Elogio delle tasse
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Dal momento in cui veniamo al mondo, godiamo di servizi pubblici che consentono la nostra stessa esistenza. Sono le tasse a sostenere tali servizi, a partire dalle due funzioni essenziali dello Stato: mantenere la pace e dare attuazione ai diritti costituzionali, siano essi civili, politici o sociali. In questo modo le tasse si legano alla vita libera e democratica che conosciamo.
Il problema non sono allora le tasse, ma l’iniqua ripartizione del loro carico a vantaggio di una ristretta cerchia di ricchi e ricchissimi.
L’emergenza sanitaria del 2020 ha reso quanto mai evidente che i servizi pubblici sono a beneficio di tutti: occorre rivalutare le tasse e riscoprire l’importanza che il loro peso sia sostenuto da ciascuno in rapporto alle sue capacità.
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Book preview
Elogio delle tasse - Francesco Pallante
instagram.com/edizionigruppoabele
Il libro
I cittadini le odiano e i politici fanno a gara nel promettere di tagliarle. Ma cosa sono davvero le tasse e a che cosa servono? Ed eliminarle è (sempre e comunque) una buona idea?
Dal momento in cui veniamo al mondo, godiamo di servizi pubblici che consentono la nostra stessa esistenza. Sono le tasse a sostenere tali servizi, a partire dalle due funzioni essenziali dello Stato: mantenere la pace e dare attuazione ai diritti costituzionali, siano essi civili, politici o sociali. In questo modo le tasse si legano alla vita libera e democratica che conosciamo.
Il problema non sono allora le tasse, ma l’iniqua ripartizione del loro carico a vantaggio di una ristretta cerchia di ricchi e ricchissimi.
L’emergenza sanitaria del 2020 ha reso quanto mai evidente che i servizi pubblici sono a beneficio di tutti: occorre rivalutare le tasse e riscoprire l’importanza che il loro peso sia sostenuto da ciascuno in rapporto alle sue capacità.
L’autore
Francesco Pallante (Torino, 1972) è professore associato di Diritto costituzionale presso l’Università di Torino. Oltre ad articoli e saggi su riviste giuridiche, ha da ultimo pubblicato: Per scelta o per destino. La costituzione tra individuo e comunità (Giappichelli, 2018) e Contro la democrazia diretta (Einaudi, 2020). Collabora con il manifesto.
Indice
I. Death and Taxes
II. Se si muove, tassalo
III. Sovranità individuale vs. brigantaggio legalizzato?
IV. Addomesticare la violenza
V. Lo Stato, come minimo!
VI. Il costo dei diritti
VII. La minestra e la poltrona
VIII. «Il pieno sviluppo della persona umana»
IX. Una vicenda essenzialmente democristiana
X. Quel bolscevico di Bruno Visentini
XI. La secessione dei ricchi
XII. Necessario, facoltativo, vietato
XIII. Mantenere la promessa
Ringraziamenti
I.
Death and Taxes
Le tasse e la morte. In un mondo che si fa ogni giorno più difficile, residua una sola certezza: l’impossibilità di sfuggire alle due supreme sciagure dell’esistenza umana.
Non è chiaro chi per primo abbia pronunciato la battuta. Solitamente si dice sia stato Benjamin Franklin, in una lettera a Jean-Baptiste LeRoy scritta nel 1789. In realtà, pare che l’aforisma circolasse da tempo. Risalendo negli anni, lo si trova nei testi di Daniel Defoe (The Political History of the Devil, 1726), Edward Ward (The Dancing Devils, 1724), Christopher Bullock (The Cobler of Preston, 1716). Tre scrittori dalla formidabile vena satirica. Le variazioni lessicali non mutano il significato delle frasi loro attribuite: «in questo mondo non c’è nulla di certo, tranne la morte e le tasse» (Franklin); «di cose certe come la morte e le tasse si può essere più che saldamente convinti» (Defoe); «la morte e le tasse, questo è certo» (Ward); «è impossibile essere sicuri di qualcosa se non della morte e delle tasse» (Bullock). Quale che sia la fonte primigenia, la presa sulla cultura popolare è stata fortissima: Death and Taxes è espressione che ricorre nel titolo di racconti di poesie, romanzi, saggi, canzoni, film, episodi di serie televisive, giochi da tavolo, videogiochi. All’inizio degli anni Novanta, un birrificio californiano ha così denominato una delle sue bevande: naturalmente, una black lager a forte gradazione alcolica.
Il retropensiero di tale accostamento è evidente: se nulla possiamo, ahinoi, nei confronti della morte, è contro le tasse che possiamo – dobbiamo! – ribellarci. Le tasse, si sa, sono sempre eccessive. L’esosità del parassita che, avido e insaziabile, le raccoglie – il governo – sconfina nell’autolesionismo: tale e tanta è l’ingordigia che lo muove, da averlo reso insensibile alle grida di dolore levate dalla sua stessa fonte di sostentamento, ridotta ormai allo stremo. Il cappio che sempre più si stringe al collo dei cittadini. La pecora tosata sino a scoprirne la nuda pelle. La mucca munta al punto da averla resa esangue. Il limone spremuto all’ultima goccia. Il vampiro che sugge la vita alle sue vittime. Il grassatore che priva gli innocenti del necessario per vivere. Il (pre)potente che, impunito, infila la mano nelle tasche degli inermi. Lo stigma che colpisce le imposte può contare su una pletora di metafore. E, d’altronde, contro chi si batteva l’eroe della foresta di Sherwood – quel Robin Hood che da secoli la letteratura, alta e bassa, celebra a paladino degli ultimi, incarnazione della giustizia, simbolo della lotta senza tempo degli oppressi contro l’oppressore – se non contro uno spietato esattore delle tasse? Persino nella Bibbia i pubblicani – gli esattori delle tasse per conto dei romani – sono accostati ai peccatori per eccellenza: i farisei e le meretrici.
Da questa parte, dunque, i buoni: i cittadini, affannati nella quotidiana sopravvivenza; da quell’altra, il cattivo: il governo, che cerca in ogni modo di metter loro i bastoni tra le ruote. Primo tra tutti: il fisco.
Come tante altre contrapposizioni binarie applicate alla complessità delle questioni politiche (le questioni che hanno a che fare con la vita della polis), anche quella tra contribuenti vessati ed erario vessatore è tanto potente quanto falsa. Se è così diffusa, è perché è consolatoria. «Ah, se solo non ci fossero queste maledette tasse da pagare, allora sì che sarei ricco / felice / realizzato / libero / apprezzato / [ognuno inserisca l’aggettivo che più lo conforta]». Qualsiasi fallimento può trovare giustificazione. Qualsiasi insuccesso ricevere spiegazione. Ma è chiaro che si tratta di giustificazioni e spiegazioni di comodo. Scorciatoie che sedano, forse, le cattive coscienze, ma che non agevolano d’un passo il conseguimento dell’obiettivo, esistenziale o professionale, desiderato.
Naturalmente, nessuno è contento di dover rinunciare a qualcosa che ritiene suo. Anzi. Già Montesquieu aveva messo a fuoco l’ineliminabile pulsione umana ad accrescere senza posa, giammai a diminuire, il proprio potere o i propri possedimenti. Ma, probabilmente, nemmeno lui avrebbe saputo immaginare un mondo, come quello odierno, in cui singoli individui possiedono patrimoni ammontanti a decine e decine di miliardi: una ricchezza privata dalle dimensioni inimmaginabili, che supera quella di intere popolazioni. Per la prima volta nella storia, il 4 agosto 2018 un’azienda privata, Apple, ha superato i mille miliardi di dollari di capitalizzazione borsistica. A ruota, è stato il turno di Amazon, Microsoft, Saudi Aramco e Alphabet (la società a cui fa capo Google). Ciò che più colpisce è che appena due anni dopo, il 19 agosto 2020, la quotazione di Apple già era raddoppiata. Quarantadue anni per raggiungere quota mille e appena due per superare quota duemila: una dinamica che la dice lunga sulla esponenzialità attraverso cui, in assenza di correttivi, si polarizza la ricchezza. Secondo Oxfam, l’organizzazione non governativa che si batte contro la povertà nel mondo, entro i prossimi vent’anni assisteremo all’avvento del primo individuo trilionario. Ma se, dagli imprenditori privati, allarghiamo lo sguardo agli autocrati a capo di Paesi che, come nel Medio Evo, non distinguono il tesoro pubblico da quello privato del governante, la previsione di Oxfam già è realtà: ammonterebbe, infatti, a 1,3 trilioni di dollari il patrimonio dello sceicco Mohammed bin Zayed Al Nahyan, il proprietario-padrone degli Emirati Arabi Uniti.
È evidente che niente di buono può venire all’umanità da una simile, insensata, concentrazione di risorse. Nella migliore delle ipotesi, una tale massa di denaro sarà destinata, inesauribilmente, ad automoltiplicarsi, in una sorta di moto perpetuo rivolto su se stesso, capace, al più, di lasciar sfuggire qualche briciola da donare in beneficenza. Nella peggiore delle ipotesi, tanta ricchezza sarà impiegata come irresistibile risorsa di potere, da far valere in tutti e tre gli ambiti in cui si articola la vita delle società umane: non solo in quello economico, ma anche in quelli culturale e politico. Si spiega così, tra l’altro, il crescente successo elettorale di tanti tycoon dell’industria dell’intrattenimento (da Silvio Berlusconi a Donald Trump).
Per molto tempo, proprio al sistema tributario è stato assegnato il compito di contenere il tratto dell’indole umana di cui stiamo parlando – la tendenza all’accumulazione. Fissare le aliquote sui redditi più elevati al di sopra del 70 per cento serviva esattamente a questo scopo: a stabilire un limite all’arricchimento individuale. Oggi si griderebbe allo scandalo, al liberticidio, alla sovietizzazione. Qualche decennio orsono, tra i fautori di tali misure erano gli alfieri del liberalismo politico ed economico. E, in effetti, non è difficile comprendere che difendere la libertà assoluta per uno soltanto significa, inevitabilmente, ridurre gli spazi di libertà per tutti gli altri. E, conseguentemente, che inseparabile dalla visione liberale è la nozione del limite. Proprio quello che oggi manca. Peggio: di cui neppure si riesce a discutere. Sicché – ci si dovrebbe chiedere – davvero ha ancora senso parlare di uguaglianza, anche solo nella sua accezione formale, quando qualsiasi proposta concreta volta alla riduzione dell’incredibile diseguaglianza che segna oggi la vita reale delle persone è trattata al pari di una bestemmia?
Si comprende, così, perché, al di là delle ironie degli umoristi, è sbagliato – sbagliatissimo – assimilare le tasse alla morte. Perché, mentre la morte è un fenomeno naturale, che sfugge a qualsivoglia tentativo di dominio da parte degli esseri umani, le tasse sono, al contrario, un prodotto umano, che può essere variamente regolato tra due estremi: l’apposizione di un tetto all’arricchimento individuale e la completa (o quasi) cancellazione delle tasse medesime. Se la morte è un destino, le tasse sono una scelta. E una scelta gravida di conseguenze.
Per rendercene conto, proviamo a immaginare un mondo senza tasse. Sarebbe, inevitabilmente, un mondo senza Stato. Vale a dire, un mondo senza regole o, quantomeno, senza nessuno in grado d’imporne il rispetto ai trasgressori da posizione terza e imparziale. Dunque, un mondo esposto, almeno potenzialmente, alla violenza del più forte, del più ricco, del più carismatico. Un mondo, in definitiva, in preda all’arbitrio di chi può. Com’è stato scritto dai costituzionalisti statunitensi Stephen Holmes e Cass R. Sunstein, «le persone che non hanno la fortuna di vivere sotto un governo capace di imporre tasse e di fornire riparazione effettiva in caso di eventuali danni illeciti subiti non hanno diritti in senso giuridico». È chiaro, allora, che la questione delle tasse è la questione dello Stato, e quindi dei diritti: niente Stato, niente diritti. Essere nel contempo a favore dei diritti e contro lo Stato è un assurdo logico, un cortocircuito argomentativo – come avremo meglio modo di vedere più avanti, trattando il pensiero anarco-capitalista. Il che, pur lasciando aperto il tema del cosa, del come e del quanto tassare, significa che solo a uno sguardo politicamente molto infantile l’imposizione fiscale può, in sé, apparire alla stregua di una violenza, imposta dal potere coercitivo dell’autorità pubblica, suscettibile di inverare una dannazione paragonabile a quella della morte. In realtà, è sufficiente un’analisi appena un poco più attenta per comprendere che le imposte rappresentano lo strumento essenziale attraverso cui l’esistenza umana, altrimenti rimessa alle dinamiche della forza bruta, può essere condotta secondo le logiche, pur plurali e conflittuali, della ragione. E, dunque, che lungi dall’infliggere una violenza, il sistema tributario consente, in realtà, la possibilità stessa della pace civile. Ne è essenziale condizione.
Si vedrà più avanti quanto questo modo di pensare sia debitore della teoria weberiana dello Stato, che si può a sua volta ritenere un perfezionamento della teoria hobbesiana (capitolo IV). Innanzitutto, sarà però necessario interrogarsi più a fondo sulle ragioni che rendono tanto persuasivo e diffuso il modo opposto di vedere le cose, occupandoci sia delle sue realizzazioni pratiche (capitolo II), sia delle sue elaborazioni teoriche, in particolare le più estreme (capitolo III). Ciò consentirà di metterne a fuoco i principali punti deboli, nel contempo disvelando la maschera ideologica, ispirata al più feroce darwinismo sociale, dietro cui si nascondono i paladini della lotta per la libertà dalle tasse (capitolo V). Di qui, sarà agevole passare a considerare la raccolta di risorse attraverso il sistema tributario come condizione, oltre che della pace civile, anche delle trasformazioni sociali