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Capitani di frontiera
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Capitani di frontiera

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Alcune frontiere, come quelle di luoghi considerati terzo mondo, delimitano una sorta di aldiquà da un aldilà terreno, costituito dal sogno di poter approdare un giorno alle possibilità del primo mondo. Nel mezzo, non sei più né l’uno né l’altro. 

Sotirio Roccanuova

Aziz prima è dentro un’identità ben consolidata. Poi lo stesso sistema cui crede di appartenere lo espelle improvvisamente, per eventi che lo feriscono – con al clou il tradimento di una donna che non lo ha mai riconosciuto – e che gli fanno affiorare dolori atavici ed ereditati, memorie non sue, tradizioni che gli si sono attagliate addosso ma che lo hanno immobilizzato come dentro una trappola, una corazza bloccante, inibendosi – impedendosi di fatto ogni possibile evoluzione. L’unica via di scampo è percorrere altre strade, impervie e sconosciute, per provare letteralmente a costruirsi in un’altra identità, completamente diversa e opposta: alle certezze iniziali, banali e grigie ma pur sempre certezze (la sicurezza di un lavoro, di una famiglia, di un quotidiano inutile simile a quello di molti altri, abitudini casalinghe, domeniche da gita), adesso si ritrova a vagare per le strade di Palermo, divenuta metafora del suo peregrinare interiore, e dove incontra personaggi – primo fra tutti Peppi il geco – che vivono costantemente ai margini della società ufficiale e pomposa, magniloquente, patinata e impoverita della sua più sincera Umanità, ma che sa contare esclusivamente sulle sue risorse, minime e spesso fuori dalle regole della Normalità imperante, ma pur sempre risorse che permettono di affrontare e risolvere i problemi cruciali della sopravvivenza. 
L’altra apparente espulsa che tenta anche lei, come Aziz, di rifarsi un nome, è Rebecca. Un alter ego che all’inizio sembra somigliargli, in realtà è soltanto dentro una delusione che solo temporaneamente la destabilizza, e dunque non riesce a viversi come risorsa né ad esserlo fino in fondo per sé e per gli altri – poiché rimane ancorata ai suoi vecchi stilemi, non scopre nulla di nuovo, del mondo, del suo essere se non la precarietà improvvisa di chi ha perso le stesse granitiche certezze di Aziz ma che, al contrario di Aziz, vorrebbe probabilmente recuperare. Rebecca non riesce a mettersi in discussione, anzi: a rimettersi in gioco approfittando della grande opportunità di cambiamento che la vita le ha dato, anche sotto le fattezze di Aziz. Ma lei non è preparata, non è ancora pronta, o più probabilmente non è all’altezza di essere un Capitano di Frontiera. 

Salvatore Nocera Bracco, medico, cantante, musicista, attore e scrittore dal linguaggio fervido ed affascinante ha pubblicato diversi romanzi e saggi tra cui Le ragioni del fuco (2016) e Il medicartista, in cui ridisegna il ruolo del medico (2018)
LanguageItaliano
PublisherPasserino
Release dateJan 19, 2021
ISBN9791220253215
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    Capitani di frontiera - Salvatore Nocera Bracco

    Magris)

    Peppi il Geco la bocca sollevò dal fiero pasto.

    Lo scirocco inaridisce l’anima dei viventi, ma ai bastardi no, anche quando lo scirocco li sminchia di mala manera. E più bastardi di Peppi il Geco! … boss, sgherro, sbrigafacenni: tutti cosi. Il geco è un animale utile, ma che vuol dire: sempre schifo fa, impressione, pallido, viscido, saettante su per le pareti e i soffitti delle case all’apparenza contro le regole fisiche della gravità, appiccicato all’intonaco con le zampette prensili arriva dovunque, la lingua sempre pronta a catturare insetti. E questo schifo di mangiarseli.

    Eppure, i gechi sono animali di frontiera senza che nemmeno lo sanno: con i gechi una certa dogana funziona. Come con i ragni: tutti utilitaristicamente al servizio degli uomini, a togliere loro il fastidio degli insetti nocivi. Quelli tra i muri pericolanti di alcuni palazzi cadenti della Vuccirìa di Palermo non hanno gusti speciali, catturano e mangiano mosche, zanzare, e persino cimici: è divertente sentirne sgranocchiare le ali. Qualunque insetto va bene.

    Questo pezzo di merda di Peppi il Geco recupera gli affitti ogni quindici giorni, per il resto passa il tempo a rivendere certa merce riciclata ai vu’ cumprà, dai quali pretende un’ulteriore somma in cambio della concessione del permesso di vendita nelle zone stabilite, e di una relativa protezione dagli interventi della polizia: la polizia lascia in pace i poveracci comunque, senza bisogno che qualche bastardo opportunista mancia-muschi faccia finta che è merito suo per fottersi altri guadagni dalla miseria che lo circonda. Appunto per questo Peppi il Geco è bastardo. Per controllare il territorio, sguinzaglia per la città un esercito di posteggiatori abusivi, che gli garantiscono, manco a dirlo, ulteriori guadagni. Ma come minchia fa? Possibile che nessuno degli altri pezzi di merda in circolazione non pretendano da lui una tangente, un pizzo, una percentuale? Minchia, no! Tutte cose lui, si fotte, gran figlio di mulacciuna buttana. Per i morti di fame clandestini arrivati in Sicilia chissà come, quest’atteggiamento deve sembrare di protezione paterna. Infatti, il gran cornuto si fa passare per benefattore:

    Io dugnu travagliu a un numero imprecisato di africani senza permesso di soggiorno, e allora? Sempre cristiani, sono! Come camperebbero altrimenti, me lo dite? Rubando qua e là e terrorizzando la gente per bene? Io li tolgo dalla strada e dalla delinquenza, così diventano pure bravi cristiani. Non ha nemmeno idea di quello che dice quando parla di cristiani: la maggior parte sono islamici, ma il Geco se ne vanta pure! Grazie a sta minchia!, gli africani sono facili da controllare, pochi rischi, gente che non ha nulla da perdere ed è disposta ad ammazzarsi la vita pur di garantirsi un minimo di sopravvivenza. Che pezzo di bastardo profittatore.

    Dice che l’aiuto ai paesi in via di sviluppo consiste nel portar via denaro ai poveri nei paesi ricchi per darlo ai ricchi nei paesi poveri. Peppi il Geco il suo aiuto lo dà sfruttando i clandestini, quelli che non hanno ottenuto il permesso di soggiorno, quelli a cui non è stato accordato lo status di rifugiato politico, quelli che non sono ospiti di qualche struttura finanziata dallo Stato e che invece delle coperte gli danno lenzuolini di carta anche quando il freddo attrunza alla grande. E i soldi se l’imboccano i soliti gechi di turno profittatori e senza scrupoli.

    Aziz bussa a Peppi il Geco.

    Chissà come si sente Aziz a bussare alla porta di Peppi il Geco per richiedergli una stanza delle sue. Rifugiato politico? Clandestino? Vu cumprà? Chissà cosa pensano di lui, gli altri, a vederlo entrare da Peppi il Geco: il solito extra-comunitario – ha le forme, i colori, i capelli del solito marocchino che non sa dove andare a dormire. Un lavoretto sporco per il Geco e almeno un letto per un mese se lo recupera, questo penseranno di lui. Il fatto è che Aziz, malgrado il nome, non è marocchino, ma nemmeno lui ancora sa bene chi sia: questo nome è il regalo che tempo fa gli hanno lasciato alcuni magrebini che ha curato.

    "Chi è?, risponde al citofono la voce gutturale di Peppi il Geco.

    Aziz non sa come presentarsi:

    "Aziz, gli scappa così.

    "Aziz? Ma quali Aziz? Cu ti canusci? Di cuomu parli nun mi pari africanu.

    E stacca il citofono. Aziz aspetta un po’ prima di suonare ancora il campanello.

    "Cu è? Se sei quello di prima ti nni po’ iri ca nun ti grapu.

    "No, aspetta, ma perché? Di me ti puoi fidare.

    "Ah, ora u capivu cu sì! Nun mi ricordo più come ti chiami. Chi ci nni trasi Aziz?

    "Senti, ora così su due piedi non te lo posso spiegare.

    Peppi il Geco rimane incuriosito:

    "Dalla voce ti riconosco. Ma che vuoi?

    "La solita stanza.

    "Ma sei solo?

    "Più solo di così!

    "Allora sono ventimila a notte.

    "Quanto? Ventimila? Ma come, l’altra volta erano settemila e cinque.

    "Non sei quello che è diventato dottore medico?

    "E che c’entra? Dottore medico, e allora?

    "Lo vedi che mi ricordo di te? E allora i picciuli ce li hai e paghi.

    "Ma quali picciuli e picciuli, che ancora non lavoro!

    Dopo un silenzio, il Geco si mostra più disponibile:

    "Facciamo quindicimila.

    "Senti, Geco, …

    "E non mi chiamare Geco, vabbene? Io pesante, sono: peggio che chiamarmi porco.

    Peppi il Geco sbatte il citofono, lasciando Aziz in sospensione. Ma dopo qualche secondo il portone si apre. Aziz entra nell’ampio androne salendo per una larga scala, un po’ scalcinata, solo la parvenza di una gloria nobiliare ormai trapassata. Peppi il Geco ha già aperto la porta sul pianerottolo. E gli indica di entrare in una specie di salone enorme e altissimo su cui si aprono diverse porte. Aziz lo saluta:

    "Non è che ti sei offeso, prima?

    "Senti, dottore di sta minchia: chiudiamola qui, quanto hai?

    "Al massimo novemila e cinque.

    "E vabbè, dammi, va’.

    Aziz tira fuori dalla tasca una banconota stropicciata da diecimila lire:

    "Magari mi dài il resto, dice Aziz sfacciato.

    Il resto? Ma quale resto? quasi urla il Geco, afferrandosi i soldi, pure il resto: mi pigli p’u culu?

    "Almeno mi ci mangio una cosa, insiste Aziz

    Tutti morti di fame, siete! Peppi il Geco prende una moneta da cinquecento lire e la porge ad Aziz. Ma sicuru ca ti lauriasti?

    "Certo. Pure i laureati possono essere morti di fame.

    "Ma no i duttura medici, però, eh! – Acchianatinni, va’, a solita, ncapu a scala. A chiavi è nna toppa, gli raccomanda il Geco indicandogli una scala di ferro traballante appena poggiata al muro, all’apparenza senza muratura, che dà su un piccolo pianerottolo.

    Così andai debellando gli anni, così rientrai in possesso di quanto era già mio.

    Lo smog al primo caldo rende l’aria di Palermo irrespirabile. E quando arriva lo scirocco, come in certi giorni d’Aprile, è meglio starsene a casa. Ibn Aziz Mohammed lo sa bene. E ancora adesso, dopo tanti anni di università, si ritrova a ripetersi che Aprile è un mese di inizi, di aperture, appunto: Aprili fa li sciuri e Maiu si nn’avi l’onuri. Un mese gravido di cambiamenti impensati, come successe ai palermitani nel 1860: fini d’Aprili ancora Burbuni, fini di Maiu garibaldini. Ora Ibn Aziz Mohammed, dopo circa 130 anni, rivive resipiscente quei giorni tersi e luminosi di Aprile – in attesa del Maggio ferale – con molto meno coinvolgimento: sembra riferirsi a un altro, non è più lui – un altro ancora, certo – che adesso sa come separarsi dagli eventi, con inusuale, eppure consumato distacco, affidandone la memoria a delle frasi scritte su fogliettini volanti:

    Un chiaro raggio di sole attraversa

    La strada silenziosa di Effi Briest

    Mentre un flauto guida

    La pace dei greggi del poeta pastore Senghor

    Dal Nord al Sud, dalla Germania all’Africa, ha questo impellente bisogno di connettere realtà tra di loro distanti. Questo nuovo nome, intanto, che si completa da sé, senza nemmeno pensarci, come a scoprirlo da un groviglio di esistenze che gli emergono dalle profondità di un remotissimo vissuto ancestrale, Ibn Aziz Mohammed: perché proprio questo nome, questa nuova definizione di sé? Il suo essere ingenuamente empatico con chi lo riconosce, probabilmente.

    Ora che sta scoprendo finalmente come rallentare (ma sempre accelerato rimane!), gli capita di scrivere su fogliettini qualsiasi – che cominciano sempre con la dicitura: Ibn Aziz Mohammed ha scritto – e lasciarli in giro, sui tavoli dei bar, alla stazione, nelle cabine telefoniche, sull’autobus, come traccia di sé, come segno del suo passaggio nel mondo, nella vita degli uomini. E trova divertente, persino tenero, che adesso riesca a staccarsi dalla sua scrittura, anzi a lasciarla andar via come se non gli appartenesse, come se non fosse mai scaturita da lui.

    È ritornato ad abitare nella solita stanza affittata da Peppi il Geco, dopo che l’aveva lasciata appena laureato in medicina, qualche tempo fa, trascurando la ormai sicura specializzazione in oncologia per imbarcarsi in una strana avventura di istintiva passione. È ritornato ad abitare il margine dopo qualche anno di tranquilla, insignificante centralità, in cui era rimasto fermo, in uno stato di quiete e di non-evoluzione, virtuoso come non mai, riequilibrandosi mediocremente tra i suoi eccessi e i suoi difetti. Aristotele, pensa con un sorriso, di cui aveva assorbito una piccola lezione: che tutto tende al bene. E dunque, qualsiasi scelta avesse fatto, prima o poi si sarebbe rivelata in qualche modo giusta. Ma allora perché adesso si ritrova ancora qui, al suo punto di partenza? Ha perso tempo? Ha riconosciuto con umiltà, malgrado il fatto che tutto tenda al bene, di avere sbagliato? O non sa come affrontare i suoi fallimenti? Un po’ è regredito, ma sta comunque imparando ad accendere candele, qua e là nella sua interiorità, sta imparando a riconoscere il colore dei suoi pensieri, per questo, ora, può scriverli e goderne. Sta imparando finalmente che si è vivi finchè si ha qualcosa da dire: da raccontare. E Ibn Aziz Mohammed, ora, può addirittura raccontare sé stesso.

    Nel suo breve momento di viltà cercava i volti altrui con occhi grigi che rivelavano la certezza della morte.

    Tutto è cominciato in maniera strana, diventando trasparente, sì.

    Si conosce una donna, all’improvviso la si sposa. Senza immaginare che prima o poi si diventa trasparenti. È esattamente così.

    A letto, la prima notte di letto vero, lei rimane tre ore a controllare le pantofole, devono essere perfettamente appaiate tra di loro, perfettamente perpendicolari alla linea del materasso. Davvero un bel da fare. Parecchie ore.

    Nel frattempo, un andirivieni dal cesso, una pipì continua.

    Controllo alle pantofole. Pipì. Sistemazione a letto.

    Pantofole. Si alza. Pipì.

    Ritorno. Pantofole.

    Lo sguardo misurato, attento, preciso. Ancora a letto.

    Poi, finalmente, da sotto

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