liebert, anche lei è un rispettabile aristocratico prussiano!».

    Wagner inarcò il sopracciglio, fece una leggera flessione con il collo in segno di concilio, con tono malinconico confermò: «Sono tedesco, signora! La parola rispettabile in Germania non si usa da tempo! Quel tipo di persone si trovano nei campi di concentramento o nascosti da persone audaci come lei e suo marito!».

    Alzò gli occhi al cielo e aggiunse: «Dio vi benedica!».

    Elena commossa rispose: «Noi ci battiamo per la medesima causa!».

    Wagner appoggiò i suoi occhiali da vista su un tavolino, accanto a una fruttiera.

    «Ha ragione signora, non posso che essere pieno d’ammirazione per il vostro coraggio!».

    Wagner si alzò in piedi, si sorresse al bordo del camino e proseguì: «Sono orgoglioso di essere tedesco, i nazisti non sono tedeschi. L’unica legge che rispettano è quella della prevaricazione del loro stesso popolo, è il folle delirio della razza ariana!».

    Un assordante tuono soverchiò il vuoto della sala e svegliò di colpo il neonato tra le braccia della donna.

    Dalla cappa del camino scese una folata di vento, soffiò la fiamma, tizzoni arroventati caddero sul tappeto.

    Wagner scattò verso il bordo della stuoia, cercò di spegnere i legni ardenti.

    Elena lo guardò con occhi verdi lucenti, come due smeraldi le illuminarono il sorriso: «Perbacco, qui andiamo a fuoco!», sussurrò allegra.

    Wagner intento a ricacciare le braci nel focolaio ed Elena ad azzittire il neonato che dolcemente cullava, vennero destati dal rumore di passi svelti, provenienti dal secondo piano, il rumore svanì, nel tonfo sordo di una porta sbattuta.

    Al secondo piano della casa, il marito di Elena leggeva un racconto alla figlia Sara di dieci anni, la graziosa bambina con i capelli rossi, piena di efelidi, ascoltava assorta il narratore, con il faccino nascosto dalle coperte.

    David Verano era un uomo di quarant’anni, di statura media, capelli lunghi e neri. Due grandi occhi di colore marrone e il naso aquilino gli conferivano un aspetto affascinante: la carnagione olivastra lo faceva sembrare un indiano d’America, piuttosto che un ebreo italiano.

    Nel bel mezzo del racconto, Sara spostò il lenzuolo, con occhi grandi come due noci fissò il padre: «Perché ci sono i poveri nel mondo?», chiese preoccupata.

    David sorrise, con un filo di commozione cercò di spiegarlo alla figlia: «Nel mondo ci sono tante persone buone, per esempio come il signor Wagner, la tua mamma e il tuo papà!».

    David aggrottò le ciglia, si avvicinò al faccino di Sara, sarcastico aggiunse: «Quando mi fai arrabbiare e ti punisco, tuo padre diventa cattivo!».

    Sara rise di cuore, si coprì il viso con il lenzuolo, dal suo diafano rifugio fece una domanda inaspettata: «Papà, i cattivi sono i tedeschi? È Per colpa loro che ci sono i poveri?».

    Un tuono spezzò il silenzio, la mano della bimba afferrò il polso del padre per lo spavento.

    «Papà, ho paura!».

    David con estrema dolcezza accolse la bianca e tremolante mano della figlia nel palmo della sua mano scura.

    «No, amore mio! Non devi avere paura, questi tuoni vengono dal paradiso, sono per i demoni che vengono sulla terra a spaventare i bambini!».

    Svanito il fragore del tuono, un silenzio celestiale legò padre e figlia in un secondo eterno.

    L’acqua piovana, scivolando dalle grondaie, formava gocce grandi come biglie, fluendo sulle foglie dell’edera si faceva trasportare da un forte vento, infrangendosi sul vetro della finestra. Creò uno specchio naturale che riflesse negli occhi di David una luce maledetta, preannunciante morte e dolore.

    Sara scorse il padre con gli occhi scintillanti fissi nel nulla, chiese: «Babbo, sono i demoni?».

    David con voce fioca, come se stesse lottando per uscire dalla sua bocca, rispose alla figlia: «Adesso facciamo un gioco, ti metti sotto il letto e conti fino a mille, finché non torno da te, non devi muoverti da qui!».

    Sara lo fissò, poi annuì. David la baciò sulla fronte, si alzò lentamente e si diresse verso la finestra.

    Vide i fari dell’auto tedesca avanzare verso il piazzale della villa.

    La macchina a motore imballato sgommò nel fango, percorse l’ultimo tratto del viale.

    La sagoma spettrale dell’auto venne spazzata dalla pioggia con violente raffiche, la bandiera tedesca sventolava aggrappata a un’asta, sull’angolo del parafango sinistro. Le portiere anteriori erano contornate da svastiche nere, chiuse dentro un cerchio rosso.

    Davanti al cofano vi erano verniciate di bianco due esse, più assomiglianti a delle saette, disposte l’una accanto all’altra.

    Nello spiazzo davanti alla casa, una fontana di marmo raffigurava un angelo armato di spada, tratta verso il cielo e lo sguardo fiero rivolto a essa.

    L’acqua uscì prepotente delle bocche di leone ai piedi del guerriero alato.

    La tetra vettura girò intorno alla fontana, si fermò davanti all’ingresso della villa, seguita da uno stridio di freni e il rumore delle gomme striscianti sulla breccia.

    I vetri posteriori del mezzo, neri come le sue lamiere, rifletterono le luci artificiali che illuminavano il piazzale; i visi funerei dei due soldati dietro ai cristalli appannati dal loro respiro, scrutarono con circospezione le finestre della casa.

    La portiera posteriore destra si aprì, seguita da quella anteriore, uscirono di corsa tre soldati; armi in pugno si appostarono accanto alla vettura.

    Lo stivale nero lucido del Reichsführer uscì dall’oscurità dell’abitacolo posteriore, cadde pesantemente sulla breccia bagnata, le mani coperte da guanti di pelle nera, afferrarono i montanti del mezzo, con vigorosa energia si tirò verso l’esterno.

    Non appena l’altro stivale toccò terra ordinò: «Due alla macchina!».

    Guardò il soldato con il mitra e aggiunse: «Due con me!».

    La risposta non si fece attendere, i soldati andarono verso l’entrata.

    David uscì dalla stanza della figlia, imboccò di corsa il corridoio, arrivò davanti alla porta della sua camera da letto, l’aprì ed entrò precipitosamente.

    La richiuse bruscamente dietro di sé, si chinò davanti al comodino accanto al giaciglio: dalla tasca del gilè sfilò con mano tremula una chiave che faticò a inserire nella serratura.

    Dopo qualche tentativo riuscì ad aprire il mobile.

    Con rassegnato sconforto afferrò una rivoltella e la sistemò dietro la schiena, tra la cinta dei pantaloni e la nuda pelle, offrendo alla sua incertezza un brivido di gelida sicurezza.

    Smanioso uscì nel corridoio e si avviò verso le scale.

    Turbato dall’eminente visita, saltò le prime file di gradini: la seconda più lunga la eluse con l’ausilio del corrimano, vi appoggiò sopra il sedere e scivolò verso il salone.

    Nella sala vide Wagner di fianco alla finestra, teneva tra le dita la tendina appena scostata.

    Elena era in piedi davanti al divano, aveva i capelli sciolti fin sotto le spalle, con gli occhi pieni di sgomento, fissò il marito.

    David ricambiò con piglio sfuggente, la sensazione terrificante, che non avrebbe più rivisto la consorte e i figli, lo gettò nel panico.

    Wagner appoggiò l’angolo del cortinaggio e parlò: «Per Dio! Eichmann è qui!».

    David rispose ansioso: «Si tolga da lì, se la vedono siamo spacciati! Quanti sono?».

    Incerto, il temerario Wagner rispose alla domanda: «Quattro soldati, credo!».

    David rinsavì, si avvicinò alla moglie, appoggiò le mani sulle sue, inclinò leggermente il capo verso la creatura: il suo sguardo si perse nel vuoto, ma non quello che disse: «Amore mio, bisogna essere certi che non pianga!».

    Elena non esitò, andò verso una stanza adiacente al salone.

    David si chinò tra il divano e le poltrone, afferrò il tappeto con tutte e due le mani:

    «Per cortesia, mi sposti le poltrone!».

    Wagner rispose curioso: «Certamente, ma cosa vuol…».

    Prima che l’intellettuale potesse finire la frase, David lo interruppe bruscamente:

    «Non si perda in chiacchiere, si sbrighi, sono alla porta!».

    Wagner basito non se lo fece ripetere e scansò il mobilio.

    David alzò il tappeto, esortò Wagner a fare altrettanto: «Mi dia una mano presto!», ne arrotolò una parte e aggiunse: «Apra quella botola e scenda di sotto!».

    Elena tornò nel salone con il neonato tra le braccia, nella mano destra stringeva una boccettina, con gli occhi in lacrime e il viso pentito, rivolse una supplica verso il marito: «Ti prego amore, che sia proprio necessario?».

    David si avvicinò all’atterrita moglie: «Amore mio, per nulla al mondo ti chiederei di separartene, se non fosse che...!».

    Uno schianto fece tremare il portone d’ingresso.

    Wagner impaurito fissò la coppia accanto al camino.

    «Amore, fidati di me e andrà tutto bene!».

    Elena consegnò la boccettina nelle mani dell’amato: «Tieni mio adorato, spero che sia Dio a consigliarti!».

    David afferrò il contenitore, girò il volto verso Wagner e svitò il tappo.

    «Questo è un infuso d’erbe, una specie di sonnifero, lei deve continuamente cullarla, non presti attenzione a quello che accadrà qui sopra!».

    Cautamente fece scivolare una goccia dell’infuso sulle labbra del neonato.

    La voce cavernosa del soldato, con un marcato accento germanico, irruppe nella sala. «Aprite giudei o butteremo giù la porta!».

    David sistemò il neonato tra le braccia di Wagner, lo fece scendere nel nascondiglio, richiuse la botola sopra di lui: «Bene! Adesso non resta che aprire!», risistemò i mobili e azzardò due passi verso l’ingresso.

    «Sara? Dov’è Sara?», chiese Elena.

    «L’ho fatta nascondere sotto il letto!», rispose lui, come svegliato in pieno sonno da un boato assordante. Spalancò gli occhi.

    «Sotto il letto…! Maledizione...! Cosa ho fatto!».

    Elena lo fermò per un braccio, le si mise davanti: «E se la trovassero? Sai perché è qui quel demonio, non cerca Liebert! Vuole vendicarsi di noi! Ti supplico amore non aprire la porta!».

    David avrebbe voluto far sparire i militari nazisti ed esaudire il desiderio della moglie, sapeva che Katter Eichmann era un uomo senza Dio, un assassino a sangue freddo.

    Un ebreo da lui salvato gli raccontò che il Reichsführer presente a una fucilazione se ne stava tranquillo ad assaggiare un frutto e fu proprio Katter a dare il colpo di grazia al morente, lo fece con disprezzo tra un morso e l’altro al suo pomo.

    Era anche il diretto responsabile della deportazione del suo amico Samuele Coen e della consorte Pina Terracina, verso qualche campo di concentramento in Europa.

    Alla moglie non ne aveva mai parlato.

    Guardò intensamente gli occhi di Elena, colmi di terrore, comprese che non era estranea alla crudeltà del nazista: «Ascoltami amore, l’unica cosa che posso fare, è prendere tempo. Ho sentito a Radio Londra e fonti partigiane lo confermano: gli americani sono a Rocca Priora! È strano che non siano già qui!».

    Sapeva di mentire alla moglie e a se stesso. Non avrebbe potuto fare altrimenti in quella circostanza.

    Una serie di tonfi fecero vibrare le mostre della porta, un pezzo di intonaco si staccò dal muro e cadde in terra.

    David scostò Elena, la baciò sulle labbra e disse: «Vado a prendere Sara!».

    Lorenzo Terenzi stava rintanato tra le siepi sul bordo della strada, a pochi metri da villa Verano.

    Brillante studente in architettura, prima della guerra, il suo pensiero ricorrente era di terminare l’università.

    Desiderio che, per realizzarsi, doveva veder scacciati gli invasori.

    Questo voleva dire imbracciare un fucile e così fu: il futuro architetto si trasformò in un cacciatore di nazisti.

    Dalla postazione, vide due fari avanzare verso di lui, la pioggia scese incessante, gli procurò qualche fastidio alla vista, udì il motore dell’auto prima di potersi rendere conto, gli sfrecciò davanti; un guizzo di fango lo raggiunse in viso.

    «Maledetti bastardi!», ringhiò e ripulì la guancia.

    La vettura si arrestò davanti all’inferriata della villa, sorvegliata da lui e dal suo compagno Luca Verna. Videro scendere dal mezzo un soldato coperto da una cerata: il tizio sfilò un mitra, puntò l’arma verso il cancello e diede una sventagliata di proiettili.

    Non si sentirono le detonazioni per via di un tuono che riempi l’aria.

    Il tedesco con un calcio aprì il cancello, Lorenzo e Luca si guardarono seri, l’auto ripartì sul viale alberato.

    Lorenzo ordinò a Luca: «Vieni qui! Portami la radio!».

    Luca gli s’inginocchiò accanto e passò la cornetta dicendo: «Ricorda, poche parole ma precise!».

    Lorenzo non rispose, gli tolse di mano il ricevitore, caricò la dinamo con l’ausilio di una manovella, diede due botte secche che fecero perdere l’equilibrio a Luca.

    «Colle romano, Colle romano, rispondete, qui Uccel di bosco! Pesce nella rete! Ripeto, pesce nella rete! Dove diavolo siete? Aspettiamo nuovi ordini: passo!».

    La radio fece dei rumori che non avevano nulla di assomigliante a voci umane, dal delirio dell’altoparlante uscì una voce decisa: «Uccel di bosco, qui Colle romano! Non vi muovete, non prendete iniziative! Stiamo arrivando: passo e chiudo!». Lorenzo scosse la testa, controvoglia rispose a quegli ordini che sapevano di trappola: «Ricevuto Colle romano: passo e chiudo!».

    Lorenzo non amava prendere ordini, tanto meno da Luca, che prima di entrare a far parte della resistenza si occupava dello smaltimento di rifiuti a Roma.

    Lui aveva sempre pensato che i partigiani non fossero un esercito regolare, perciò la gerarchia veniva stabilita dal tempo della militanza o dalle imprese che richiedevano coraggio e molta audacia, e non ultimo e più importante per il comando, un livello di cultura adeguato.

    «Non dirmi più quello che devo fare!», ringhiò e passò la cornetta a Luca.

    Luca non rispose, si limitò a osservarlo e strinse le spalle.

    Marciarono verso il cancello, protetti dall’acqua da un poncho in nylon.

    Luca seguiva due passi dietro.

    Si accorsero, all’inizio del viale alberato, di un colle morente: era sdraiato nel fango, Lorenzo lo prese dal collare, lo trascinò al lato della via, si chinò davanti al cane.

    L’animale aveva gli occhi sbarrati, colmi di spavento, nei secondi che precedettero la morte.

    Si chiese se fosse il cane ritratto nelle fotografie che sua sorella Elena gli inviava accompagnate da lettere.

    Scorse la targhetta e lesse il nome ad alta voce: «Birillo».

    Ebbe la conferma del suo pensiero: «Il cane della piccola Sara!».

    Luca fu sconcertato dal vedere quel ragazzo con il viso angelico e i capelli rossi, chino davanti a una bestia come se stesse commemorando un suo amico o un parente, eppure lo aveva visto molte volte uccidere uomini, ma non ebbe il tempo di chiedersi altro. Lorenzo si alzò e corse verso la villa.

    Sbigottito dal suo comportamento, Luca lo seguì.

    Appena il soldato pestò la porta, Katter Eichmann fu assalito da un incommensurabile senso di soddisfazione: quell’ebreo che odiava a dismisura non avrebbe goduto più di alcuna protezione, quella sera nessuno poteva aiutarlo.

    Roma era sotto assedio: i partigiani sorprendevano le truppe delle Waffen SS in continue imboscate, gli americani travolta la Linea Gustav a Cassino, arrivarono a Valmontone, stabilizzando una testa di ponte fino ad Ostia.

    Perdere la capitale sotto il suo controllo era questione di ore, l’unica via di scampo per Katter e i pochi reggimenti rimasti a contrastare l’avanzata degli anglo americani, consisteva in un paio di strade, la Via Cassia e l’Aurelia verso Nord.

    Era certo che, ottenuto quello che cercava, si fosse diretto verso Bracciano dove lo attendeva una divisione delle Waffen SS al suo comando.

    L’SS Elmar Fischcer, armato di fucile, piombò sulla porta, la spinse violentemente in avanti rompendone i cardini.

    David prima di arrivare nella camera di Sara sentì il fracasso provenire dalla sala, guardò la

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