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I tedeschi
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I tedeschi

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Premio Josef Škvorecký 2013
Premio Libro Ceco dell’Anno 2013
Nomination Magnesia Litera categoria Prosa 2013

Per anni una famiglia praghese riceve dei pacchetti di piccoli doni, dolciumi, orsetti gommosi. Li manda Klara Rissmann dalla Germania Ovest, e li manda al figlio, da cui si è separata poco dopo la sua nascita, alla fine della guerra. Konrad infatti è cresciuto con un’altra donna, Hedvika, che fino all’età adulta ha creduto essere la sua vera madre. Dopo la morte dell’uomo, sua figlia decide di rintracciare gli sconosciuti parenti tedeschi, alla ricerca della verità su quel trauma famigliare originario. Con lei ripercorreremo tutta la vita di Klara, immersa nel flusso spesso tragico della storia tedesca ed europea del Novecento.
Jakuba Katalpa riesce con I tedeschi nella non facile impresa di essere originale in una materia su cui è stato scritto molto. Da un lato, il punto di vista è quello dei “ tedeschi ”: chi sono, cosa fanno, cosa pensano in quegli anni in cui da dominatori e degni nipoti dei Buddenbrook si ritrovano allo sbando, come individui e come popolo? Da un altro, i protagonisti che emergono con una forza plastica straordinaria dalla narrazione, scorrevole e cronachistica, sono figure epiche più che storiche, di un’epica famigliare in cui a tratti possiamo riconoscere quella di ogni famiglia, se pensiamo alle vicende dei nostri padri, nonni e bisnonni di quegli anni difficili. 
Assistiamo così all’incompleta ricostruzione di una “ geografia della perdita ”, come recita il sottotitolo. Tutti perdono qualcosa, e sembrano destinati a perdere, sono colpevoli e vittime nella complessa giostra della vita. Una perdita spesso legata alla maternità –  è un romanzo di donne e di madri: buone, cattive, mancate e defraudate – e alla memoria, che svanisce, perlopiù senza rimedio, tra le cose non dette e la cattiva coscienza.
LanguageItaliano
Release dateFeb 18, 2021
ISBN9788833861326
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    I tedeschi - Jacuba Katalpa

    Tavola dei Contenuti (TOC)

    I • Le bretelline

    Il funerale

    La tristezza

    Le bretelline

    La telefonata

    Pottsau

    La vacanza

    Il dolce di pesche

    Klara

    Gertrude

    La crepa

    II • La bella Germania. Primi passi

    La nascita

    La paura

    Il fratello

    L’eroe

    La morte

    Lo studio del nonno

    III. La bella Germania. Uomini

    Il giovanotto

    La timidezza

    1931, fenditure temporali

    1932, frammenti dal finestrino del treno

    1933, fenditure temporali II

    1934, frammenti dal finestrino del treno II

    1935, fenditure temporali III

    La promessa

    R. H.

    IV. La bella Germania. L’innamorato

    Il profumo

    Horst

    I gamberi e lo smoking a nolo

    Mit zähem Willen3

    L’ebrea

    La patria

    La viltà

    V. La bella Germania. Crepe

    Quasi vedova

    Il revolver

    La confusione

    La macchia

    L’assegnazione

    Rzy6

    VI. Rzy. La camera nella mansarda

    Lo scherzo

    La bevuta

    Il gesso

    Fuchs

    Il regalo

    La forestiera

    Lontano dal fronte

    La lingua

    La solitudine

    Lo scorticatore

    Il teatro

    Il sipario

    Malke

    Il bosco famelico

    La proposta

    La malattia

    La lezione di letteratura

    L’unione

    Il castello

    Melman

    Il buon consiglio

    Il precipizio

    Weissmann

    La biblioteca

    Il treno

    Tacere

    L’aggressione

    Il consulto

    Il dolore

    Le finestre

    Impenetrabilità

    Una bellezza

    La curiosità

    L’olfatto

    Sott’acqua

    La domanda

    La scoperta

    Il padre

    La decisione

    La radio

    Il fuoco e lo spazio vuoto sulla mascella

    Piantare

    La ferita

    VII. Rzy. De profundis

    Il braccio

    VIII. Rzy. La partenza

    Le sorelle

    Il podere

    Il declino

    Il vuoto

    La famiglia

    La disgregazione

    La sorpresa

    La rete di parole

    La primavera

    La tenerezza

    Il trasporto

    La partenza

    Il tesoro sul fondo

    Anna Gerling

    Il bambino

    Il desiderio

    La rivelazione

    Il ricordo

    La resistenza

    La maestra

    Il piano

    L’inizio

    IX. Le madri

    Il puzzle

    Il morso

    Il pacchetto

    La geografia della perdita

    Il movimento che ha increspato l’aria

    NováVlna

    ( 12 )

    © Jakuba Katalpa, 2012

    © Host vydavatelství, s.r.o., 2012

    © 2019 Miraggi edizioni, Torino

    www.miraggiedizioni.it

    Titolo originale dell’edizione ceca:

    Němci (Host, Brno 2012)

    Translation of this book was realized with

    the support of the Ministry of Culture

    of the Czech Republic

    Ringraziamo il Ministero della Cultura

    della Repubblica Ceca per il sostegno

    alla traduzione e alla pubblicazione

    Progetto grafico Miraggi

    Finito di stampare a Chivasso nel mese di febbraio 2021

    da A4 Servizi Grafici per conto di Miraggi edizioni

    su Carta da Edizioni Avorio – Book Cream 80 gr

    e Carta Fedrigoni Woodstok Materica Chalk 180 gr

    Prima edizione digitale: febbraio 2021

    isbn

    978-88-3386-132-6

    Prima edizione cartacea: febbraio 2021

    isbn

    978-88-3386-129-6

    Dalla quarta di copertina

    Per anni una famiglia praghese riceve dei pacchetti di piccoli doni, dolciumi, orsetti gommosi. Li manda Klara Rissmann dalla Germania Ovest, e li manda al figlio, da cui si è separata poco dopo la sua nascita, alla fine della guerra. Konrad infatti è cresciuto con un’altra donna, Hedvika, che fino all’età adulta ha creduto essere la sua vera madre. Dopo la morte dell’uomo, sua figlia decide di rintracciare gli sconosciuti parenti tedeschi, alla ricerca della verità su quel trauma famigliare originario. Con lei ripercorreremo tutta la vita di Klara, immersa nel flusso spesso tragico della storia tedesca ed europea del Novecento.

    Jakuba Katalpa riesce con I tedeschi nella non facile impresa di essere originale in una materia su cui è stato scritto molto. Da un lato, il punto di vista è quello dei tedeschi : chi sono, cosa fanno, cosa pensano in quegli anni in cui da dominatori e degni nipoti dei Buddenbrook si ritrovano allo sbando, come individui e come popolo? Da un altro, i protagonisti che emergono con una forza plastica straordinaria dalla narrazione, scorrevole e cronachistica, sono figure epiche più che storiche, di un’epica famigliare in cui a tratti possiamo riconoscere quella di ogni famiglia, se pensiamo alle vicende dei nostri padri, nonni e bisnonni di quegli anni difficili.

    Assistiamo così all’incompleta ricostruzione di una geografia della perdita , come recita il sottotitolo. Tutti perdono qualcosa, e sembrano destinati a perdere, sono colpevoli e vittime nella complessa giostra della vita. Una perdita spesso legata alla maternità – è un romanzo di donne e di madri: buone, cattive, mancate e defraudate – e alla memoria, che svanisce, perlopiù senza rimedio, tra le cose non dette e la cattiva coscienza.

    Alessandro De Vito

    Biografia dell'autrice

    Jakuba Katalpa (1979) è una delle più importanti autrici ceche contemporanee. Ha studiato psicologia, media e letteratura ceca. Dopo due raccolte di racconti, ha debuttato nel 2006 con la novella Je hlína k snědku? (La terra si può mangiare?). Del 2009 è il romanzo Hořké moře (Mare amaro).

    Con I tedeschi (2012), ha avuto un grande riscontro di pubblico e ha ricevuto il Premio Josef Škvorecký, il Premio Libro Ceco del 2013 ed è stata nominata per il Premio Magnesia Litera nella categoria Prosa.

    Nel 2017, Jakuba Katalpa ha pubblicato un elaborato romanzo a più livelli sul presente, Doupě (La tana). Con il suo ultimo lavoro, il romanzo Zuzanin dech (Il respiro di Zuzana, 2020), è tornata al tema storico.

    I • Le bretelline

    Era nell’aria.

    Konrad Mahler

    Fino a una certa età la

    correzione è ancora possibile.

    prof. Arnold Pavlík

    Il funerale

    È tutta qui la questione, se invitare al funerale anche i parenti tedeschi.

    Presto si vedrà che la cosa turba solo me, i miei fratelli hanno le idee chiare.

    Martin, che stamattina è arrivato in volo dagli Stati Uniti, ha l’aspetto stanco. Indossa dei jeans consumati e un giubbotto di tela, ha gli occhi gonfi perché non ha dormito abbastanza. Sorseggia del caffè, la mano poggiata sul foglio bianco listato di nero che ha portato Daniel.

    « Non li possiamo invitare » dice. « Papà non sarebbe certo d’accordo. »

    « Come fai a saperlo? » chiedo.

    « Ormai è tardi in ogni caso » dice Daniel conciliante. « Non farebbero in tempo ad arrivare. »

    Siamo soli nel ristorante dell’albergo, gli ospiti hanno già finito di far colazione e i camerieri sparecchiano in silenzio.

    « Qualcuno dovrebbe dirglielo, che papà è morto » dico.

    Del funerale di nostro padre si sta occupando Daniel, è l’unico di noi a essere rimasto in Boemia. Si è laureato in medicina e lavora nel reparto di ortopedia dell’ospedale universitario; quando ho scoperto che Dorotka è nata con un difetto articolare le sue lunghe telefonate mi hanno tranquillizzata.

    « Lo verranno a sapere dall’avvocato » risponde Martin.Con papà aveva un rapporto più stretto di noi. Dalla California, dove vive, gli mandava delle bottiglie di vino rosso, per rafforzare il cuore. L’aritmia cardiaca di papà lo spaventava, temeva che ne sarebbe morto, cosa che in effetti è successa, nonostante il cardiostimolatore che gli hanno impiantato qualche mese fa.

    Sto zitta; so che non ha senso combattere con Martin, vince sempre. Già quando eravamo bambini doveva avere l’ultima parola.

    « La cerimonia comincia alle undici » dice Daniel. « Dovrebbe durare una mezz’oretta. Le ceneri ce le consegneranno tra due giorni. Ovviamente lo metteremo accanto a mamma. »

    Mamma è morta poco dopo la laurea di Daniel, per un cancro al seno. Papà aveva risentito molto della sua morte, e qualche giorno dopo il funerale aveva cominciato a lamentare dei problemi al cuore, respirava affannosamente e gli formicolava il braccio sinistro.

    « Potevamo almeno mandargli la partecipazione » dico.

    Martin si arrabbia. Fa un movimento brusco con la mano e urta la tazza di caffè.

    « Papà è morto, cazzo! » grida. « E tu ti preoccupi di quei maledetti crucchi! »

    Daniel prende dei fazzolettini di carta e asciuga il caffè rovesciato.

    « Cerchiamo di calmarci. Non serve a niente litigare. »

    Solleva la partecipazione e l’asciuga, poi chiama con lo sguardo il cameriere.

    « Prendo un tè. Tu, Martin? »

    Martin ordina una vodka, io un bicchiere di bianco.

    Siamo a marzo del 2002 e sto per affrontare il mio secondo funerale. Il primo è stato quello di mamma. Allora ero arrivata dall’Inghilterra, con un tailleur nero e un cappello che da noi sembrava fuori luogo.

    Nella sala delle cerimonie l’aria era secca, e mi era uscito il sangue dal naso.

    Ho saputo della morte di papà tre giorni fa, quando il telefono ha squillato ero appena tornata dalla spesa e stavo mettendo in frigo il cartone del latte.

    È morto per strada, tornando dal medico. Quando è arrivata l’ambulanza non respirava già più; hanno provato a rianimarlo per qualche minuto, poi l’hanno portato direttamente all’obitorio dell’ospedale.

    Mentre me lo raccontava Daniel piangeva, io sono rimasta impietrita davanti al frigo aperto, senza riuscire a realizzare che fosse morto. Alla fine ho messo giù il cartone del latte e sono andata nella cameretta, sempre col telefono incollato all’orecchio, all’altro capo mio fratello singhiozzava. Mi sono seduta e ho preso in grembo Dorotka, sei mesi, mi sono sbottonata la camicetta e le ho dato il seno; ho allattato mia figlia, ascoltando il resoconto di Daniel della morte di papà. La bocca di Dorotka mi calmava, l’odore del latte e del borotalco mi rassicurava che in realtà nulla fosse cambiato, ero a Londra e tenevo in braccio la mia bambina; ero lontano da Praga, dove il cuore di mio padre si era fermato.

    Daniel infine si è placato e ha cominciato a ragionare, ha parlato del funerale. Dopo che ci siamo salutati ho aperto l’acqua nella vasca e ho fatto un bagno con Dorotka; la facevo galleggiare e piangevo.

    La sera, con Peter, abbiamo aperto una bottiglia di vino. Stavo seduta sul tappeto e gli ho raccontato di mio padre, dell’amarezza di cui era stata piena la sua vita, della sfiducia che nutriva nei confronti del prossimo. Andare d’accordo con lui non era facile, era lunatico e suscettibile, cadeva spesso in accessi d’ira durante i quali rompeva ogni cosa intorno a sé, altre volte era di un umore lamentoso e ci abbracciava tutti con commozione, chiedendoci se gli volessimo bene.

    Non c’è da stupirsi che siamo fuggiti tutti in tutte le direzioni, prima e il più lontano possibile, io in Inghilterra e i miei fratelli ancora più distante, Martin in America e Pavel in Australia. Solo Daniel, il più giovane, è rimasto a casa.

    Sentivamo nei suoi confronti uno strano ed estenuante amore; anche lui ci amava alla stessa maniera. Con Martin andava a pescare e con Pavel costruiva aeroplani di carta. A me aveva comprato il tanto sospirato acquario e mi accompagnava regolarmente ai mercatini, dove scambiavo dei pesci rossi per dei guppy e viceversa. Con Daniel andava a fare fotografie, gli aveva persino comprato una macchina fotografica costosa e insegnato a sviluppare le foto.

    Malgrado questo c’erano giorni in cui era meglio stargli alla larga. Dal nulla si rattrappiva tutto, si chiudeva in camera da letto e rifiutava di uscirne, mamma gli lasciava da mangiare dietro la porta.

    Dovevamo restare vigili, sempre all’erta, perché vivere con lui era come camminare su uno stagno gelato, non avevamo idea di quanto il ghiaccio sotto i nostri piedi fosse resistente. A volte ci potevamo permettere qualsiasi cosa ci passasse per la testa, e papà si limitava a sorridere condiscendente, in altre occasioni bastava una parola fuori posto a incrinarlo, si metteva a strillare e se ne andava sbattendo la porta.

    Il peggio era quando dalla Germania arrivavano quei pacchetti.

    « Scrive di nuovo, la troia » diceva di solito con scherno.

    Parlava di sua madre.

    I pacchetti giungevano a intervalli irregolari al nostro indirizzo di Praga. Qualche volta erano aperti, accadeva quando il loro contenuto veniva ispezionato in frontiera. Il più delle volte erano intonsi, imballati nella loro carta marrone e muniti di una sfilza di francobolli colorati, che tra fratelli ci contendevamo.

    Quando ho raccontato per la prima volta di quei pacchi a mio marito, non ho potuto fare a meno di ridere del suo sguardo intenerito. Peter è cresciuto a Londra, e adora le storielle che vengono dal blocco orientale; molte delle cose che gli racconto gli fanno un effetto comico – e capita anche a me, quando riesco a osservarle da una certa distanza e so che ormai non capitano più a nessuno – i sabati lavorativi obbligatori, i cortei del Primo Maggio, le uniformi dei Pionieri, le vacanze aziendali. Sapevo che immaginava dei bambini denutriti che si avventavano sui dolciumi esotici che qualcuno inviava loro da un mondo ignoto, da una favola. Forse era davvero così, salvo che non eravamo denutriti; eravamo bambini rapaci di un quartiere popolare, in tuta e scarpe da ginnastica di tela.

    I pacchetti di solito contenevano dei dolci, cioccolata, marmellate in barattoli di lusso, nutella. Non c’erano mai né libri né medicine. Erano come dei pacchetti di San Nicola, destinati principalmente ai bambini.

    E dopo la caduta della cortina di ferro, il loro afflusso era cessato.

    « Sarà necessario passare in rassegna le sue cose » dice Daniel. « Gettare i vestiti, mettere in ordine i libri. »

    Mi offro di farlo io.

    Papà è rimasto nella casa in cui siamo cresciuti. Dopo essermene andata in Gran Bretagna gli ho fatto visita diverse volte, e col tempo mi sono resa conto che non avrebbe cambiato nulla nel suo appartamento, gli stavano bene la formica, le sedie rivestite di similpelle e la moquette economica nell’ingresso; nella vecchia cameretta aveva lasciato persino i letti a castello in cui dormivamo con i fratelli, e i poster ritagliati dalle riviste.

    Non potevo dormire in quella casa; ogni volta che venivo a Praga andavo a stare da conoscenti o in albergo.

    « Non aveva granché » dice Daniel. « Ti ci vorrà poco. »

    Dopo non apre più bocca nessuno. Martin paga il conto e va a riposare nella sua stanza. Daniel torna in ospedale, io mi tuffo nelle vie di Praga, con la sensazione di non averle mai lasciate. Forse Praga la confondo con Londra, ci sono gli stessi negozi e ristoranti, la pavimentazione lustrata al mattino, i gruppetti di turisti.

    Attraverso il ponte Carlo. Una volta ci ho perso un anello, da allora guardo nelle fessure tra le pietre per cercarlo.

    A Kampa mi siedo su una panchina.

    Non c’è nessuno.

    Inclino la testa all’indietro, gli alberi a marzo sono ancora spogli.

    Al pomeriggio faccio un salto al McDonald e prendo delle patatine fritte. Mi dirigo verso Dejvice passando per Hradčany, vado dalla mia amica Tereza. Dato che ho avuto un lutto si comporta molto gentilmente nei miei confronti; come se la morte di mio padre avesse fatto di me una persona diversa, come se a causa della sua dipartita fossi diventata fragile e più vulnerabile; non ho il coraggio di dirle che mi sento triste ma anche sollevata, perché non dovrò più ascoltare le osservazioni ironiche di mio padre, mi sono liberata per sempre del senso di colpa che mi assaliva ogni volta che inveiva contro sua madre, nonna Rissmann, che ci mandava wafer e cioccolato dalla Germania.

    La tristezza

    Dopo la cerimonia, davanti al crematorio si trattengono alcuni conoscenti di papà.

    Sono gli ex colleghi della Čkd¹, e i compagni del circolo degli scacchi. Aspettano il rinfresco, ma Daniel, con un’aria smarrita, alza le spalle:

    « Non ho ordinato nulla. »

    Pian piano si allontanano, senza pensarci li conto, cinque uomini e una donna col bastone, tutti in nero e abbattuti, ma appena attraversano il cancello del cimitero raddrizzano le spalle e la loro camminata torna energica.

    Siamo rimasti di nuovo noi tre, Pavel è ricoverato in ospedale a Melbourne per un’operazione alla cistifellea.

    Martin affonda le mani nelle tasche, si è sforzato di non piangere per tutta la funzione, ma ora gli tremola il mento. Alza la testa, dal camino del crematorio sale un sottile filo di fumo.

    « Credete che sia lui? » chiede.

    « No » rispondo con decisione.

    L’idea di poter respirare delle particelle di mio padre mi fa star male.

    « Andiamo » dico.

    « Dove? »

    « A mangiare. »

    Porto i miei fratelli, stupiti, al ristorante che ho adocchiato già ieri. Ordino l’anatra arrosto, e solo quando la portano mi accorgo di quanto sia fuori luogo; stacco un pezzetto di carne e comincio a ridere; penso al forno del crematorio e al corpo rigido di papà.

    Mangiamo con sorprendente gusto e Martin beve parecchio, ha imparato in California, dove il consumo di vino e di acqua si equivalgono.

    Parliamo di papà, riportiamo alla luce le piccole ingiustizie e ci confessiamo i piccoli sotterfugi con cui da bambini cercavamo di guadagnarci i suoi favori.

    Ridiamo, di tanto in tanto a qualcuno di noi si spezza la voce. Ci sentiamo vicini e al sicuro, più che altro per il fatto che tra qualche giorno ci lasceremo di nuovo, ci separerà l’oceano, diventeremo estranei, fratelli telefonici.

    Martin ricorda la volta che papà per sbaglio aveva preso del Roipnol. Aveva mal di testa, e dato che non prendeva mai medicine e mamma non era a casa, aveva deciso di curarsi da solo. Aveva inghiottito tre pillole e si era addormentato in cucina sul piatto col pranzo, lottando invano contro la sonnolenza.

    Quell’aneddoto lo ricordo, ma in modo diverso da Martin. Il giorno prima eravamo stati da nonna Hedvika e da lì ci eravamo portati via uno di quei pacchetti che nonna Rissmann mandava al suo indirizzo. Era pieno di orsetti gommosi e monete di cioccolato. Papà, che non si prendeva mai niente da nessun pacchetto, quella volta si era svegliato dal sonno del Roipnol, intontito e di ottimo umore, si era appoggiato il pacchetto della nonna in grembo e l’aveva mangiato tutto fino all’ultimo pezzetto. Ci avevo pianto molto, e a lungo non gliel’ho potuto perdonare, adoravo gli orsetti gommosi, e non me ne aveva lasciato neppure uno.

    Quando usciamo dal ristorante comincia a scendere una pioggerella fina. Martin si tira il cappuccio sulla testa e si preme contro il fianco la borsa con le sue cose. Cammina con passo lento e pesante, mi accorgo che ha messo su peso, si è fatto più rotondo e pigro. Qualche anno fa si è sposato, ha una figlia di sei anni in California. Qualche volta ci telefoniamo. Sua figlia sa qualche parola di ceco, sua moglie parla solo inglese. Non ci siamo mai incontrate, la conosco solo dalle fotografie.

    Martin si ferma davanti all’ingresso della metro.

    « Se dovessi trovare qualcosa di interessante tra le cose di papà, » dice, « me lo fai sapere? »

    Annuisco.

    Ci abbracciamo. Daniel dà la mano a Martin. Lo guardiamo che sparisce nell’atrio della metro, all’edicola si compra un giornale e il biglietto. Riparte domattina, non si è fermato nemmeno tre giorni.

    « Idiota » dice Daniel.

    So come la pensa. Martin ha sempre tenuto le distanze nei nostri confronti. È stato il primo ad andarsene, appena finita l’università. Si è sposato presto, non ha invitato nessuno di noi al matrimonio, supponendo probabilmente che un volo transoceanico per noi sarebbe stato un problema insormontabile.

    « Non è cambiato » dico.

    « È più grasso » obietta Daniel.

    Mi fa piacere che l’abbia notato anche lui. Mi appoggia una mano sulla spalla.

    « Ci facciamo un bicchiere? »

    « Non dovrei bere così tanto » dico. « Allatto ancora. »

    « Finché arrivi a casa l’hai pisciato tutto. »

    Esito.

    « Puoi credermi, sono un medico » cerca di convincermi.

    « Ma sì. »

    Prendiamo una bottiglia in una piccola vineria non lontano dalla stazione. Di tanto in tanto Daniel guarda l’orologio.

    « Pensi che l’abbiano già cremato? »

    « Non lo so. »

    La tristezza si riversa tra noi in modo bizzarro, non riusciamo a essere in lutto insieme. Ci alterniamo nel ruolo di chi piange e di chi consola; ora è il turno di Daniel, che tira fuori di tasca un fazzoletto e si asciuga gli occhi. Quando si ricompone, ordina un’altra bottiglia.

    « Sai che fanno delle promozioni sulle urne? » mi chiede.

    « Che promozioni? »

    « Come al supermercato. Paghi uno e prendi due. »

    Resto a bocca aperta.

    « Due urne? »

    « Proprio così no. Ma magari ti danno una cornicetta per la foto o ti fanno uno sconto per la teca di vetro nel colombario. »

    « Affari » dico. « E a te cos’hanno dato? »

    Tira fuori una penna a sfera e un’agenda, me le avvicina. Sulla penna c’è scritto Pietas e l’indirizzo dell’agenzia funebre, l’agenda è nera, in finta pelle.

    « Forte! » dico.

    « Già. »

    Prima di uscire mi dà le chiavi dell’appartamento di papà a Řepy.

    « Butta tutto quello che puoi » mi dice. « Ho comprato dei sacchi di plastica, sono nell’ingresso. »

    Annuisco.

    « Per i libri verrà uno che conosco, del resto si occuperà l’impresa di pulizie. »

    « Va bene. »

    « Ti aiuterei, » dice, « ma non mi hanno dato il giorno libero. »

    « Ce la farò. »

    Mi bacia sulla guancia e scompare nella metro. Torno a casa di Tereza a piedi, attraverso mezza città, mi ci vogliono quasi tre ore. Lungo il percorso il vino che abbiamo bevuto con Daniel man mano evapora, resta solo una leggera acidità d’uva sul palato e una tristezza indefinita, una nostalgia.

    Le bretelline

    Sono due giorni che sgombero le cose di papà: vestiti, documenti e libri.

    Riempio metà dei cassonetti della strada, lo faccio strisciando di nascosto la notte, per non far arrabbiare i vicini, che pagano diligentemente per il ritiro dei rifiuti. Mangio toast che mi preparo nella sua cucina, riempiendoli di tutto ciò di cui mi viene voglia, salame, pomodori, edam, maionese. La sera, col mal di pancia e un senso di nausea, chiamo Peter a casa e lo costringo a passarmi al telefono Dorotka, e lontano da lei provo a cogliere il suo riso.

    « Dopodomani sono a casa » dico a Peter.

    « Va bene. »

    Mi avverte che forse Dorotka non vorrà il mio latte, si è troppo abituata a quello in polvere che le prepara. Mi dispiace, allattare mi tranquillizza.

    Saluto Peter di malavoglia, devo dormire, domani mi aspetta l’ultimo giorno nella casa paterna.

    Le bretelline le trovo sul fondo del guardaroba, sotto dei logori pantaloni di velluto a coste verdi e un maglione fatto a maglia. Sono molto sciupate, con delle fibbie di metallo e un pezzetto di tessuto lanoso cucito nel punto dove toccano i fianchi del bambino. Ricordano delle giarrettiere; si tratta di un ausilio sanitario, lo so solo perché Dorotka ne portava di simili.

    Uno strumento di tortura che costringe i bambini con l’articolazione dell’anca non ben sviluppata a tenere le gambe divaricate. Le poso e vado in cucina. Mi siedo al tavolo con un bicchiere d’acqua. Sapevo che papà era nato con la displasia all’anca, ma non ci avevo mai riflettuto in modo particolare; solo quando Dorotka ha sofferto della stessa cosa mi è venuto in mente che fosse ereditario; ho chiesto a Daniel, e mi ha confermato che in una certa misura era così.

    Per fortuna le articolazioni di Dorotka sono tornate presto al loro posto, le teste dei femori si sono inserite nelle cavità articolari e dopo quattro mesi abbiamo potuto mettere via il tutore di pelle. Ho provato una gratitudine immensa, nell’ospedale dove andavamo con lei ho visto bambini che a causa di quel difetto dovevano restare appesi in un sistema di carrucole e pesi.

    Non è la prima volta che vedo le bretelline di papà. Da bambini, giocando agli indiani, le usavamo come bardatura e per incatenare le mani, ci legavamo i peluche.

    Non avevo idea che le avesse conservate. Hanno almeno cinquant’anni, è uno dei primi modelli utilizzati per correggere quel difetto articolare. Le tengo un po’ in mano, poi le infilo nel sacco della spazzatura, l’ultimo, con cui vado furtiva ai cassonetti. Alla fine chiudo a chiave l’appartamento, che Daniel nei prossimi mesi metterà in vendita.

    Nel pomeriggio andiamo al cimitero a tumulare l’urna con le ceneri di papà. Restituisco le chiavi a Daniel.

    « Hai una foto? »

    Annuisce. Sistemiamo la foto ricordo di papà in una cornicetta, e l’appoggiamo all’urna. Richiudiamo la porticina vetrata della celletta cineraria, e ci soffermiamo lì davanti per qualche minuto. Nel ritratto il volto di papà è inespressivo, realizzo che Daniel ha fatto ingrandire la sua foto del passaporto. Mamma sorride dalla foto appoggiata all’urna di fianco, è una foto a figura intera, in piedi in un parco con un abito a pois, non avrà vent’anni, nessuno di noi era ancora nato.

    « Sembra la foto della maturità » dice Daniel.

    Pian piano ce ne andiamo, lui torna in ospedale, io a Dejvice, a fare i bagagli e prepararmi per la partenza di domani. La metro arriva subito, appena il vagone si muove, chiudo gli occhi. D’un tratto penso che non è rimasto più nessuno che mi abbia conosciuto da piccola, forse Martin o Pavel, ma erano bambini anche loro quando sono venuta al mondo, difficilmente si ricorderanno dei miei primi passi o delle mie prime parole.

    Provo angoscia, devo aprire gli occhi e tenermi alla sbarra davanti a me; pensi troppo e vivi poco, mi ha detto Martin una volta, forse aveva ragione. Ma non posso farci niente, dentro di me devo esaminare e toccare con mano, fare mia e dare un’etichetta a ogni cosa che incontro.

    Ho studiato traduzione, dal tedesco e dall’inglese, una lingua non mi bastava. Ogni giorno uscivo dall’appartamento nel casermone di Řepy per andare in centro a prendere appunti nelle aule sovraffollate dell’università. L’anno prima della laurea sono partita per un soggiorno studio a Cambridge, e lì ho conosciuto Peter. Ci siamo scambiati gli indirizzi e nel 2000 ci siamo sposati e trasferiti a Londra. Ho lavorato per un breve periodo in una piccola casa editrice, e quando si è presentata la possibilità di essere assunta in una delle più prestigiose riviste di economia, l’ho colta al volo. Fortunatamente la lingua e la matematica seguono entrambe la logica, e dato che ho sempre avuto un’attitudine per le lingue, sono riuscita a inserirmi presto nel mondo dei numeri e delle notizie di borsa; ricevevo informazioni dagli analisti finanziari, le traducevo in una lingua comprensibile e redigevo gli articoli, che poi mandavo ai revisori di bozze.

    Scendo al capolinea, attraverso lo stradone e costeggiando il blocco di palazzi raggiungo casa di Tereza. L’ascensore non funziona, salgo a piedi al quarto piano. La sera, quando Tereza torna, prepariamo un piatto di pasta, su cui lei beve vino, io acqua minerale.

    Andiamo a letto prima delle undici.

    La telefonata

    Peter e Dorotka mi aspettano.

    A Londra pioviggina un po’, Dorotka è nella carrozzina sotto la copertura di plastica, e Peter regge l’ombrello. Mi prende la borsa e andiamo insieme verso la macchina.

    Sono a pezzi per quanto sono stata seduta, satura del caffè cattivo che danno sull’autobus, e non ho dormito. L’ultima notte a Praga non sono riuscita ad addormentarmi, non ho smesso un momento di pensare alle bretelle che ho trovato nell’armadio di papà, incombevano su di me come un cappio. Hanno tenuto il sonno a distanza di sicurezza, finché non mi sono arresa e mi sono alzata, erano le due e mezzo del mattino, ero al quarto piano di un palazzone di Dejvice, sentivo nella stanza accanto il respiro di Tereza, e maledicevo la mia incapacità di prendere sonno.

    Il dispositivo per la correzione della displasia all’anca è stato messo a punto negli anni Quaranta dal professor Arnold Pavlík. Si basa su un principio semplice. Si tratta di un sistema di staffe che si applica al bambino che ne è affetto. Questo nella migliore delle ipotesi, nella peggiore lo aspettano una mutandina di gesso, un’operazione o di venire sospeso a una carrucola. Papà, come Dorotka, evidentemente soffriva di una forma lieve, da quel che ricordo nessuno ha mai parlato di doccia gessata o di operazione. Ma potrei sbagliarmi. Non conosco bambini che si interessino allo stato di salute dei genitori, e noi sapevamo dei problemi d’anca di papà solo per quelle bretelle di pelle che ha lasciato.

    Una volta arrivata a casa allatto Dorotka; malgrado l’avvertimento di Peter fila tutto liscio. Poi le faccio un bagnetto. Non resisto e contemplo il suo corpo, la soffice pelle rosa, le morbide pieghe sotto il ginocchio. È perfetta, non è rimasta traccia della lussazione alle anche. La coccolo, finché Peter mi chiama per il pranzo.

    La sera, dopo aver messo a dormire Dorotka, mi siedo con Peter sul divano. Mi tiene la mano; parlo del funerale di papà, e piango un po’. Alla fine comincio a raccontargli di come ho sgomberato il suo appartamento, e sorprendentemente anche delle bretelle. Gli dico che mi ha sorpreso che sembrassero proprio uguali a quelle di nostra figlia, solo i materiali erano diversi, erano di pelle mentre Dorotka le aveva di un tessuto resistente e lavabile.

    « Le cose geniali di solito sono semplici » dice Peter. « Negli anni il principio su cui si basano non cambia. »

    La notte, dopo che Peter si è addormentato, sgattaiolo dalla camera da letto e vado

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