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La sete spenta
La sete spenta
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La sete spenta

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“La sete spenta” è un romanzo lungo che si inerpica nei misteri della lingua, della morale e della poesia, come nelle derive tenebrose di ogni processo di immaginazione. C’è un uomo che abbandona di colpo le sue radici, per raggiungere una figura centrale del suo vissuto, ritrovandosi, contro ogni sua previsione, nelle fauci di una voragine infernale, dove comincerà a definirsi, e poi a disfarsi, nella sua sete e nel perimetro di una sua nuova identità. Accanto a lui spasmi di figure mutanti e i confini astratti di un solo territorio; e ancora piccole sere luminose con sfolgorii di biciclette lontane, squarci di bunker e di albe sepolcrali, una locanda, un teatro di drammaturgia contemporanea, le rovine di un vecchio manicomio (dove ancora palpitano i suoi pochi lumi, con le anime degli ultimi internati), fino al mistero terrificante di un duplice delitto, ancora impunito.
Dall’ansia catastrofica di questo intarsio, affiora il sabba di una rappresentazione ciclopica, arabesco deflagrante-ideologico sulla spiritualità della lingua, simbolo oscuro di fede e di passione sacrificale per l’ignoto.
LanguageItaliano
Release dateFeb 18, 2021
ISBN9788833467986
La sete spenta

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    La sete spenta - Luigi Salerno

    Pubblicato da Ali Ribelli

    Direttore di redazione: Jason R. Forbus

    www.aliribelli.com – redazione@aliribelli.com

    Luigi Salerno

    La sete spenta

    Sommario

    PARTE PRIMA

    I

    II

    III

    IV

    V

    VI

    VII

    VIII

    IX

    X

    XI

    XII

    XIII

    XIV

    XV

    XVI

    XVII

    XVIII

    XIX

    XX

    PARTE SECONDA

    XXI

    XXII

    XXIII

    XXIV

    XXV

    XXVI

    XXVII

    XXVIII

    XXIX

    XXX

    XXXI

    XXXII

    XXXIII

    XXXIV

    XXXV

    XXXVI

    PARTE TERZA

    XXXVII

    XXXVIII

    XXXIX

    XL

    XLI

    XLII

    XLIII

    XLIV

    XLV

    XLVI

    XLVII

    XLVIII

    Ciò che è là fuori e ciò che è dentro di me,

    tutto questo, ogni cosa, è risultato di forze inesplicabili.

    Un caos il cui ordine è al di là di ogni comprensione.

    Al di là di ogni umana comprensione.

    Henry Miller, Primavera nera

    Il tramonto continua a salire lungo le pareti.

    Ha oltrepassato lo specchio.

    Marguerite Duras, Emily L.

    PARTE PRIMA

    I

    Pensavo alle persone che non ci sono più, mentre dalla camera accanto riuscivo a percepire l’attaccatura dei polsini della camicetta di Claudia, il buio dei suoi tacchi nel corridoio, poi sulle scale, lo sbattere del portone e la sua corsa triste verso il liceo, che si perdeva nell’aria di neve e di fantasmi, dilatando ancora di più la vena d’ansia e labile del tempo, come il giro di caviglia di una ballerina d’argento.

    II

    La casa di Claudia si trovava in una zona isolata del paese, dove non passava mai nessuno. Vi regnava una quiete solenne, cimiteriale. La vecchia signora che abitava di fronte era una donna silenziosa. Posata, discreta, sorda, ma ancora autosufficiente. Qualche domenica mattina passava a trovarla suo figlio, che arrivava sempre da solo, con una macchina rossa, non molto grande. Nelle giornate più terse, mi rasserenava affacciarmi alla finestra e vedere il rosso della macchina del figlio sfolgorare nella pace di via Novalis; e poi avvertire la sua voce amorevole che parlava con sua madre. Anche ascoltando la voce più alta del figlio allontanarsi, e guardando il sole invernale sulla sua macchina rossa, non perdevo mai il contatto con il silenzio ricercato del primo mattino, sempre così gelido e puro – come un pianeta estinto o appena creato –, lo stesso di cui ancora parlo e di cui scrivo, e che mi costrinse, mio malgrado, a cominciare. Avevo molte idee che mi frullavano nella mente, ma erano soprattutto pensieri. Mi chiedevo che cosa davvero li differenziasse da un’idea. Un’idea era fitta di pensieri, ma in qualche modo anche l’idea rappresentava il vertice di un pensiero. O forse un pensiero era solo una parte di un’idea, una sua forma più ruvida e tenebrosa? In fondo anche lo stesso pensiero avrebbe avuto la stessa dignità, e quindi superiorità di un’idea, immaginando una qualsiasi idea, ma anche una serie più complessa di pensieri e sovvertimenti logici che mi avrebbero portato al nucleo vitale di un’idea pura, una sorta di pietra angolare e compiuta, in grado di contrastare il vuoto naturale dell’abisso e delle emozioni.

    Mi chiedevo spesso come avrei mai potuto sopravvivere a dimensioni così intime, se non riuscivo ancora a distinguerle. In che modo sarei riuscito a differenziare un pensiero da un’idea? Possibile che mi mancasse un parametro così essenziale di distinzione, soprattutto di due elementi così cruciali, poi? Ne ero davvero all’oscuro. Non sapevo ancora nulla di certo degli strumenti sensibili che avrei dovuto affinare, e poi utilizzare, per riempire i nuovi fogli comprati da Claudia, durante le vacanze di Natale. Guardando il primo, che avevo sotto gli occhi, arrivai però a riflettere sulla vita latente di una prima parola come a un soffio sul vetro di un pensiero puro, con all’interno il veliero di una prima idea, immaginando una prima frase l’alberatura sottile di una nave fantasma in una bottiglia. Questo, forse, potrebbe essere un punto fermo, una base solida – ma anche fragile e commovente – di partenza, onde evitare possibili equivoci sulla natura più intima e segreta delle dimensioni, quanto meno per distinguerle, anche prima di definirle, o forse per definirle attraverso l’amore della loro distinzione: imparare a immaginarle, ancora prima di comprenderle.

    Con Claudia, una sera di gennaio, accanto al suo camino, affrontammo un argomento simile. Un discorso che riguardava l’immaginazione. Mi diceva che la capacità immaginativa non era assolutamente così importante per uno scrittore. Esistevano persone con una grande immaginazione, che erano dei pessimi scrittori o che nemmeno scrivevano. L’ immaginazione avrebbe danneggiato, se non distrutto, la buona scrittura, in ogni caso avrebbe comportato un ostacolo importante al suo impianto formale, alla chiarezza e alla linearità. L’immaginazione non serviva a scrivere, secondo lei, e in diversi casi si bastava da sola. Rimaneva un elemento troppo comune e spesso incontrollabile, quindi deleterio per l’equilibrio armonico di un processo artistico che si rispetti. Io non la pensavo così. Le dicevo che l’immaginazione rimaneva invece una prova schiacciante del talento e della vitalità di uno scrittore. «Una grande capacità immaginativa rappresenta una forma preziosa di talento, e quindi un elemento propulsore. Un immenso patrimonio energetico, forse l’unico, il più affidabile, secondo me.»

    «L’immaginazione confonde, illude, a volte consola, ma non fa altro. Come il fluido dell’immagine, che non ha nulla di permanente, sostanziale o di concreto: pura astrazione, mentre la parola, al contrario, è pura sostanza» mi rispondeva Claudia, con un’espressione severa, lievemente sprezzante.

    I nostri discorsi, nonostante delle vedute così diverse, mi sono rimasti dentro, anche se una loro buona parte mi ha sempre spaventato. Ma Claudia non era consapevole della mia sensazione di disagio e spavento, dovuta alla natura complessa dei suoi pensieri, delle sue considerazioni illuminanti sulla poesia, come anche sulla pittura e sulla letteratura, che ci facevamo accanto al suo camino acceso, per ore interminabili quanto profondamente amate. Quando ascoltava le mie parole, Claudia sembrava sempre così interessata, come lo sarebbe stata una persona che si sentisse inferiore a chi le stava parlando. Ma non immaginava che anche io, ascoltandola parlare, davanti al suo camino acceso, col sottofondo dei diversi rametti verdi che gemevano, provassi un senso schiacciante di inferiorità. Lo stesso che provo davanti al pallore di un mattino ancora così austero, dove ho sacrificato una lunga passeggiata nel silenzio profondo del paese, per tormentarmi con il senso del pensiero e dell’idea.

    Quanto silenzio. La prima pagina bianca, intatta, così bella da guardare nella sua perfezione assoluta, era così vicina al silenzio innevato del paese, come al suo profumo. Claudia era ossessionata dalla massima qualità della carta. Diceva sempre che uno scrittore di razza avrebbe dovuto contemplare una carta della massima qualità per sperare di ottenere dei buoni risultati, anche solo per il suono della punta mentre traccia. Una cattiva carta avrebbe distrutto la purezza dell’intento, anche per via della sua risposta imprecisa alla penna, come al tipo di attrito al flusso discorsivo nell’istante del contatto. Io la sentivo parlare della massima qualità della carta quando ritornavamo verso casa, con sei nuove risme tra le braccia, acquistate in offerta alla cartoleria nei pressi della sua scuola. Tre ne presi io, tre lei. Io volevo prenderne quattro, ma lei diceva di farcela da sola, aveva le braccia belle forti. Era soddisfatta dell’acquisto. Ma non scriveva mai. Era convinta di non essere all’altezza di scrivere. Quando entrammo in casa, Claudia spostò le tre risme che aveva ripreso dal pavimento, dopo aver posato le chiavi, sul tavolo azzurro della camera dove scrivevo. Poi posò una guancia su di una risma e chiuse piano gli occhi. Io le rimasi accanto, a guardare il suo viso quasi addormentato sulla risma dei cinquecento fogli appena acquistati. Le chiesi sottovoce che cosa sentiva. Lei, senza aprire gli occhi, mi disse di sentire il freddo delle pagine bianche, ma anche il suono della neve delle parole che vi sarebbero state scritte. Era certa che ogni foglio conoscesse nel profondo le parole che un giorno avrebbe accolto. Questo mi fece pensare che Claudia forse, prima o poi, si sarebbe decisa a provarci. Solo più avanti, e non da lei, venni a sapere di quanto avesse scritto e del suo valore di scrittura, che ha sempre tenuto nascosto, quasi a tutti o forse soltanto a me, come qualcosa di proibito e di osceno, una mutilazione, una plastica, il segno indelebile di un’operazione chirurgica subita da bambina. Sua sorella, un pomeriggio di molto tempo dopo, mi avrebbe raccontato la verità. Sul fatto che Claudia fosse una grande scrittrice, rimasta per sua volontà nell’ombra tipica di ogni natura incompiuta. Me lo disse con gli occhi ricolmi di lacrime, come se parlasse di una sorella morta. E anche io, di conseguenza, mi commossi, senza riuscire a dirle niente, come se Claudia fosse assente perché già morta, estinta, cancellata, per il fatto di avermi mentito di fronte a un aspetto così importante. Prima che sua sorella se ne andasse, le chiesi di poter leggere, un giorno, qualcosa degli scritti nascosti. «Sono tutti nel baule» mi rispose. «Se trovassi la chiave del baule, ne sarei felice. Ma non so dove sia. Non so nemmeno se l’abbia portata con sé e nemmeno vorrei forzarla a dirmi qualcosa di cui lei non desidera parlare, ecco» mi disse. Ma se la sorella di Claudia avesse mai trovato la chiave del baule pieno dei manoscritti segreti, allora me lo avrebbe aperto con piacere, sempre durante la sua assenza. Lo avrebbe fatto soltanto per me, ne ero certo. Ma poi non seppi più cosa dirle o chiederle. Ero ancora così confuso. Fu la prima e ultima volta in cui con sua sorella si parlò del baule e degli scritti misteriosi. Tutte le altre volte in cui la incontrai, nessuno dei due accennò mai a quel discorso. Una questione di riserbo, ma anche di rispetto. Eppure non mi spiegavo la ragione per cui Claudia mi avesse tenuto nascosto, e ancora mi nascondesse, il suo talento di scrittura. Possibile che lei non lo percepisse. È difficile percepire il proprio personale talento, quanto invece appare facile la propria personale inadeguatezza, inadempienza. Anche se è molto più difficile accettare il fallimento, nella consapevolezza di non avere alcun talento, lo stesso fallimento rimane più semplice da percepire come aspetto congenito, prima che siano gli altri a riconoscerlo, rispetto al suo contrario, quindi al riconoscimento di un valore. Sono spesso gli altri a decretare, quasi sempre per propri fini, il valore e il talento di una persona, contaminandola a vita di quella vaga suggestione. Non è la persona a decretarlo e nemmeno a percepirlo quanto avrebbe percepito invece la convinzione degli altri nel negarglielo. Se anche Claudia avesse ragionato così, allora attendeva forse qualche responso ufficiale, che avesse più forza della sua suggestione di non saper scrivere, di non essere all’altezza dei suoi colleghi scrittori, che secondo lei erano di grande valore. O forse le mancava il desiderio adeguato, il tipo di invasamento necessario nel trovare la forza per continuare a girare a vuoto in qualcosa che potrebbe non incontrare mai favori e quindi mai giudizi positivi, se non indifferenze o distrazioni. Claudia mi avrebbe forse detto, se fosse stata accanto a me, che il decreto sul valore di ciascuno doveva appartenere a persone influenti e competenti, che erano anche coloro che di solito non amavano pronunciarsi apertamente sul valore artistico di un particolare individuo, dal momento che per loro era fondamentale che l’artista percepisse il suo stato e il suo livello, a priori, indipendentemente da qualcosa che gli sarebbe stato riconosciuto attraverso eventuali proclami e decreti. La logica degli esperti, che avevano davvero voce in capitolo per decretare il valore e il talento di un artista, era di tacere sul suo vero nucleo vitale, sulla natura profonda e impenetrabile del suo bardo. Il vero artista non avrebbe richiesto nessuna dimostrazione o certificazione del suo valore, nemmeno da parte di uno specialista. Il suo valore, se autentico, non avrebbe cercato prove, conferme o confronti. L’artista puro, secondo Claudia, probabilmente, nemmeno avrebbe messo in discussione la sua natura, ma nello stesso tempo nemmeno l’avrebbe mai ostentata, e quindi nemmeno condivisa con i veri esperti. I critici e gli esperti non sarebbero stati così condizionanti nel decretare alcunché, specie per chi cercava da loro conferme di qualcosa che lui stesso non percepiva in pieno, o che gli sarebbe stato possibile percepire in pieno solo dopo il vaglio e l’autorizzazione simbolica di un consenso esterno. I critici e gli esperti si sarebbero occupati con maggiore interesse e attenzione degli artisti che non avevano alcun tipo di dubbio sulla loro natura, e nessun interesse a un giudizio critico tradizionale; il loro intervento non sarebbe stato legato a formulare un grado più o meno certo di giudizio. I migliori critici, dando per scontato il valore conclamato da percezioni, e non da dati certi e matematici, si sarebbero addentrati nelle sfumature dell’opera distinguendola quasi sempre dal valore di un artista, inquadrato ormai come persona a sé, ma relata e influenzata solo in determinate percentuali dalla materia opaca della sua creazione – o a volte dissoluzione artistica. L’opera non entrava necessariamente nel merito del valore di un artista che l’aveva creata o disgregata, quindi della sua persona, natura, individualità. Era una diramazione, una manifestazione autonoma di un processo ormai irreversibile, che nemmeno lo stesso artista era in grado di controllare e nemmeno lo stesso critico di turno di cristallizzare in determinati parametri, che rapportassero il valore intrinseco dell’opera con il valore relativo o consequenziale dell’artista di turno che l’aveva creata. In questi ragionamenti, prevaleva quindi un certo distacco critico tra il valore dell’artista e il valore della sua opera, che avrebbe portato a non dare troppe colpe all’artista se l’opera non fosse stata di grosso pregio, ma nello stesso tempo a non riconoscergli nemmeno troppi meriti, nel caso di un’opera particolarmente valida e apprezzata agli occhi dei più esperti. L’artista puro, quindi, avrebbe considerato il suo valore scorporato dalla mole informe e misteriosa della sua opera. «Un grande artista avrebbe potuto creare delle opere mediocri e imprecise» mi avrebbe detto Claudia, in tono polemico e retorico, forse «così come una grande opera, ma soprattutto precisa, sarebbe potuta capitare tra le mani inconsapevoli di un artista mediocre, o di uno che avesse meno talento dell’altro.» Il talento è solo un caso, come un errore, nulla di più o di che, penseremmo io e Claudia, se almeno una volta avessimo trovato il coraggio di affrontare la questione per bene, nella dovuta profondità analitica, senza sfuggire il nucleo del discorso, come spesso accadeva. Quella del mio sogno di scrivere e del suo riserbo e della sua ostinazione a sentirsi inadeguata, per esempio. Non ero convinto, da quando sua sorella mi aveva parlato degli scritti nascosti nel buio del baule, delle ragioni per cui Claudia non fosse stata sincera con me sulla sua dimensione creativa. Non era possibile che una persona convinta di esserne incapace, dedicasse una buona, se non una grossa parte del suo tempo, a un lavoro di scrittura, un lavoro forsennato e infernale, e inoltre facendolo in gran segreto, senza dirlo a nessuno, nemmeno a un amico importante come me. Quel baule pieno e ancora chiuso era rappresentativo del lato oscuro di Claudia, il lato meno determinabile. Il suo lato artistico non espresso a una persona così importante, come sentivo ancora di essere per lei, poi. Anche dentro di me vi erano gli stessi dubbi. La mia disperazione era legata a non percepire altro che il desiderio di valere, e nello stesso tempo all’impossibilità di ottenere dei riscontri necessari perché il senso del mio valore non fosse solo un desiderio ma un elemento conclamato; un decreto riconosciuto attraverso il sigillo di un consenso, per esempio.

    III

    Tutto questo rimase nell’aria, in modo sospeso e informe, come il lancio maldestro di un aquilone perduto. Nell’aria della mia anima e della casa, su al paese di Claudia, come una fioccata notturna. Quanto silenzio: un silenzio che primeggiava su tutti i silenzi mai immaginati, raggiunti o appena dipinti. Eppure nel silenzio riuscivo a percepire il respiro lento di Claudia, quanto il dolore del suo talento nascosto e negato al mondo. «Un talento è dolore» ricordo ancora le sue parole, in uno dei nostri primi discorsi, quando non la conoscevo così bene quanto credo di conoscerla adesso. Aveva organizzato un pranzo, con alcuni colleghi della sua nuova scuola, con cui aveva legato in modo particolare, specie con i più sensibili alla letteratura. C’era Gastone, l’insegnante di disegno, una persona distinta, che si era presentata con un disco e con una bottiglia di bianco, credo un bianco del Trentino. Ricordo ancora il disco. Un disco di classica. Concerti di Antonio Vivaldi per violoncello e orchestra, una versione filologica, come Gastone spiegava a Claudia, mentre i suoi occhi si accendevano su altri regali che le erano piovuti per un semplice invito a pranzo, e che Claudia forse non si sarebbe mai aspettata di ricevere. Elena, l’insegnante di matematica e di scienze, si presentò con un romanzo dal titolo forte, che a me colpì tanto, anche se per qualcuno poteva sembrare un titolo banale, secondo me invece era davvero originale e coraggioso. Il titolo del romanzo era Paradiso. Un romanzo lunghissimo, scritto da un romanziere poeta o da un poeta romanziere – anche su questo aspetto con Claudia ci dilungammo a discorrere per diverse sere, accanto al suo camino, a volte anche tutto spento. José Lezama Lima, il nome dello scrittore di Paradiso. Osservavo gli occhi di Claudia sfogliare le prime pagine e anche gli occhi di Elena, la sua collega, seguirne con passione la scorsa ispirata. E anche io mi avvicinavo, non avendo mai saputo del romanzo e nemmeno del poeta-romanziere o romanziere- poeta – non era ancora così essenziale, secondo me; lo sarebbe stato più avanti, quando ne avremmo discusso con Claudia, dopo che la lettura del romanzo l’avrebbe ossessionata a tal punto da farglielo rileggere per più di tre volte. «Il più bel libro mai letto» come mi disse dopo la sua prima lettura, che cominciò la sera stessa del dono ricevuto, quindi del pranzo con i suoi colleghi di scuola. Un altro collega, che arrivò un po’ in ritardo, si chiamava Edoardo. Insegnava educazione fisica. Si presentò a mani vuote, dicendo che non aveva avuto un attimo libero. Era una persona gioviale e luminosa. Propose di scendere per il dessert. Claudia gli disse che non doveva, ma Edoardo insistette, chiedendo a Gastone di accompagnarlo a prendere qualcosa di dolce, un gelato, semmai un semifreddo.

    Rimasero fuori quasi mezz’ora, mentre io cominciavo a sfogliare il romanzo di Lezama Lima e ogni tanto ascoltavo qualcosa delle conversazioni tra Elena e Claudia, che erano vicine, in piedi, Claudia un po’ disorientata, non sapeva come dividersi, ogni tanto mi guardava con un viso preoccupato o lievemente colpevole per avermi abbandonato, mentre ascoltava Elena che le parlava di affari scolastici che io non capivo, perché troppo tecnici e specialistici. Ma io sfogliavo ancora le pagine profumate del romanzo che Claudia aveva avuto in dono, Paradiso, del poeta Lezama Lima, e nello stesso momento, nella casa di Claudia, con persone nuove, insegnanti che non avevo mai visto, mi sentivo anche io precipitato nell’abisso di un altro romanzo. «Che fatica scrivere e che meraviglia leggere ed essere letti» dissi un pomeriggio a Claudia, quando eravamo da soli e stavo cominciando a entrare nell’alveo della logica creativa. Quando volevo capire a tutti i costi come funzionava, dov’ era il trucco, come si riusciva a emergere, a distinguersi e a diventare davvero grandi. Lo chiedevo con molta foga a Claudia, quando avevo appena concluso il mio primo racconto – un racconto molto breve, di sole tre pagine, anzi di due pagine e mezzo per essere precisi, cercando di avere un giudizio spassionato da lei, che era la persona che mi dava più fiducia, da sempre. «Sei la prima persona a cui faccio leggere il mio primo racconto; l’ho scritto nella tua cucina, è come se fosse anche un po’ tuo: dei tuoi pensieri o delle tue idee» e poi le sorrisi. Le dissi queste cose per convincerla ad ascoltare il mio misero, primo tentativo letterario, senza aspettarmi considerazione, ma almeno tolleranza, rispetto. Ma quando proposi a Claudia la lettura del mio primo racconto, da parte sua avvertii un muro, una coltre di gelo. Non immagino cosa avessi mai detto per farla reagire così. Io la seguivo, mentre lei cercava le chiavi e poi prendeva la giacca e si frugava nelle tasche prima di scendere. Il ricordo del mio primo racconto breve è ancora intriso della distanza di Claudia, alla ricerca delle sue chiavi, e della mia incapacità di percepire la chiave di un mio valore senza un suo decreto. Ma Claudia aveva come decreto il suo sguardo gelido nel vuoto delle sue tasche, uno sguardo di indifferenza se non di assoluto disprezzo. Io la sentivo molto esperta, anche se lei negava di avere voce in capitolo. Parlava sempre bene dei suoi colleghi, della loro sensibilità artistica e letteraria – a volte le distingueva: «La sensibilità artistica non include necessariamente una sensibilità letteraria, e viceversa, una sensibilità letteraria non include necessariamente una sensibilità artistica». Eppure io la sentivo sensibilissima a ogni forma di arte e quindi avrei sperato che fosse sensibile anche al mio primo tentativo, semmai disperato, di sentirmi un piccolo artista in erba, che fosse almeno considerato come Claudia considerava i suoi colleghi, per esempio. Ma quel mattino, non appena Claudia ritrovò le sue chiavi – non in una delle tasche della giacca, ma su di una mensola della cucina –, lei uscì subito, di corsa, senza darmi troppa retta, dicendomi tra i denti che ne avremmo parlato nel pomeriggio. Non mi disse nulla di strano, eppure dalla sua fretta e dal modo in cui mi rispose, avvertii una distanza importante. Avevo rotto un muro. Un muro maestro. Il muro maestro del silenzio. Ogni spasmo immaginativo che sentivo di avere dentro, adesso era schizzato fuori, come dell’olio da una padella – Claudia lo aveva percepito e forse ne aveva paura. La sua fretta era legata al sentirsi indifesa, se non anche offesa dalla mia richiesta improvvisa di ascolto, che avrebbe comportato la possibilità di ferirmi a sangue, semmai anche di annientarmi sul serio per una mia piccola creazione. Quando Claudia era già in strada, mi misi alla finestra per guardarla allontanarsi. Fu solo allora che decisi di scrivere un altro racconto, il mio secondo racconto, dedicato a lei. Alla sensazione di paura e di lontananza che Claudia mi aveva lasciato, ma che mi aveva misteriosamente avvicinato a lei, come non era mai successo.

    Ritornando al pranzo con i colleghi di Claudia, ricordo di essere rimasto in silenzio, specie durante la prima parte. Non parlavo perché temevo di essere inadeguato ai loro discorsi. Ascoltavo le loro voci, la considerazione che i tre colleghi avevano per Claudia, anche il tipo di ammirazione; qualsiasi cosa Claudia dicesse per i suoi colleghi era sensazionale. Io ascoltavo Claudia esprimere le sue idee, anche su cose piuttosto semplici, quanto meno in partenza di frase, e poi mi spostavo subito sulle espressioni dei suoi colleghi, assistendo a uno strano spettacolo di luci dentro i loro visi, che alle parole di Claudia si schiudevano in figure radiose e indimenticabili, come se diventassero suoi studenti. Erano rapiti e avviluppati anche da un pensierino semplice, che Claudia diceva a tavola. Tutti allo stesso modo, tra l’altro, intendo con la stessa intensità, pur riconoscendo che ciascuno di loro viveva la sua particolare emozione e stato di grazia in modo personale alla sua presenza, ma la forza del trascinamento del tipo di stupore, o di rapimento o viluppo, era in fondo esattamente la stessa. E Claudia, che notava come me la reazione dei suoi colleghi alle sue parole semplici, parole del tipo: «Stamattina, aprendo la finestra della mia camera, ho sentito una freschezza che mi ha rischiarato le pareti dell’anima. Difficilmente l’aria del giorno era mai arrivata così giù, nel fondo delle mie segrete». Una volta che avevo incrociato i loro visi, con il rispettivo stupore, rapimento e viluppo, anche dentro di me accadeva qualcosa, per via della combinazione di fattori a cui assistevo. Anche per me le parole di Claudia risuonavano in modo diverso e mi toccavano, come mi avrebbe toccato un insetto, o forse un suo ginocchio in una calza di seta. A volte il tocco aveva qualcosa di musicale; altre volte, quindi in relazione ad altre frasi pronunciate a tavola da Claudia, diventava più rude e urticante, come la barba in contropelo, che si studia durante la mappatura della guancia o del collo; così come anche gli sguardi dei colleghi commensali alle parole di Claudia, tradivano un tocco crespo, che mi disturbava e mi rendeva difficile rimanere sereno. Forse era una forma sottile di invidia, possibile. Al momento non controllavo in modo consapevole le mie reazioni; ma a ripensarci su, con più calma, sin dalla stessa sera del pranzo, quando i colleghi ospiti erano ormai andati via, affiorava un filo segreto di tormento, come della carta vetro che si insinuava dentro di me, prendendo varie forme e dilatandosi a diversi livelli di profondità.

    «Hai parlato poco a tavola» mi disse Claudia. «Durante i primi piatti e anche durante parte dei secondi, è come se tu non esistessi» mi fece, adesso con uno sguardo severo, tipico di un’insegnante. «Poi ti sei ripreso, ma solo verso i contorni. Hai cominciato veramente a esprimerti durante i contorni, ma non prima. Potrei dire che durante i secondi le tue parole erano delle ombre, e non ancora pensieri compiuti, capisci cosa intendo? Ma solo dai contorni hai cominciato davvero a partecipare» mi diceva Claudia, mentre metteva ordine e svuotava le ceneriere stracolme di mozziconi – i suoi colleghi erano tutti fumatori accaniti.

    Ero mortificato. Temevo di aver deluso Claudia, per la mia assenza ingiustificata a una parte di convivio che mi ero perso. Anche quando le dissi che io preferivo ascoltare, fino ai contorni o a parte dei secondi, Claudia mi obiettò che la mia era solo una scusa. «Si può ugualmente ascoltare esprimendosi. Proprio tu, che vorresti scrivere, che stai dedicando ogni attimo della tua vita alla scrittura, avresti dovuto catturarci, tenere tu il passo e averci tutti nel tuo pugno, capisci? Come potrai mai pensare di catturare anche un solo lettore, dico uno, se durante un pranzo a casa mia, tra persone in qualche modo amiche, rimani assente, insensibile, fingendo di ascoltare per oltre mezzo pranzo e poi intervenendo solo durante i contorni, con delle banalità sconcertanti, ma anche con delle inesattezze, perdonami, altrettanto sconcertanti delle banalità?» Era questo che mi diceva Claudia, senza nemmeno guardarmi, quando svuotava in un contenitore altri mozziconi col rossetto da una ceneriera azzurra, mentre le sue parole facevano lo stesso con me, svuotandomi come una sua ceneriera. Non sapevo cosa risponderle; dopo un attacco così improvviso ero stato colto alla sprovvista. Avrei voluto sapere da lei quali fossero di preciso le banalità sconcertanti che avrei detto durante i miei interventi, e anche quali fossero mai state le inesattezze, che davvero non ricordavo. Claudia conosceva bene quanto fossi prudente, in relazione a dati storici e anche a situazioni di cultura generale, e a quanto evitassi di aprire bocca se non fossi davvero sicuro di quello che stavo per dire, della sicurezza assoluta che le mie parole, un domani verificate, avrebbero potuto corrispondere al vero. Ma non ebbi il coraggio di chiederle nulla in relazione alle banalità e alle inesattezze di cui mi aveva appena reso colpevole. Per come Claudia si fosse espressa con me, per la sua espressione e per la determinazione con cui mi parlava senza più guardarmi, ma anche per come guardava la cenere scivolare dalla ceneriera azzurra al contenitore dei rifiuti, ero certo di averla fatta grossa. Sarebbe stato meglio che la cosa finisse lì. Non avrei potuto sostenere oltre la conversazione, se non peggiorandola. Prima che Claudia finisse di sistemare le macerie della cena, in cucina, le dissi che sarei sceso per una passeggiata e lei, senza nemmeno guardarmi, mi rispose che potevo andare. Non le avevo chiesto il permesso, ma le avevo solo comunicato che sarei sceso per una passeggiata, ma dalla sua risposta Claudia mi aveva parlato come se la sua fosse una concessione conseguente a una mia richiesta, distorcendo anche lei, a suo modo, la forma e il senso della realtà.

    IV

    Durante la mia passeggiata solitaria pensai molto al pranzo, ai colleghi e a Claudia. Non ero in grado di definire il mio comportamento, quanto invece lo era stata Claudia. Non ero in grado di definirmi, se non ci fosse stato qualcuno a farlo per me, sempre con la dovuta precisione e obiettività. Claudia era riuscita a definirmi, anche se in modo catastrofico, con una chiarezza e una determinazione che a me erano sempre mancate, sia nei miei confronti sia in quelli degli altri. Durante la mia passeggiata senza meta, mi accorgevo di quanto fosse condizionante il suo pensiero in relazione alla mia persona. A qualsiasi cosa e dimensione riguardasse la mia persona, così com’era accaduto il giorno del pranzo con i suoi colleghi di scuola, da parte mia vi sarebbe stata sempre una totale adesione alla genesi oscura di un suo pensiero. Nessun mio pensiero, considerazione o idea sulla mia persona, avrebbe mai avuto la forza di un pensiero, di una considerazione e di un’idea che partisse da Claudia. Non ero in grado di credere ai miei pensieri, di trovarvi delle verità, come invece accadeva con i pensieri che aveva Claudia nei miei riguardi. Ora, durante la passeggiata solitaria, non esploravo a lungo la definizione di pensiero, dal momento che non ero impegnato in un esercizio di scrittura, quindi di trasferimento di materiale cognitivo in una forma più o meno definita da simboli e caratteri, quindi cristallizzata nella clausura dei concetti. Camminando, tutto ciò che affiorava trovava la sua strada naturale dentro di me, senza che io dovessi analizzarne e differenziarne le possibili origini o conseguenze. Una volta, raccontando a Claudia della mia passeggiata solitaria, che durò anche molto più a lungo del previsto, le dissi che forse per imparare davvero a scrivere, avrei dovuto dimenticare di farlo e immaginare di fare solo quattro passi, come nella mia passeggiata, in cui gravitavo nei miei pensieri senza nessuna volontà di strutturarli per un fine preciso e determinato.

    Claudia era ancora in piedi quando le parlai della mia passeggiata solitaria e delle mie riflessioni indeterminate. Mi disse che nessuno potrà insegnare a un altro a scrivere. E allo stesso modo nessuno potrà mai perdere la sua scrittura, se in qualche modo l’ha conquistata, ma nello stesso tempo non potrà mai conquistarla, nel caso non l’abbia configurata come suo elemento costitutivo, e non come materiale appreso, quindi estraneo al mistero insondabile della propria natura. «Nessun insegnante potrà mai trasmettere l’arte dello scrivere, ma soltanto favorire la schiusa del seme, o quanto meno individuarne la presenza nel solco. Quando il seme è presente nel solco, l’insegnante onesto e capace potrà mettere l’allievo in condizioni di favorire la schiusa, ma il suo ruolo sarà solo quello di un medium o di una buona levatrice, semmai. Sarà il tramite, non certo la principale ragione per cui alla fine l’arte sarebbe stata in grado di espandersi dentro l’animo dell’allievo, a partire dalle tenebre del solco. Potrebbero accadere diverse variabili. Una è che il seme sia morto, ancora prima di schiudersi. È una cosa possibile, che è accaduta diverse volte. Quando un seme è morto, qualsiasi sforzo profuso perché esso schiuda, o ritorni a essere vivo, sarà comunque vano. Un buon insegnante, un insegnante onesto, sarà subito in grado di riconoscere un seme vivo da un seme morto, allo stesso modo di come sarà subito in grado di differenziare un terreno dove vi sia una presenza del seme e un altro in cui il seme non ci sia. Questi fattori sono fondamentali, prima di intraprendere una qualsiasi arte: l’analisi attenta del terreno e del solco, ma ancora prima di evidenziare la qualità del terreno e del solco, investigare sulla presenza di un seme vivo o sulla sua assenza, e allo stesso modo investigare sulla presenza di un seme morto all’interno di un solco. Solo quando si ha a che fare con la presenza di un seme vivo, un seme vivo ma sano, che non sia affetto da patologie importanti che potrebbero avvicinarlo allo stadio di morte, solo allora si potrà procedere con l’analisi accurata del terreno e del solco, per evidenziare le caratteristiche fondamentali compatibili con la qualità del seme vivo presente.»

    Questi fattori secondo Claudia erano essenziali. Primo tra tutti la presenza del seme alla giusta profondità. In seguito, avrebbe aggiunto e analizzato anche altri elementi. Il tipo di terreno, che secondo Claudia era altrettanto importante quanto il seme, intendendo la presenza di un seme vivo, dal momento che un cattivo terreno poteva invalidare le caratteristiche di un seme vivo e renderlo come morto o addirittura farlo morire, sterilizzandolo. E oltre al fattore qualitativo del terreno, Claudia aggiungeva i fattori climatici, che in sinergia con il tipo di terreno e con il tipo di seme, avrebbero favorito la perfetta combinazione perché un artista potesse cominciare a formarsi nella progressione naturale di una sua schiusa a partire dalle tenebre del proprio solco. «Questi elementi sono alla base» mi ripeteva Claudia – spesso con una sigaretta accesa nelle labbra, avvicinandosi alla finestra e poi fermandosi, guardando il fumo della boccata che si dissolveva. «Un artista deve prima di tutto dedicarsi alla loro esplorazione. Dovrà valutare tutte le condizioni essenziali e primordiali, prima di cominciare.» Quando Claudia taceva, dopo aver analizzato le condizioni essenziali e primordiali, in relazione all’essere scrittori, ma anche filosofi, poeti, saggisti, musicisti, scultori, artisti, in senso lato – anche se per alcuni la filosofia e la saggistica non rientravano in un vero e proprio processo artistico –, io piombavo in una disperazione profonda, che non mi dava la possibilità di formulare alcun tipo di pensiero e di giudizio critico, neanche il più semplice, in relazione alle sue ultime considerazioni. Il suo discorso era perfetto e stimolante; da un punto di vista logico era inattaccabile, ma nello stesso tempo aveva delle lacune, che io al momento non riuscivo a identificare, forse perché legate al suo senso di perfezione assoluta che ancora mi disperava. Senza la perfezione assoluta diverse lacune non sarebbero mai emerse.

    Mi trasferivo per dei periodi molto lunghi da Claudia, perché la sentivo l’unica persona al mondo in grado di definirmi, quanto di ispirarmi un sentimento creativo di perdita e di abbandono al mistero dell’immaginazione. Su al palazzo, dove abitavo con mio cugino, poco lontano dalla contrada dei candelabri, ogni cosa che facevo o che tentavo di fare non aveva mai luce, definizione e intensità. Mio cugino tossiva di continuo, dalla stanza accanto, una stanza con le pareti così sottili che la tosse che infuriava dal suo petto pareva provenire dalla mia stessa stanza di lavoro, dove passavo intere ore del giorno, su al palazzo, mentre mio cugino tossiva e correggeva i compiti di italiano dei suoi scolari. Mai una parola di incoraggiamento nei miei confronti. Mai una domanda, una curiosità su cosa fossi mai riuscito a pensare, o anche solo ad accennare sul primo delle centinaia e centinaia di fogli che avevo ancora davanti, come greggi che mi conducevano verso il vuoto abissale di uno strapiombo. Ero diventato intollerante all’indifferenza di mio cugino, così come alla sua tosse stizzosa che non si curava e che non mi dava pace, nonostante le mie insistenze e quelle di mia zia, che quando ogni sabato passava a trovarlo insisteva con il fatto che mio cugino avrebbe dovuto consultare uno specialista, per via della sua brutta tosse, una tosse stizzosa, a volte anche cavernosa, specie durante la notte, che durava e infuriava da diversi mesi. Mio cugino era contrario ai medici e non amava il sentore viscoso dello sciroppo. Gli era insostenibile, così diceva sempre. Qualsiasi tipo di sciroppo lo avrebbe portato alla nausea.

    Mio cugino conosceva a memoria tutte le marche di sciroppi viscosi esistenti, le aveva provate tutte e non aveva resistito nemmeno due secondi al contatto dell’infusione, al solo annusarne l’essenza, quando era ancora fermo sul cucchiaio ricolmo. Nemmeno quelli dei monaci, preparati artigianalmente, gli erano sopportabili. Sua madre, mia zia, era molto dispiaciuta a causa della totale chiusura di mio cugino Peter – ecco il suo nome – nei confronti di ogni tipo di sciroppo. Io mi permisi di consigliare a mia zia un’alternativa. Ricordavo dell’esistenza in commercio di alcune bustine effervescenti per la tosse, basate sugli stessi principi di lenimento degli sciroppi più o meno viscosi, così come sapevo dell’esistenza di alcune compresse, altrettanto efficaci, anche loro basate sugli stessi principi di lenimento degli sciroppi e delle bustine effervescenti. Mia zia era rimasta molto colpita dalle mie considerazioni scientifiche. Aveva lo sguardo estasiato di una bambina, quando mi chiese di darle della carta, che avrebbe voluto appuntarsi i nomi precisi delle medicine di lenimento alternative agli sciroppi, ma io non ricordavo nessun nome dei farmaci di cui le parlavo, ma solo la loro esistenza generica, nulla di più. Ma mia zia insisteva. Voleva che entrassi nel dettaglio, che fossi più preciso. Era sicura che con un minimo sforzo sarei riuscito a darle un nome preciso del farmaco alternativo allo sciroppo, in modo che la sua farmacista di fiducia glielo avrebbe ordinato, e se già disponibile glielo avrebbe venduto all’istante. Ma io non ricordavo di aver mai saputo il nome di uno dei prodotti di lenimento alternativi agli sciroppi. Forse sarebbe stato meglio chiedere al loro medico, ma la madre di mio cugino Peter, mia zia, presa da un momento di sconforto, impallidendo, mi disse che il loro medico era molto rigido e non amava farsi condizionare dai capricci dei suoi pazienti, e a maggior ragione dai capricci di Peter, che era uno dei pazienti più indisciplinati, propensi al demone dell’automedicazione spicciola, se non a rimedi alternativi e tutti molto pericolosi, come li chiamava lui. Il medico aveva sempre detto a mia zia che Peter era un ragazzo viziato e che lo sciroppo viscoso sarebbe stata un’opportunità di maturazione e di superamento di alcuni vincoli caratteriali assai nocivi, ancora di più della sua tosse cavernosa.

    Il suo medico di fiducia era fatto così. Non si sarebbe mai azzardato a prescrivere qualcosa di diverso soltanto per un capriccio di Peter. Mia zia mi disse che lei, pur di trovare una soluzione, sarebbe stata disposta a cambiare medico. Anche la farmacista era molto rigida a riguardo, quanto era rigido il loro medico di base o di sfiducia. Per una questione di etica professionale, per non essere responsabile del tipo di somministrazione, la farmacista di mia zia avrebbe venduto soltanto dei prodotti accompagnati da una ricetta medica, che anche quelli che non avevano l’obbligo di ricetta medica, per lei e all’interno della sua farmacia, dovevano essere supportati da una richiesta specifica del medico curante, che avrebbe dovuto anche precisare nei dettagli tutte le caratteristiche del prodotto, con tanto di quantità di somministrazione e relativa durata e grado di viscosità e di densità della sostanza madre. Mia zia era certa che senza il nome di un prodotto di lenimento alternativo allo sciroppo tradizionale e senza una prescrizione relativa del medico curante con tutti i dettagli annessi, non avrebbe mai ottenuto nulla dalla sua farmacista, che non fosse lo sciroppo viscoso, che mio cugino Peter rifiutava. Ma io le chiesi come fosse possibile che una farmacista si arrogasse il diritto di cambiare le leggi, di non venderle un farmaco alternativo, che tra l’altro non aveva l’obbligo di ricetta. Mia zia mi diceva che la farmacista era figlia di amici di famiglia, che lei l’aveva vista crescere, non se la sentiva di contrastarla e nemmeno di abbandonarla e di tradirla per un’altra farmacia, ecco. Un pomeriggio, con un cliente che l’aveva contrastata, la farmacista di mia zia aveva avuto una crisi di nervi e si era sentita male. «Un dolore molto forte al centro del petto» era così che aveva detto, mentre chiedeva una sedia e un bicchiere d’acqua. Nella farmacia non si capì più nulla. Il cliente ebbe davvero molta paura e chiese perdono, per essere stato causa di un malore così spaventoso, mentre la farmacista – che non era per niente cardiopatica, ma che in compenso aveva preso parte a una compagnia di filodrammatica, dove recitava da protagonista con risultati incoraggianti, derivanti da un talento innato per la recitazione – finse in modo davvero mirabile – a detta di mia zia e dei testimoni che le avevano riferito – uno svenimento a regola d’arte, quando invece stava molto bene, ma non voleva essere surclassata da nulla e da nessuno, e soltanto lo spavento di un malore importante le avrebbe restituito integro il suo scettro e la sua dignità. La farmacista era convinta che all’interno della sua farmacia le regole le dettava soltanto lei e nessun altro, e nel caso qualcuno l’avrebbe mai osteggiata, lei avrebbe avuto sempre a disposizione il suo pezzo infallibile di teatro, attraverso il quale simulava in modo davvero mirabile l’infarto del miocardio, con tutti i possibili svenimenti e varianti cliniche con cui dominava il mondo.

    Prima che mia zia mi raccontasse della farmacista, ero già stremato, al pensiero di dover convivere ancora per delle ore, ma anche dei giorni, se non addirittura dei mesi, nel cuore della contrada dei candelabri con lo sfondo della tosse terrificante di mio cugino Peter, che ormai si era ostinato a non curarsi e che per una stupida questione di principio da parte del suo medico curante, quanto per l’invasamento della farmacista amica di famiglia, non avrebbe ottenuto facilmente dei farmaci alternativi di lenimento allo sciroppo viscoso per la tosse. Quando mia zia andò via – era già buio pesto, eravamo a metà novembre –, ricordo che fui avvinto da un’angoscia mortale. Presi la rubrica del telefono e chiamai di furia Claudia. Fortuna che la trovai in casa. Avevo bisogno di parlarle, di confidarmi con lei sulla situazione difficile che stavo vivendo su al palazzo, che ormai non mi dava tregua e non mi rendeva possibile cominciare anche una sola frase, nemmeno formularmela appena nella mente. Una situazione simile alla tosse stizzosa, che abitava da diversi mesi il petto e forse anche l’anima di mio cugino Peter, dalla stanza accanto alla mia.

    Quando la situazione si faceva insostenibile per il mio equilibrio mentale e quindi artistico, comunicavo a mio cugino Peter della mia partenza e allora, come per incanto, la sua tosse svaniva. In quei periodi, di solito erano giorni, ma anche ore, prima della mia partenza, riuscivo a recuperare il senso di beatitudine e di concentrazione che mi mancava e che credevo perduto. Così mi organizzavo un programmino giornaliero di lavoro, in modo da portare a Claudia qualcosa di compiuto, su cui discutere, sapendo che sarebbe stata l’unica persona al mondo a insegnarmi ad addentrare il mistero della mia natura, l’esistenza o meno di un seme vivo all’interno del solco del mio terreno creativo. Mio cugino mi chiedeva quale fosse il reale motivo della mia partenza, e se dipendeva dal fatto che lui tossiva molto forte, durante tutto il giorno e durante tutta la notte, per esempio, anche se la tosse, mi diceva, si era placata, all’improvviso. Ma io lo tranquillizzavo. Gli dicevo che avevo bisogno ogni tanto di andare a trovare la mia amica Claudia, su al paese. Mi accorgevo di un’espressione molto strana dipinta sul viso di mio cugino Peter, quando gli parlavo di Claudia. Come se Claudia lo oscurasse, rappresentando per me, davanti ai suoi occhi, una figura superiore, che lasciava tutti in secondo piano, anche lui, che invece mi considerava un po’ il centro tonale della sua vita, come mi aveva sempre detto. Io non credevo di essere il centro tonale della vita di mio cugino Peter. Le sue erano solo delle parole occasionali se non strategiche; non che mio cugino Peter fosse in malafede o dicesse cose false sul mio conto e sul suo, intendo sul nostro rapporto, questo no. Il fatto è che era inconsapevole del peso e della natura di ogni cosa che mi diceva, e non aveva idea di cosa fosse un rapporto umano profondo, e cosa rappresentasse porre un essere umano al centro tonale della propria esistenza, come fattore nucleico. Era una cosa che Peter non conosceva, perché non l’aveva mai vissuta né provata. Mio cugino era l’unico elemento a essere il centro tonale di sé stesso. Da sempre, era stato solo lui il suo nucleo. Aveva imparato a pronunciare delle frasi a effetto, da quando aveva cominciato a frequentare alcuni amici dell’Accademia di belle arti, una ragazza del Conservatorio, studentessa talentuosa di violoncello, tutte amicizie legate alla mia cerchia, naturalmente, che Peter aveva ereditato e attraverso le quali era riuscito a maturare una linea di pensiero un tantino più sofisticata sulla vita, rispetto all’altra, che aveva connaturato prima del mio arrivo. Per cui ogni tanto se ne veniva fuori con delle espressioni che aveva sentito un po’ nell’aria, dopo una cena con i miei amici, o quando qualche volta ci eravamo riuniti a casa nostra, mia e di Peter, su al palazzo della contrada, con i soci dell’associazione culturale sul racconto breve. Ero entrato da poco e già ne ero invasato, anche scrivendo pochissimo, essendo convinto che il racconto breve sarebbe stata la mia acqua, il luogo elettivo dove avrei potuto esprimermi e dimostrare la mia bravura, il mio estro, il mio talento letterario. Claudia, pur vivendo lontano da noi e dalla sede associativa, ne era diventata presidente onorario. Ero stato io a includerla, dicendo della sua preparazione, della sua profondità, della sua grande competenza e sensibilità. Claudia rimase piuttosto indifferente nel ricevere quel tipo di carica, quando una sera glielo comunicai. Mi disse che non era il caso, che non avrebbe potuto fare nulla di che a distanza, ma che anche se non fosse stata così distante secondo lei non era un ruolo che le si addiceva. Ma io le dissi che ci tenevo tantissimo al fatto che comparisse almeno il suo nome, dal momento che era solo grazie a Claudia e alle nostre discussioni infinite accanto al suo caminetto, su al paese, che mi era venuta la malattia della scrittura, e quindi in qualche modo era giusto gratificarla. Il ruolo di presidente onorario dell’associazione culturale di scrittura sul racconto breve, era un gesto di riconoscenza che le dovevo. «Ma riconoscenza per cosa?» mi diceva Claudia, la sera che al telefono le comunicavo la notizia. E io insistevo, che dovevo tutto a lei, il rapporto con la mia creatività, in base ai suoi discorsi sulla letteratura, sulla scrittura, ma anche sull’arte in generale: «Ero diventato una persona nuova, una persona che aveva dentro di sé il seme». Non glielo dissi al telefono, ma ero convinto che il mio seme creativo, che mi avrebbe reso un artista, fosse proprio lei: Claudia. Ero certo che solo attraverso Claudia avrei trovato la mia realizzazione, sia artistica sia spirituale – che in fondo potevano essere anche la stessa dimensione, ma certi aspetti andavano affrontati con calma. I soci dell’associazione sul racconto breve mi chiesero notizie in dettaglio su Claudia, su cosa e su quanto avesse scritto, dove sarebbero stati reperibili i suoi racconti brevi o anche brevissimi, dal momento che il presidente onorario di un’associazione culturale sul racconto breve, secondo loro, non poteva non essersi cimentato a livello specialistico con quel tipo di arte. Ma io non volevo mentire ma nemmeno volevo dire la verità. Io sapevo, all’epoca, che Claudia – ufficialmente – non si riteneva degna di scrivere, nemmeno un solo rigo avrebbe mai tracciato, e quindi non era, o forse non si sentiva, una scrittrice e di conseguenza non avrebbe avuto i requisiti minimi che giustificassero la carica di presidente onorario all’interno della nostra associazione specialistica sul racconto breve. Ma io ero convinto che Claudia avesse un potenziale immenso e che prima o poi questo potenziale immenso si sarebbe espresso in qualche modo. Dovevano solo presentarsi le condizioni adeguate, e il suo ruolo di presidente onorario di un’associazione culturale imperniata sull’analisi del racconto breve, anche brevissimo o ultra-breve, come alcuni soci amavano spesso rettificare, sarebbe stata una meravigliosa opportunità di fioritura, ma non soltanto per lei. Ai soci parlai in modo vago di una quantità industriale di inediti, che Claudia teneva gelosamente custoditi e che non riteneva ancora pubblicabili, avendo in animo di cesellare ogni suo racconto all’estremo delle sue possibilità, fino all’osso della perfezione e rarefazione di ogni impurità linguistica, specie quando il racconto era molto breve, ancor più se brevissimo o ultra-breve. E quando parlavo ai soci di questi aspetti, divenuti ormai ossessivi, legati ai fattori di revisione dei racconti brevi, brevissimi o ultra-brevi, intorno alla sala delle riunioni calava un silenzio tombale, e anche un velo di fascino e di stupore, nell’immaginare la fantomatica Claudia, neo-presidente onorario della nostra associazione, grazie alla mia insistenza, cesellare un intero giorno anche un solo rigo di un suo piccolissimo racconto, lavorando ai suoi piccoli cristalli con un senso invidiabile di limatura estrema, la parte più bella, più difficile e appassionante dell’attività solitaria di un vero scrittore; e allora mi accorgevo che la luce del suo ritratto, anche se solo immaginato attraverso le ferite delle mie parole, stava già diffondendo negli sguardi e nelle anime artistiche dei soci, specie tra i più affamati di gloria e di consensi, la prima fragranza (con la relativa sudditanza) di un reale incantamento, lo stesso che provavo io nei confronti di Claudia, e che condizionava ogni mio passo all’interno della sua orbita feerica e tonale.

    V

    Quando mi spostavo da un luogo all’altro, dal palazzo dove vivevo con Peter al piccolo paese dove mi ospitava Claudia, esplodeva dentro di me un’effervescenza vitale, che in nessuna fase precedente di stasi mi aveva mai raggiunto con tanta forza. Pochi giorni prima di raggiungere Claudia, andavo a trovare i soci più appassionati, per raccogliere domande, curiosità, dubbi e piccole riflessioni da riportarle, in relazione alla natura misteriosa del racconto breve, con le sue tipiche varianti.

    Quasi tutti i soci dell’associazione del racconto breve, brevissimo o ultra-breve, erano tormentati dal fatto che doveva esistere una chiave magica – o vademecum – perché un racconto funzionasse davvero alla perfezione, rimanendo inoppugnabile e resistente di fronte a qualsiasi sguardo, anche dei più critici e spietati. Ma nessuno di loro era convinto di aver mai trovato la chiave. Nonostante alcuni soci si dedicassero alacremente alla scrittura dei racconti brevi, brevissimi, ultra-brevi – alcuni, tra i più accaniti, dedicavano anche intere nottate a formare un solo rigo che si rispettasse, che non sapesse di racconto amatoriale o dilettantesco –, nulla era mai stato debitamente riconosciuto né mai aveva destato interesse di editori, piccoli o anche medi, e nemmeno delle giurie dei concorsi specializzati sul racconto breve e categorie affini. Il nostro presidente avrebbe dovuto fare luce su quali fossero gli ostacoli concreti che non davano ai racconti la possibilità di espandersi e di raggiungere il cuore e l’animo anche di un solo lettore, che non appartenesse alla cerchia dei famigliari o degli amici più stretti. Vi fu un periodo in cui dovevo portare a Claudia plichi gonfi di domande, in cui i soci dell’associazione chiedevano al loro presidente dove fosse il guasto, includendo, ciascuno di loro, un raccontino breve, anche brevissimo o ultra-breve, rappresentativo della loro particolare condizione e sensibilità letteraria. Claudia ormai, nel loro immaginario, era un’autorità in materia di racconto breve – per quanto bene avessi detto di lei, come anche per il mio sguardo, così intenso e appassionato, che veniva fuori durante le riunioni sulla tecnica narrativa, mentre raccontavo diversi aneddoti sulla vita di Claudia, anche diversi pensieri che mi aveva dedicato accanto al suo camino, durante una delle nostre innumerevoli discussioni letterarie. Se Claudia avesse saputo di quello sguardo, di quella trepidazione, forse mi avrebbe attaccato con molta durezza o invece, al contrario, sarebbe rimasta colpita ed emozionata. In fondo la mia amica, che sentivo una vera scrittrice – anche se non avevo letto mai un suo rigo e anche se a sua detta non avrebbe mai scritto nemmeno un rigo –, era il mio faro letterario. Dentro di me, in una zona turbinosa e profonda, avvertivo il desiderio di essere come lei. Di emanare le sue stesse risonanze, anche senza tracciare un solo rigo su di una delle pagine delle risme luminose che di buon mattino mi attendevano sul tavolo di legno azzurro, accanto alla finestra. Avrei voluto vampirizzare la sua vena artistica, che non avevo mai trovato in nessun’altra persona della mia vita, e che forse era l’unico elemento che mi aveva trascinato nell’abisso e nella maledizione della scrittura.

    Tra le domande dei soci che lessi in treno, durante il viaggio verso il paese di Claudia, ve ne erano delle più svariate, alcune facevano tenerezza, altre impressione, per quanto arrivassero a sondare nel desiderio dell’abisso dello scrivere nel riscrivere, ma soprattutto del cesellare, limare o destrutturare, se non sabotare, a livello ossessivo, la propria idea di scrittura. «La limatura ossessiva» scriveva Oreste: «È quella l’arte pura dello scrittore, o lo è invece la zona selvatica, anarchica del primo getto?». E poi, altre riflessioni e domande: «Quando si decide il punto da mettere al racconto? Che cosa ci fa capire che la storia sia davvero finita? Devo saperlo prima di cominciare, o deve accadere qualcosa, nel mentre della mia scorsa creativa, che mi ferma e mi dice basta?». E ancora altre domande: «Devo prefissare un limite di caratteri, già durante il primo getto, il più anarchico, entro cui contenere tutto ciò che sento di raccontare? O devo lasciare andare la fiammata dell’invenzione fino a quanto duri, e poi, solo dopo, con il lavoro ossessivo della limatura, riportare il primo getto senza forma nella configurazione del racconto breve, brevissimo, ultra-breve, che lo riporti a un suo naturale compimento?». E poi: «È possibile scrivere un racconto di un solo rigo? Di una sola frase? Un racconto di cinque parole? O anche solo di tre parole? Esistono casi del genere in letteratura? Per i racconti di una brevità estrema, oltre il limite del possibile, si potrebbe ipotizzare che la loro natura, in origine, non fosse ultra-breve, ma che lo sia diventata, dopo una serie di trasformazioni, di rielaborazioni ossessive o possibili aberrazioni, legate sempre all’arte della limatura e del cesellare infinito?».

    «Un vero scrittore di racconti brevi» chiedeva ancora un altro socio «dovrebbe essere soprattutto un bravo cesellatore, un individuo sensibile all’arte della limatura, quindi? Un vero e bravo cesellatore potrebbe non essere necessariamente un vero e bravo scrittore? È possibile esprimersi con l’arte della scrittura nella sola capacità di espandere i propri pensieri all’infinito, ma non essendo poi capaci di limarli e di contenerli – se non di confinarli – nei getti successivi? In quel caso ci si può definire ancora scrittori? Uno scrittore incapace di espandere i suoi pensieri all’infinito, ma che sia straordinario nel limare e nel cesellare la materia povera che è riuscito a creare, potrebbe ancora definirsi uno scrittore o sarà solo un cesellatore?» Un altro socio, entrando in dinamiche ancora più complesse: «Come si fa a distinguere, tra gli scrittori specialisti del racconto breve, coloro che non hanno molto da dire e che si fermano per una loro limitazione, rispetto agli altri, che riescono a dire molto in pochissimo spazio, dove la loro fermata corrisponde al pregio intrinseco alla loro arte? Quando la brevità è pregio e non limitazione?». E poi, uno dei soci più anziani quanto accaniti: «Che cosa distingue la tendenza amatoriale, in una scrittura, rispetto alla professionale? Esistono casi di talenti che scrivono e scriveranno sempre in modo amatoriale, e scrittori poco dotati e creativi che scrivono e scriveranno sempre in modo professionale? Dove si riconosce il punto di non ritorno, quando qualcosa, per un piccolo particolare trascurato fin dall’inizio, precipiterà per sempre nell’abisso dell’amatoriale? Funziona allo stesso modo delle compagnie teatrali?». E un altro: «Se qualcuno mi considerasse un amatore del racconto breve, un dilettante del racconto breve, brevissimo o ultra-breve, io non esiterei: mi impiccherei alla trave della mia camera da letto, nella mia casa in alta montagna, la stessa dove ho scritto i miei primi racconti brevi, e dove li ho revisionati, cesellati e limati per intere giornate, alla luce tenue di una candela, con lo sguardo alle montagne, immobili e antiche, che hanno assistito alla mia furia e alla mia completa disperazione, per il fatto che i miei racconti, cesellati alla perfezione, non sarebbero, forse, mai stati letti da nessuno, se non dal silenzio terrificante dei crinali violacei che spiccavano dalla mia finestra, fino all’imbrunire e oltre la notte. Allo stesso modo, nell’ipotesi di un fallimento così spaventoso, cesellerei con la stessa premura il racconto breve del mio suicidio».

    Dopo l’ultimo messaggio a Claudia chiusi gli occhi, un po’ sfinito e pensai a quanto ci fosse di me in ognuna delle domande, riflessioni, curiosità e paturnie dei soci più accaniti dell’associazione sul racconto breve, pensieri scritti che la stessa sera avrebbero brillato sotto lo sguardo della mia celebre amica, chissà con quali reazioni da parte sua. In ciascun pensiero vi era davvero una linea d’ombra, sottile e ancora segreta, che mi apparteneva nel profondo. Ne ero quasi certo. Poi mi addormentai, con diversi fogli di domande ancora sulle ginocchia.

    Durante il viaggio in treno, pensai a quello che avrei davvero voluto dalla mia vita per sentirmi compiuto. La stessa domanda l’avevo sentita fare a Claudia, un pomeriggio in cui ero a riposare e fuori nevicava e lei era in cucina con il suo collega di disegno. Io ero nel sonno, nella mia camera, e nel sonno avvertivo soprattutto la neve e poi, dentro la fioccata, la voce drammatica del collega di disegno di Claudia che cercava di rispondere. Ma io ero anche nella realtà e nel silenzio spaventoso del pomeriggio della casa di Claudia, in pieno inverno, mentre affiorava la voce del collega di disegno, che avvertivo e che a sua volta conteneva il sottofondo calmo della fioccata. A cavallo tra i due stadi, le parole che si dicevano Claudia e il suo collega di disegno erano le stesse, sia se percepite dalla prospettiva della neve, quindi della fase più sognante, sia dalla prospettiva della voce del collega, quindi della fase più reale. Claudia parlava anche di un antidoto dell’arte, che rappresentava anche il pericolo. L’antidoto e il pericolo in diversi casi corrispondevano. Il collega ogni tanto diceva qualcosa. Chiedeva del silenzio traboccante del paese, un silenzio che faceva pensare troppo e che soffocava. Soffocava l’aria della mente. «L’antidoto» diceva Claudia «era il pericolo, come il pericolo era l’antidoto» e il collega a un certo punto tossiva forte, come tossiva forte Peter, su al palazzo, nel mondo così più ordinario della contrada. «È una forma di infelicità» sentivo dire, quasi in un sussurro, dalla voce di Claudia, disposta nell’anticamera della disperazione. «Forse si era ancora in tempo» gli diceva ancora Claudia, se il collega avesse trovato la forza, entro le prossime ore, di trasferire sulla carta i suoi pensieri inespressi e contorti, che forse non riusciva a trasmettere con la sua voce. «Da solo non riesco» sentivo dire dalla voce angustiata del collega di disegno a Claudia, che taceva per lungo tempo, e nel suo tacere per lungo tempo io ristabilivo, dal mio cantuccio e dentro le coperte di lana in cui ero avvolto, un contatto profondo con la fioccata, che continuava e ammantava di bianco e di poesia il paese. Io rimanevo a letto, per ascoltare ancora il loro discorso, fino all’ultimo istante di orrore e di fascino. Se mi fossi alzato e mi fossi recato in cucina, ero certo che non avrebbero più continuato in mia presenza, e allora non avrei più saputo nulla della natura misteriosa del colloquio tra Claudia e il suo collega di disegno, che era ricco di spunti che mi sarebbero ritornati preziosi.

    In quel periodo ero paralizzato dalla sensazione di inadeguatezza rispetto ai miei desideri d’arte. Speravo, oltre a scrivere un raccontino molto breve, ma che fosse pieno di oro, quindi molto luminoso e che valesse e che valesse oro quanto ne vale un grande romanzo e che facesse invidia agli occhi dei lettori, ma soprattutto degli scrittori della mia piccola associazione del racconto breve, brevissimo o ultra-breve – come avrebbe

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