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I draghi degli abissi dei nani: Le cronache perdute Volume I
I draghi degli abissi dei nani: Le cronache perdute Volume I
I draghi degli abissi dei nani: Le cronache perdute Volume I
Ebook651 pages9 hours

I draghi degli abissi dei nani: Le cronache perdute Volume I

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About this ebook

I nostri eroi sono tornati, ma i loro nemici mortali non demordono, per cui andranno incontro a nuove avventure e a nuove insidie nei primi mesi della Guerra delle Lance.
I compagni credono di aver ucciso il malvagio Signore dei Draghi Verminaard. Hanno salvato i profughi di Pax Tharkas e li hanno portati in una valle nelle montagne di Kharolis.
Tanis e Flint vengono inviati a cercare il regno nanico di Thorbardin, da tempo perduto, sperando di persuadere i nani a dare rifugio ai profughi per l’inverno. Mentre gli eroi corrono contro il tempo per salvare le vite degli innocenti che dipendono da loro, Flint è costretto a fare una scelta difficile, da cui potrebbe dipendere il futuro di Krynn. E l’unico su cui può contare è Tasslehoff Burrfoot, lo spensierato kender...
LanguageItaliano
PublisherArmenia
Release dateJan 15, 2021
ISBN9788834436196
I draghi degli abissi dei nani: Le cronache perdute Volume I

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    Book preview

    I draghi degli abissi dei nani - Margaret Weis

    Prefazione

    Joseph Campbell ha tracciato il corso del mito epico descrivendolo come un cerchio.

    Esso comincia nella confortevole casa dell’eroe che, se volete, potete definire la sommità del cerchio, e con il Richiamo dell’Avventura. Abbandonando quell’ambiente sicuro e familiare, l’eroe parte, forse incitato a farlo da un personaggio che ha la veste di Aiutante, e incontra la Soglia dell’Avventura. Là, superando gli ostacoli posti dai Guardiani che proteggono la via, passa quindi nei Regni del Potere, e in quella terra meravigliosa incontra sia nuovi aiutanti che gli offrono sostegno durante il suo viaggio, sia altre prove e avversari che cercano di indurlo ad abbandonare la strada intrapresa. L’eroe riesce quindi a conquistare l’ambito premio, che può essere il Sacro Matrimonio, l’Espiazione delle Colpe Paterne, l’Apoteosi o l’Elisir del Furto, ma una volta raggiunto lo scopo si trova soltanto a metà del viaggio. A questo punto inizia la fuga dai Regni del Potere, fino a riattraversare la soglia che riporta nel mondo normale e, come l’antico Odisseo, a tornare a casa, da dove era partito… solo per scoprire che la sua casa è cambiata durante la sua assenza, o che lui stesso è stato mutato dal viaggio intrapreso.

    I viaggi di Tanis, Laurana, Flint, Tasslehoff, Raistlin, Caramon, Sturm e Tika, i nostri Eroi delle Lance, sono cominciati nello stesso modo oltre venti anni fa. Anche loro sono stati incitati a lasciare la loro casa, ad aprirsi una strada attraverso regni misteriosi, potenti e ignoti, in modo da poter anche loro conquistare un grande premio, anche se non senza costi spaventosi. Ed è possibile che anch’essi siano tornati a casa solo per trovarla irrimediabilmente mutata, e per scoprire di essere essi stessi cambiati nel frattempo.

    Lo stesso è successo anche a me e a Margaret, quando ci siamo incamminati sul nostro sentiero epico, due decenni fa. Ci siamo avventurati in regni ignoti, lontano dalla sicurezza della nostra vita familiare. Molti sono stati gli aiutanti che abbiamo incontrato lungo la strada: li ricordiamo e li onoriamo tutti. Nello stesso modo, molte sono state le prove e le difficoltà che hanno cercato di dissuaderci dal proseguire lungo la via intrapresa, e si sono presentate in molti modi e molte forme. Ciascuna ha esatto da noi un caro prezzo, a volte anche molto elevato, e tuttavia abbiamo continuato.

    Adesso ci ritroviamo a tornare a quella casa da cui siamo partiti per la nostra avventura, tanti anni fa.

    Temiamo di trovarla cambiata, perché la ricordiamo com’era quando era ancora selvaggia e inesplorata, prima che così tante migliaia di parole descrivessero tanta parte di questo mondo.

    Temiamo di scoprire che noi stessi siamo cambiati, perché ricordiamo vagamente quanto eravamo giovani, come in quei tempi non riuscissimo a concepire il fallimento e quanto la nostra arte a quel tempo ci apparisse rozza.

    E tuttavia, mentre sostiamo qui, sulla collina, la luce dell’alba illumina ancora una volta gli alberi di vallenwood, le finiture in ottone tornano a scintillare sulla Locanda dell’Ultima Dimora, riportata magicamente alla sua antica gloria. L’orologio e il calendario sono tornati indietro, qui su Krynn, noi siamo tornati indietro e abbiamo trovato questo mondo effettivamente come esso era all’inizio, con i nostri eroi non ancora temprati dalle difficoltà, innocenti e tuttavia pieni di forza e di speranza. Qui, attraverso lo sguardo della nostra memoria, il mondo è rinato.

    E noi, per qualche tempo, siamo di nuovo giovani.

    Tracy Hickman, gennaio 2006

    Il Canto di Kharas

    Di Michael Williams

    Tre erano i pensieri di

    quanti erano a Thorbardin

    Nell’oscurità dopo Dergoth quando

    gli orchi danzavano.

    Uno era la luce perduta,

    la vacillante oscurità

    Nelle grotte del regno

    dove la luce si sbriciola.

    Uno era la disperazione di

    Derkin Thane dei Nani

    Perso nell’oscurità della torre

    della Gloria.

    Uno era il mondo, stanco e ferito

    Nelle profondità delle

    acque di Darkling.

    Sotto il cuore della collina,

    Sotto la volta di pietra,

    Sotto il declino

    della gloria del mondo.

    Casa sotto la casa.

    Poi giunse Kharas fra noi, il

    Custode dei Re.

    La Mano sul martello, il Braccio

    degli Hylar.

    Nel cimitero scintillante di

    oro e di granati

    Tre figli del Thane

    Seppellì immantinente.

    Mentre Derkin vedeva oscurità su oscurità

    nelle gallerie,

    Nelle sale della nazione si videro

    cappi e coltelli,

    assassini e creatori di re vennero da Kharas

    Con agate e ametiste, chiedendo alleanza.

    Sotto il cuore della collina,

    Sotto la volta di pietra,

    Sotto il declino della

    gloria del mondo.

    Casa sotto la casa.

    Ma il coraggioso ha il cuore

    forte come la pietra.

    Audace e risoluta è la sua mente

    nei confronti dei superiori:

    Il martello degli Hylar si parava saldo

    nelle sale,

    Rifiutando ogni discordia, ogni dubbio

    e divisione,

    Volse le spalle all’intrigo, alle

    selvagge gallerie,

    Uscendo all’aperto e pronunciando

    il giuramento

    Che il tempo e non il tradimento avrebbe mai

    ostacolato

    Il ritorno del martello in un momento di

    grande difficoltà.

    Sotto il cuore della collina,

    Sotto la volta di pietra,

    Sotto il declino della

    gloria del mondo.

    Casa sotto la casa.

    Libro Primo

    Prologo

    In piedi accanto al corpo del defunto Signore dei Draghi Verminaard, il draconico aurak Dray-yan vide balenare davanti agli occhi il suo destino.

    Quel lampo di genio lo investì con la violenza di una cometa precipitata dal cielo, facendogli ribollire il sangue e scatenando una sensazione formicolante in tutto il suo corpo coperto di scaglie, fino alle dita dotate di artigli. A quell’esplosione iniziale seguì una cascata di altre idee che piovvero su di lui permettendogli di elaborare l’intero piano nell’arco di pochi secondi.

    Toltosi con un rapido gesto l’elegante mantello, Dray-yan lo stese sul corpo del Signore dei Draghi, celandolo alla vista unitamente alla grande pozza di sangue che si andava allargando sotto il cadavere. Per far credere a quanti lo stavano osservando di essere in preda al panico, prese a urlare freneticamente chiedendo aiuto, poi agguantò diversi baaz (draconici di basso livello intellettuale, noti per l’ottusità che li rendeva facilmente raggirabili) e ordinò loro di procurare una barella.

    «Fate presto! Lord Verminaard è gravemente ferito! Dobbiamo trasportarlo nelle sue stanze! Presto! Sbrigatevi, prima che sua signoria soccomba a causa delle ferite!».

    Fortunatamente per Dray-yan, la situazione all’interno della fortezza di Pax Tharkas era caotica: schiavi in fuga, due draghi rossi in lotta fra loro, tonnellate di roccia franate fragorosamente all’improvviso che avevano bloccato il passo schiacciando un elevato numero di soldati. In mezzo a quella baraonda, nessuno prestò attenzione al Signore dei Draghi «ferito» che veniva trasportato all’interno della fortezza, né badò all’aurak che lo accompagnava.

    Una volta che il cadavere di Verminaard fu al sicuro nelle sue camere, Dray-yan chiuse le porte, mise fuori di guardia i draconici baaz che avevano trasportato la barella e diede loro ordine di non lasciar entrare nessuno.

    Dray-yan si servì poi un bicchiere del vino migliore di Verminaard, sedette alla scrivania del Signore dei Draghi e procedette a esaminare i documenti segreti di quest’ultimo, il cui contenuto lo impressionò non poco; sorseggiando il vino, studiò la situazione e riesaminò mentalmente i propri piani. Di tanto in tantoqualcuno si presentava alla porta per chiedere ordini, ma Dray-yan rispondeva che sua signoria non doveva essere disturbato. Trascorse alcune ore, quando era ormai calata la notte, Dray-yan si decise a dischiudere leggermente la porta.

    «Avverti il Comandante Grag che la sua presenza è desiderata nelle stanze di Lord Verminaard», disse.

    Dopo qualche tempo il grosso comandante bozak arrivò; durante l’attesa Dray-yan aveva riflettuto se fosse il caso di confidarsi con lui; l’istinto lo induceva a non fidarsi, soprattutto di un draconico che considerava un essere inferiore, ma sapeva di non poter realizzare i suoi piani da solo. Avrebbe avuto bisogno di aiuto, e anche se disprezzava Grag, doveva riconoscere che non era stupido e incompetente come la maggior parte degli altri bozak che gli era capitato di incontrare. Anzi, Grag era intelligente ed era un eccellente comandante militare; se fosse stato lui ad avere il comando di Pax Tharkas, e non quell’ammasso di muscoli senza cervello che era stato l’umano Verminaard, non ci sarebbe stata l’insurrezione degli schiavi, e quel disastro non si sarebbe mai verificato.

    Purtroppo nessuno aveva mai preso in considerazione l’ipotesi di porre Grag in posizione di comando, al di sopra degli esseri umani, che invece erano convinti che gli «uomini-lucertola», con le loro scaglie lucenti, le ali e la coda, servissero solo a uccidere, e a nient’altro. I draconici erano considerati incapaci di formulare pensieri razionali, inadatti a qualsiasi carica di comando nell’esercito della Regina delle Tenebre. Come Dray-yan sapeva, ne era convinta la stessa Takhisis, e per questo disprezzava segretamente la sua dea.

    Ma adesso gliel’avrebbe fatta vedere lui. I draconici le avrebbero dimostrato il loro valore, e se avesse avuto successo, sarebbe potuto diventare il successore del Signore dei Draghi.

    Però doveva fare un passo per volta.

    «Il Comandante Grag», annunciò uno dei baaz.

    La porta si aprì e Grag entrò nella stanza. Il bozak era alto quasi due metri, con ampie ali che lo facevano sembrare ancora più alto; le sue scaglie di bronzo erano coperte solo un minima parte dall’armatura perché il bozak era convinto che fossero sufficienti a proteggerlo assieme alla sua pelle coriacea. In quel momento le scaglie erano sporche di polvere e di terra, oltre che incrostate di sangue, e lui appariva esausto. Con la lunga coda che oscillava lentamente, le labbra serrate sulle zanne, Grag fissò Dray-yan con un’espressione dura negli occhi gialli socchiusi.

    «E tu cosa vuoi?» domandò sgarbato, facendo cenno con un artiglio. «Sarà bene che si tratti di qualcosa d’importante, perché là fuori c’è bisogno di me», continuò, poi notò la figura sul letto e aggiunse: «Ho sentito dire che sua signoria è stato ferito. Lo stai curando?».

    Grag non nutriva né simpatia né fiducia nei confronti dell’aurak, come Dray-yan ben sapeva. I draconici bozak venivano allevati per essere dei guerrieri; come agli aurak, anche ai bozak erano concessi incantesimi da parte della Regina, ma la loro magia era di natura marziale ed era molto meno potente di quella degli aurak. Dal punto di vista della personalità, i grossi e massicci bozak tendevano ad essere aperti, diretti e bruschi.

    Per contro, gli aurak non venivano generati per la battaglia. Alti e snelli, erano taciturni per natura; astuti e subdoli, e la loro magia era di una potenza estrema.

    I draconici aurak e bozak erano stati allevati nell’odio e nella diffidenza reciproca perché gli umani temevano che altrimenti sarebbero diventati troppo potenti, o almeno questo era ciò di cui Dray-yan era convinto.

    «Sua signoria è gravemente ferito», replicò ad alta voce, per farsi sentire dai baaz che stavano probabilmente origliando, «Io però sto pregando l’Oscura Sovrana e ci sono ottime speranze che si possa riprendere. Per favore, comandante, entra e chiuditi la porta alle spalle».

    Grag esitò, poi fece come gli era stato chiesto.

    «Controlla che la porta sia chiusa e sprangata», aggiunse Dray-yan. «Ora vieni qui».

    E segnalò a Grag di accostarsi al letto di Verminaard.

    Grag abbassò lo sguardo sul corpo, poi tornò a levarlo.

    «Non è ferito», disse. «È morto».

    «Infatti», convenne Dray-yan, in tono indifferente.

    «Allora perché mi hai detto che era vivo?».

    «Non lo stavo dicendo tanto a te quanto alle guardie baaz».

    «Che razza di esseri viscidi siete voi aurak», sogghignò Grag. «Arri­vate a di­storcere ogni cosa...».

    «Il punto», lo interruppe Dray-yan, «è che siamo soltanto noi due a sapere che è morto».

    Grag lo fissò perplesso.

    «Lascia che te lo spieghi più chiaramente, comandante», continuò Dray-yan. «Noi due, tu ed io, siamo gli unici due esseri al mondo a sapere che Lord Verminaard è defunto. Perfino i baaz che lo hanno trasportato in questa stanza credono che sia ancora vivo».

    «Ancora non capisco dove vuoi arrivare…».

    «Verminaard è morto. Non c’è più nessun Signore dei Draghi, nessuno al comando dell’Esercito dei Draghi Rossi».

    «Non appena scoprirà che Verminaard è morto, l’imperatore Ariakas manderà un altro umano ad assumere il comando», replicò con amarezza Grag, scrollando le spalle. «È solo questione di tempo».

    «Sappiamo entrambi che quello sarebbe un errore», osservò Dray-yan. «Siamo entrambi consapevoli che ci sono altri più qualificati per quella carica».

    Grag lo fissò e un bagliore affiorò negli occhi gialli del bozak.

    «Cos’hai in mente?» chiese.

    «Noi due», disse Dray-yan.

    «Noi?» ripeté Grag, torcendo le labbra con disprezzo.

    «Sì, noi», ribadì con freddezza Dray-yan. «Io mi intendo assai poco di tattica e di strategia, tutte cose che lascerei volentieri alla tua saggezza ed esperienza».

    Un nuovo bagliore affiorò negli occhi di Grag, questa volta per via del tentativo di adulazione da parte dell’aurak, poi il suo sguardo tornò a posarsi sul cadavere.

    «Quindi io dovrei comandare l’Esercito dei Draghi Rossi mentre tu farai… cosa?» domandò.

    «Io sarò Lord Verminaard», rispose l’aurak.

    Grag si girò per chiedergli che cosa avesse inteso dire con quell’affermazione e trovò Lord Verminaard in piedi al suo fianco: sua signoria, in tutta la sua gloria possente, lo stava fissando con occhi roventi.

    «Allora, comandante, che cosa ne pensi?» domandò Dray-yan, imitando alla perfezione la voce rauca e profonda di Verminaard.

    L’illusione era così perfetta, così convincente, che suo malgrado Grag si ritrovò a lanciare involontariamente un’altra occhiata al cadavere per avere la conferma che l’umano fosse effettivamente morto. Quando risollevò lo sguardo, Dray-yan era tornato ad essere se stesso, con le scaglie dorate, le piccole ali, la coda tozza e la consueta boriosa arroganza.

    «Come dovrebbe funzionare tutta questa faccenda?» domandò Grag, continuando a diffidare dell’aurak.

    «Tu ed io decideremo la nostra linea d’azione, la dislocazione delle truppe, come impegnarle in battaglia e tutto il resto. Naturalmente, per queste cose mi rimetterò interamente a te», spiegò con disinvoltura Dray-yan.

    Grag grugnì.

    «Io impartirò gli ordini e prenderò il posto di sua signoria ogni volta che sarà necessaria la sua presenza in pubblico», aggiunse l’aurak.

    «Faremo circolare la voce che Lord Verminaard è stato ferito, ma che si sta riprendendo per grazia della Regina delle Tenebre», propose Grag, dopo aver riflettuto. «Nel frattempo, tu prenderai il suo posto, trasmettendo gli ordini che riceverai al suo capezzale».

    «Con la benedizione della Regina delle Tenebre», aggiunse Dray-yan, «entro breve tempo sua signoria si rimetterà abbastanza da poter riprendere a svolgere i suoi compiti abituali».

    «Potrebbe funzionare», ammise Grag, interessato, fissando Dray-yan con riluttante ammirazione.

    Dray-yan non se ne avvide.

    «Il nostro problema principale sarà liberarci del corpo», disse, lanciando un’occhiata sprezzante al cadavere. «Era grande e grosso».

    Lord Verminaard sembrava davvero enorme, benché fosse un umano: alto più di due metri, era di ossatura robusta, corpulento e muscoloso.

    «Le miniere», suggerì Grag. «Scarica il corpo in uno dei pozzi e poi fallo crollare».

    «Le miniere sono fuori dalle mura della fortezza», obiettò Dray-yan. «Come facciamo a portare fuori il cadavere di nascosto?».

    «Stando a quanto ho sentito dire, voi aurak sapete camminare nell’aria», ribatté Grag. «Non dovresti avere problemi a portare fuori di qui il corpo senza che nessuno lo veda».

    «Noi percorriamo i corridoi della magia, del tempo e dello spazio», precisò Dray-yan, in tono di rimprovero. «Suppongo di essere in grado di trasportare quel bastardo, anche se pesa una tonnellata. Del resto, si deve essere disposti a fare dei sacrifici per la propria causa. Mi libererò di lui stanotte. Ora dimmi che cosa sta succedendo nella fortezza. Gli schiavi fuggiti sono stati catturati?».

    «No, e non lo saranno», rispose Grag, con brusca franchezza. «Pyros e Flamestrike sono morti entrambi: quegli stupidi draghi si sono uccisi a vicenda. Inoltre, l’attivazione del meccanismo di difesa ha fatto sì che i massi intasassero il passo, bloccando completamente le nostre truppe, che sono ora intrappolate dalla frana».

    «Potresti mandare all’inseguimento degli schiavi le truppe di stanza qui», suggerì Dray-yan.

    «La maggior parte dei miei uomini è sepolta sotto la frana», spiegò Grag, in tono cupo. «È là che mi trovavo quando mi hai convocato, impegnato a cercare di tirarli fuori. Ci vorrebbero giorni, forse addirittura settimane di lavoro, anche se avessimo a disposizione braccia sufficienti, il che non è. Ci servono dei draghi che ci diano una mano», continuò, scuotendo il capo. «Farebbero davvero la differenza. A questo esercito sono stati assegnati otto draghi rossi, ma non ho idea di dove siano. Forse a Qualinesti, o magari in Abanasinia».

    «Posso scoprire dove si trovano», affermò Dray-yan, accennando con un artiglio ai documenti sparsi sulla scrivania. «Li convocherò qui in nome di Lord Verminaard».

    «Non accetteranno mai di prendere ordini da noi», sottolineò Grag. «I draghi ci disprezzano, anche quelli che sono dalla nostra parte e combattono al nostro fianco, e quei draghi rossi potrebbero benissimo decidere di arrostirci. Meglio che la tua illusione di Verminaard riesca ad ingannarli. Dobbiamo sperarci, oppure…».

    «Oppure?» lo incalzò Dray-yan, in tono preoccupato, perché se da un lato era certo che la sua illusione avrebbe tratto in inganno gli umani e gli altri draconici, d’altro canto non era così sicuro di poter raggirare anche i draghi.

    «Potremmo chiedere aiuto a Sua Maestà: i draghi obbedirebbero a lei, anche se rifiutassero di obbedire a noi».

    «Questo è vero», ammise Dray-yan. «Purtroppo, la nostra regina ha di noi un’opinione scarsa quasi quanto quella dei suoi draghi».

    «Ho alcune idee», replicò Grag, che cominciava a entusiasmarsi, «idee riguardo a come draghi e draconici potrebbero collaborare in modi impossibili per gli umani. Se vuoi, potrei parlarne a Sua Maestà. Credo che quando le avrò spiegato…».

    «Fallo!» esclamò Dray-yan, lieto di essere stato liberato di quel fardello.

    I bozak erano famosi per la loro devozione alla dea, e se c’era qualcuno che Takhisis sarebbe stata disposta ad ascoltare, quello era Grag.

    «Quindi gli umani sono fuggiti», riprese Dray-yan, tornando all’argomento originario della conversazione. «Com’è successo?».

    «I miei uomini hanno cercato di fermarli», si difese Grag, poiché si sentiva sotto accusa per l’accaduto. «Eravamo troppo pochi, questa fortezza è a corto di truppe. Ho richiesto ripetutamente rinforzi, ma sua signoria ha risposto che le truppe erano necessarie altrove. Alcuni guerrieri umani, guidati da un dannato Cavaliere di Solamnia e da un’elfa, hanno tenuto a bada le mie forze mentre altri umani saccheggiavano il magazzino delle scorte e portavano via su carri rubati tutto ciò su cui riuscivano a mettere le mani. Ho dovuto lasciarli andare, perché non avevo abbastanza uomini per inseguirli».

    «Gli umani dovranno dirigersi verso sud, e questo li porterà verso i Monti Kharolis. Con l’inverno alle porte, avranno bisogno di trovare cibo e riparo. In quanti sono fuggiti?».

    «Circa ottocento, tutti quelli che lavoravano nelle miniere. Uomini, donne e bambini».

    «Ah, hanno con loro dei bambini?» commentò Dray-yan, compiaciuto. «Questo li rallenterà. Possiamo prendercela comoda, comandante, e inseguirli con calma. Che mi dici delle miniere? L’esercito ha bisogno di acciaio, e l’imperatore sarà contrariato se le miniere dovranno essere chiuse».

    «Ho qualche idea al riguardo. Quanto agli umani…».

    «Purtroppo, adesso hanno dei capi», si lamentò Grag. «Capi intelligenti, non come quei vecchi idioti, i Cercatori. Sono gli stessi capi che hanno ordito la rivolta degli schiavi e ucciso sua signoria».

    «Quella è stata fortuna, non abilità», ribadì Dray-yan. «Ho visto questi tuoi cosiddetti capi… un elfo mezzosangue, un mago malaticcio e un barbaro selvaggio. Gli altri sono ancora meno degni di nota. Non credo che dovremo preoccuparci troppo per causa loro».

    «Dobbiamo inseguire quegli umani», insistette Grag. «Dobbiamo trovarli e riportarli qui, non solo per mantenere attive le miniere. In loro c’è qualcosa che riveste una vitale importanza per Sua Maestà, che mi ha ordinato di inseguirli».

    «So di cosa si tratta», dichiarò Dray-yan, in tono di trionfo. «Verminaard ne parla nelle sue annotazioni: teme che possano riportare alla luce un vecchio artefatto, un martello o qualcosa del genere. Non ricordo il suo nome».

    Grag scosse il capo, non essendo interessato agli artefatti.

    «Li inseguiremo, Grag, te lo prometto», continuò Dray-yan. «Riporteremo indietro quegli uomini perché lavorino nelle miniere. Quanto alle donne e ai bambini, causano solo problemi, quindi ci limiteremo a eliminarli…».

    «Non eliminare tutte le donne», sogghignò Grag. «I miei uomini hanno bisogno di un po’ di divertimento…».

    Dray-yan contrasse le labbra in una smorfia, perché trovava disgustosa l’innaturale attrattiva che le femmine umane esercitavano su alcuni draconici.

    «Nel frattempo, ci sono altri eventi più importanti che si stanno verificando nel mondo, e che potrebbero avere un impatto significativo sulla guerra e su di noi», disse, poi versò a Grag un bicchiere di vino, lo fece sedere alla scrivania e spinse verso di lui una pila di documenti, continuando: «Esamina queste carte, prestando particolare attenzione a un posto segnato come Thorbardin…»

    1.

    L’accesso di tosse. Un te, caldo.

    I polli non sono aquile

    Raistlin Majere si avvolse stancamente in una coperta per poi stendersi al suolo nella caverna immersa nel buio più totale; cercò di riprendere sonno, ma quasi immediatamente cominciò a tossire. All’inizio si augurò che si trattasse di una crisi di breve durata, come a volte gli accadeva, ma la sensazione di costrizione che gli serrava il torace non accennò ad attenuarsi per cui fu costretto a sollevarsi sulla schiena, lottando per respirare e avvertendo in bocca il sapore del ferro. A tentoni, trovò un fazzoletto e lo premette sulle labbra; l’oscurità assoluta che incombeva nella piccola grotta gli impediva di scorgere alcunché, ma non aveva bisogno di vedere, perché quando allontanò il fazzoletto dalla bocca sapeva benissimo che si era chiazzato di rosso.

    Raistlin era poco più che ventenne, tuttavia a volte aveva la sensazione di avere cent’anni, e che ciascuno di quegli anni gli fosse costato un pesante tributo. La sua salute si era seriamente deteriorata nell’arco di pochi minuti, durante la temuta Prova nella Torre dell’Alta Magia. Prima di affrontarla, Raistlin era un giovane relativamente sano, anche se un po’ gracile, eppure ne era emerso ridotto come un vecchio, con la salute irrimediabilmente compromessa, al punto che neppure gli dei avrebbero saputo risanarlo. I suoi capelli, di un castano rossiccio, erano diventati bianchi; la pelle aveva assunto una lucida tonalità dorata e la sua vista era stata maledetta.

    I profani che non s’intendevano di magia erano rimasti inorriditi: una prova che rovinava in quel modo un giovane non poteva definirsi tale; ai loro occhi era soltanto una sadica tortura. I saggi maghi però sapevano che non era affatto così. La magia era una forza potente, un dono degli dei, un potere che comportava un’enorme responsabilità. In passato c’era stato qualcuno che ne aveva abusato; un tempo i maghi erano giunti assai vicini a distruggere il mondo, ma gli dei della magia erano intervenuti e avevano imposto norme e leggi per l’impiego delle arti magiche; a quel punto, erano autorizzati a impiegarle soltanto quei mortali che erano in grado di affrontare le responsabilità legate al loro uso.

    A tutti i maghi che desideravano progredire nella loro professione era imposta una prova ideata dai loro colleghi che occupavano un’alta carica in seno all’Ordine; per garantire che l’arte magica fosse esercitata solo da coloro che la prendevano sul serio, gli Ordini dell’Alta Magia esigevano che ogni candidato fosse pronto a scommettere la sua stessa vita sull’esito della prova. Il fallimento significava la morte, e perfino il successo non era esente da sacrifici. La prova era infatti congegnata in modo tale da insegnare a ciascuno qualcosa su se stesso.

    Raistlin aveva appreso molte cose, più di quanto avesse desiderato. In quella Torre aveva commesso un atto terribile, da cui una parte di lui si ritraeva con orrore, mentre l’altra parte del suo essere sarebbe stata disposta, in caso di necessità, a sottoporsi di nuovo alla prova. Quell’atto non era stato reale, anche se in quel momento gli era apparso tale; infatti, la prova faceva sprofondare l’aspirante mago in un mondo d’illusione: le scelte compiute in quel mondo lo avrebbero influenzato per il resto della sua vita, seppure fosse uscito vivo da quell’impresa.

    L’atto terribile commesso da Raistlin aveva coinvolto il fratello gemello, Caramon, testimone inorridito dell’accaduto; i due non ne parlavano mai, ma la consapevolezza della terribile esperienza era sempre presente, e gettava un’ombra su entrambi.

    La Prova della Torre era studiata per aiutare un mago a individuare i suoi punti di forza e le sue debolezze, in modo da permettergli di migliorarsi; tale principio regolava anche l’attribuzione di punizioni e di ricompense. Nel caso di Raistlin, la punizione era stata molto dura: la sua salute era stata devastata, la sua vista maledetta. Il mago era uscito dalla prova con le pupille che avevano assunto la forma di clessidre. Affinché apprendesse l’umiltà e la compassione, era stato condannato a vedere accelerato lo scorrere del tempo. Qualsiasi cosa guardasse, che fosse una bella fanciulla o una mela appena colta, invecchiava e avvizziva sotto il suo sguardo.

    E tuttavia le ricompense valevano il tormento. Raistlin aveva conquistato il potere, un potere che lasciava stupefatti, ammirati e spaventati quanti lo conoscevano meglio. Par-Salian, capo del Conclave, gli aveva donato il Bastone di Magius, un artefatto raro e prezioso. Anche se era piegato in due per la tosse, Raistlin allungò comunque una mano a toccare il bastone, perché la sua presenza lo confortava e lo rassicurava; era qualcosa per cui valeva la pena soffrire. Quel bastone magico, che era stato creato da Magius, uno dei maghi più dotati di talento che fossero mai vissuti, gli apparteneva ormai da parecchi anni, e ancora non ne conosceva a fondo tutti i poteri.

    Tossì ancora, sentendosi squarciare il petto, nella carne e nelle ossa. Il solo rimedio per quegli attacchi era un particolare tè alle erbe, che doveva essere bevuto bollente perché avesse la massima efficacia. La grotta che costituiva la sua dimora non disponeva però una fossa per il fuoco né di altri mezzi per scaldare dell’acqua, quindi avrebbe dovuto lasciare il calore della coperta per uscire nella notte in cerca di un po’ di acqua calda.

    Di solito era Caramon a procurargli l’acqua e a preparargli il tè, ma in quel momento era assente. Sano e vigoroso, dal grande cuore e dal corpo massiccio, oltre che dotato di uno spirito generoso, il gemello di Raistlin era fuori nella notte, da qualche parte a fare allegramente baldoria con gli altri invitati al matrimonio di Riverwind e di Goldmoon.

    L’ora era molto tarda, la mezzanotte era passata da un pezzo, e tuttavia Raistlin riusciva ancora a sentire le risa e la musica che accompagnavano i festeggiamenti, ed era infuriato con Caramon perché lo aveva abbandonato e se n’era andato a divertirsi con qualche ragazza, probabilmente con Tika Waylan, lasciando il gemello malato a cavarsela da solo. Semisoffocato, Raistlin cercò di alzarsi in piedi e quasi rovinò al suolo. Afferrata a una sedia, vi si lasciò cadere per poi accasciarsi, poggiando la testa sul tavolo traballante che Caramon aveva realizzato servendosi di una cassa da imballaggio.

    «Raistlin?» lo chiamò una voce allegra proveniente dall’esterno. «Stai dormendo? Ho qualcosa da chiederti!».

    «Tas!» Raistlin cercò di pronunciare il nome del kender, ma fu interrotto da un nuovo attacco di tosse.

    «Oh, bene», continuò la voce allegra, nel sentire i colpi di tosse, «sei ancora sveglio».

    Tas (diminutivo di Tasslehoff) Burrfoot avanzò saltellando nella grotta.

    Anche se gli era stato ripetutamente spiegato che in una società civile si bussa sempre alla porta (in quel caso alla copertura di rami intrecciati che nascondeva l’ingresso della grotta) e si aspetta di essere invitati a entrare prima di farsi avanti, Tas aveva una notevole difficoltà ad adattarsi a quell’usanza che era estranea ai kender. Costoro, infatti, chiudevano le porte soltanto per chiudere fuori i rigori del clima e i bugbear in vena di razzie (anzi, talvolta lasciavano entrare anche i bugbear, se erano interessanti). Tas, quand’anche si ricordava di bussare, in genere lo faceva mentre già stava entrando, e questo se l’occupante della stanza era fortunato. Altrimenti, come aveva fatto anche in quell’occasione, prima entrava e poi bussava.

    Sollevata la copertura di rami, sgusciò agilmente all’interno, preceduto dalla luce intensa di una lanterna.

    «Salve, Raistlin», disse arrestandosi accanto al giovane mago e avvicinando una mano sudicia e la lanterna al viso del mago. «Che razza di penna è questa?».

    I kender sono una razza minuscola, lontani parenti dei nani (così almeno dicevano tutti, tranne ovviamente i nani). Impavidi e molto curiosi, i kender amano sfoggiare abiti dai colori sgargianti e sacche di cuoio, oltre che collezionare oggetti interessanti da riporre nelle suddette sacche. Ottimisti per natura, purtroppo, tendono ad allungare un po’ troppo le mani. Definire ladri i kender non è però del tutto corretto, dal momento che il furto non rientra nei loro obiettivi. Casomai amano «prendere in prestito», ovviamente con tutta l’intenzione di restituire il maltolto, anche se è molto difficile indurre a crederlo le persone dalla mentalità ristretta, soprattutto quando si ritrovano la mano di un kender infilata nella borsa.

    Tasslehoff era un tipico esemplare della sua razza, un esserino alto circa un metro e venti, a seconda dell’altezza della sua coda di cavallo. Tas ne era particolarmente orgoglioso, e spesso la adornava come aveva fatto quella notte, con delle foglie di acero rosso. Fermo di fronte a Raistlin, il kender aveva un ampio sorriso stampato sul volto; gli occhi leggermente obliqui brillavano e le orecchie appuntite vibravano per l’eccitazione.

    Raistlin lo fissò con occhi di brace, concentrando nello sguardo tutta la furia di cui era capace in quel momento, considerato che era accecato dalla luce improvvisa e che stava quasi morendo soffocato. Tendendo una mano, afferrò il polso del kender e lo strinse.

    «Acqua calda!» farfugliò affannosamente. «Tè!».

    «Del tè?» ripeté Tas, cogliendo a stento l’ultima parola. «No, grazie, ho appena mangiato».

    Raistlin tossì ancora nel fazzoletto, che risultò macchiato di sangue quando lo allontanò dalle labbra, poi riprese a fissare con ira Tas, che infine comprese.

    «Oh, sei tu che vuoi il tè! Quel tè che Caramon ti prepara sempre per la tua tosse. Caramon non è qui a preparartelo, e tu non puoi farlo da solo perché stai tossendo. Il che significa…» Tas esitò, non volendo rischiare di fraintendere il mago.

    Raistlin puntò il dito tremante verso il boccale vuoto sul tavolo.

    «Tu vuoi che vada a prenderti dell’acqua!» esclamò Tas, balzando in piedi. «Non ci metterò neppure un minuto!».

    E saettò fuori, lasciando scostata la copertura di rami intrecciati, cosicché la gelida aria notturna penetrò nella grotta, strappando un brivido di freddo a Raistlin, che si riaggiustò la coperta intorno alle spalle mentre riprendeva a tossire violentemente.

    Tas rientrò qualche istante dopo.

    «Ho dimenticato il boccale», si scusò, afferrò l’oggetto in questione e corse di nuovo fuori.

    «Chiudi la…» farfugliò Raistlin, ma non riuscì a concludere la frase: il kender se n’era già andato, l’ingresso della grotta era ancora spalancato.

    Raistlin lasciò vagare lo sguardo nella notte. I rumori dei festeggiamenti erano saliti d’intensità, e riusciva a scorgere alla luce dei fuochi le sagome degli ospiti che danzavano. I due sposi, Riverwind e Goldmoon, probabilmente si erano già ritirati nella stanza nuziale, dove si erano forse già abbandonati l’uno nelle braccia dell’altra; un momento di gioia che rappresentava il culmine del loro amore dopo le prove, i dolori, i lutti e il lungo viaggio affrontati insieme.

    Questo è tutto quello che avranno, pensò Raistlin, un breve momento, una scintilla che divamperà per un istante prima d’essere calpestata dal fato che si sta avvicinando a grandi passi.

    Il mago era il solo ad avere abbastanza cervello da esserne consapevole. Perfino Tanis Mezzelfo, che aveva più buon senso della maggior parte dei membri di quel gruppo, si era abbandonato a un effimero senso di pace e di sicurezza.

    «La Regina delle Tenebre non è stata sconfitta», li aveva ammoniti Raistlin, qualche ora prima.

    «Forse non abbiamo vinto la guerra», aveva ribattuto Tanis, «ma ci siamo aggiudicati un’importante battaglia…».

    Raistlin aveva scosso il capo di fronte a tanta ingenuità.

    «Non vedi nessuna speranza?» gli aveva chiesto Tanis.

    «Sperare significa negare la realtà», era stata la risposta di Raistlin. «La speranza è la carota che si fa dondolare davanti al muso del cavallo da soma per indurlo ad avanzare facendogli credere che potrà raggiungerla».

    Si sentiva piuttosto orgoglioso di quella similitudine, e sorrise nel ripensarci. Poi un nuovo attacco di tosse gli cancellò il sorriso dal volto e interruppe il flusso dei suoi pensieri. Quando si fu ripreso tornò a guardare fuori dalla grotta, cercando di individuare il kender alla luce della luna. Era come appoggiarsi a una fragile canna, e lo sapeva bene: molto probabilmente quello sventato di un kender si sarebbe lasciato di­strarre da qualcosa dimenticandosi completamente di lui.

    «Nel qual caso, entro domattina sarò morto», borbottò, sentendo crescere l’irritazione nei confronti di Caramon. Poi i suoi pensieri tornarono alla conversazione con Tanis.

    «Mi stai dicendo che ci dovremmo arrendere?» gli aveva chiesto Tanis.

    «Ti dico che dovremmo allontanare la carota e continuare ad avanzare a occhi bene aperti», gli aveva risposto Raistlin. «Come farai a combattere contro i draghi, Tanis? Perché ce ne saranno altri: più di quanti tu possa immaginare! Dov’è Huma, adesso? E dove sono le favolose lance per draghi?».

    Il mezzelfo non aveva saputo replicare, ma era rimasto colpito dalle osservazioni di Raistlin; poi si era allontanato per prendersi una pausa di riflessione. Una volta celebrato il matrimonio, forse sarebbe stato possibile invogliare gli altri a dare una buona occhiata alla cupa realtà in cui si trovavano. L’autunno stava per terminare, il gelido vento delle montagne che soffiava dall’entrata recava con sé il presagio dei mesi invernali ormai imminenti.

    Raistlin ricominciò a tossire, e quando risollevò la testa si trovò davanti il kender.

    «Sono tornato», annunciò allegramente Tasslehoff, anche se era superfluo. «Mi dispiace di essere stato così lento, ma non volevo versarne neanche una goccia».

    Con cautela, posò il boccale fumante sul tavolo e si guardò intorno alla ricerca della sacca delle erbe per poi scovarla a terra poco lontano; la raccolse e la aprì di scatto.

    «Devo semplicemente rovesciare tutto qui dentro…».

    Raistlin gli tolse di mano le preziose erbe e lasciò cadere con cura delle foglie nell’acqua bollente, fissandole intensamente mentre vorticavano sulla superficie e infine si depositavano sul fondo della tazza; nel frattempo, l’acqua si era scurita e un odore pungente si era diffuso nell’aria. Sollevando il boccale con mani tremanti, Raistlin se lo portò alle labbra.

    L’infuso era un dono dell’arcimago Par-Salian, e Raistlin aveva sempre pensato con amarezza che con quel dono avesse inteso alleviare il senso di colpa che gli gravava sulla coscienza. L’infuso emolliente gli scivolò nella gola e quasi immediatamente gli spasmi cessarono; il senso di soffocamento, che gli dava l’impressione di avere come «delle ragnatele nei polmoni», svanì e Raistlin trasse un profondo respiro.

    «Quella roba ha l’odore di uno spuntino dei nani di fosso», commentò Tas, arricciando il naso. «Sei certo che ti faccia star meglio?».

    Raistlin seguitò a sorseggiare il tè, crogiolandosi nel calore che emanava.

    «Ora che riesci a parlare, devo farti una domanda riguardo a questa penna», continuò Tas. «Dove l’ho messa…».

    E prese a frugarsi nelle tasche della giacca.

    «Sono esausto, e mi piacerebbe tornare a letto», implorò Raistlin, scrutando con freddezza il kender, «ma suppongo che non riuscirò a liberarmi di te, vero?».

    «Ti ho portato l’acqua calda, giusto?» gli ricordò Tas, che poi assunse un’espressione corrucciata, soggiungendo: «La mia penna non è qui».

    Raistlin si concesse un profondo sospiro nel guardare il kender che continuava a frugarsi nelle tasche decorate con un cordoncino dorato «preso a prestito» da un mantello cerimoniale in cui si era imbattuto da qualche parte. Non riuscendo a trovare quello che stava cercando, Tas passò al setaccio le tasche degli ampi pantaloni e infine cominciò a frugarsi negli stivali. Raistlin non ne aveva la forza, altrimenti lo avrebbe buttato di peso fuori dalla grotta.

    «È colpa di questa giacca nuova», si lamentò Tas. «Non so mai dove rintracciare le cose».

    Aveva infatti scartato gli abiti che aveva indossato in precedenza a favore di un nuovo abbigliamento, messo insieme nelle ultime settimane attingendo ai capi di vestiario scartati o abbandonati dai profughi di Pax Tharkas, in compagnia dei quali stavano ora viaggiando.

    Quei profughi erano stati schiavi, costretti a lavorare nelle miniere di ferro per il Signore dei Draghi Verminaard, che era stato ucciso nell’insurrezione guidata da Raistlin e dai suoi amici. Dopo la liberazione i prigionieri erano fuggiti con loro nella regione montuosa a sud della città di Pax Tharkas. Anche se era difficile a credersi quell’irritante kender, Tasslehoff Burrfoot, era stato uno degli eroi dell’insurrezione: lui e un anziano mago piuttosto svagato, che si faceva chiamare con il nome grandioso di Fizban il Favoloso, avevano attivato inavvertitamente un meccanismo che aveva fatto precipitare tonnellate di massi giù per un passo montano, bloccando dall’altro lato l’esercito draconico e impedendogli di entrare in città per soffocare l’insurrezione.

    Verminaard era morto per mano di Tanis e di Sturm Brightblade. La spada magica del leggendario re elfico Kith-Kanan e la spada ereditaria del Cavaliere di Solamnia, Sturm Brightblade, avevano trapassato l’armatura del Signore dei Draghi ed erano affondate in profondità nel suo corpo. In alto, intanto, due draghi rossi avevano combattuto fra loro fino alla morte, il loro sangue che ricadeva come un’orribile pioggia sugli spettatori terrorizzati.

    Tanis e gli altri si erano poi affrettati ad assumere il controllo della caotica situazione. Alcuni degli schiavi avrebbero voluto vendicarsi dei mostruosi draconici che erano stati i loro padroni ma Tanis, Sturm ed Elistan, consapevoli che la loro sola speranza di sopravvivenza era nella fuga, avevano persuaso quegli uomini e quelle donne del fatto che gli dei avevano elargito loro una splendida opportunità per fuggire e portare al sicuro le loro famiglie.

    Tanis aveva organizzato delle squadre di lavoro, inviando le donne e i bambini a raccogliere tutte le scorte che riuscivano a trovare e facendogliele caricare sui carri usati per trasportare minerale dalle miniere: cibo, coperte, attrezzi, tutto ciò che ritenevano potesse essere necessario durante la loro marcia verso la libertà.

    Il nano, Flint Fireforge, che era nato e cresciuto fra quelle montagne, si era messo a capo di alcuni esploratori scelti fra gli Uomini delle Pianure che erano stati presenti fra gli schiavi, guidando una spedizione verso sud alla ricerca di un rifugio sicuro per i fuggitivi. Gli esploratori avevano scoperto una valle annidata fra i picchi dei monti Kharolis; anche se le cime delle montagne erano già imbiancate dalla neve, la valle sottostante era ancora verde e lussureggiante, le foglie a stento segnate dal rosso e dall’oro dell’autunno, e la selvaggina abbondava; inoltre, la valle era attraversata da una rete di limpidi ruscelli e le sue pendici erano traforate da grotte che potevano essere utilizzate come abitazioni, magazzini per i viveri e rifugio in caso di attacco.

    In quei primi giorni i profughi si erano aspettati di essere attaccati da un momento all’altro dai draghi, di essere braccati da quegli immondi uomini-drago noti come draconici, ed era in effetti possibile che fossero stati inseguiti, dato che l’esercito draconico era perfettamente in grado di scalare il passo che dava accesso alla valle. Sorprendentemente Era stato Caramon, il gemello di Raistlin, ad avere l’idea di bloccare il passo provocando una valanga.

    Era stata la magia di Raistlin, un devastante incantesimo del fulmine che lui aveva appreso da un libro per incantesimi blu notte acquisito nella città sprofondata di Xak Tsaroth, a produrre il tuono devastante che aveva smosso i cumuli di neve e fatto rotolare giù per il passo gli enormi macigni. Poi altra neve era caduta sulla frana, per giorni e notti, intasando completamente il passo, al punto che ora nessuna creatura, neppure quegli uomini lucertola dotati di ali e di artigli, poteva entrare nella valle.

    Per i profughi quei giorni erano passati in un’atmosfera di pace e di tranquillità, che aveva indotto la gente a rilassarsi. Le foglie rosse e oro erano cadute al suolo, tingendosi di marrone, il ricordo dei draghi e il terrore della prigionia si erano offuscati nella memoria: al sicuro, comodi e protetti, i profughi avevano cominciato a parlare di trascorrere là l’inverno, progettando di riprendere in primavera il loro viaggio verso sud. Avevano parlato di costruire rifugi permanenti, di smantellare i carri e di usare il loro legno per erigere rozze capanne, oppure di costruire abitazioni di pietra e zolle che li tenessero al caldo quando le gelide piogge e le nevicate invernali si fossero infine abbattute anche sulla valle.

    Al pensiero, Raistlin arricciò le labbra in un sogghigno di disprezzo.

    «Ora vado a letto», annunciò.

    «L’ho trovata!» esclamò Tasslehoff, ricordando all’ultimo momento di aver riposto la penna in un posto sicuro, infilata nel nodo della sua coda di cavallo.

    Sfilata la penna dai capelli, la protese tenendola sul palmo della mano: maneggiandola con cura, come se fosse stata un prezioso gioiello, la fissò con reverenziale meraviglia.

    «È una penna di pollo», dichiarò Raistlin, fissando con disprezzo la penna in questione, poi si alzò in piedi, si strinse le lunghe vesti rosse intorno al corpo emaciato e tornò al pagliericcio steso sul pavimento di terra battuta.

    «Ah, lo pensavo», mormorò Tasslehoff.

    «Chiudi la porta quando esci», ordinò Raistlin. Sdraiatosi sul pagliericcio, si avvolse nella coperta e chiuse gli occhi. Stava scivolando nel sonno quando una mano gli scosse la spalla, ridestandolo.

    «Cosa c’è?» chiese, secco.

    «Questo è molto importante», affermò Tas in tono solenne, chinandosi su Raistlin e riversandogli in faccia un’alitata dell’aglio mangiato a cena. «I polli possono volare?».

    Raistlin chiuse gli occhi. Dopotutto, forse, quello era soltanto un brutto sogno.

    «So che hanno le ali», continuò Tas, «e so che i galli possono svolazzare fino in cima al pollaio in modo da poter cantare quando sorge il sole, ma quello che mi stavo chiedendo è se i polli possono volare in alto, come le aquile. Perché, vedi, questa penna è fluttuata giù dal cielo e io ho sollevato lo sguardo, ma non ho visto passare in volo nessun pollo, e poi mi sono reso conto di non aver mai visto un pollo volare…».

    «Esci di qui!» ringhiò Raistlin, allungando la mano verso il Bastone di Magius, posato accanto al letto, «altrimenti io…».

    «... mi trasformerai in un rospo e mi darai in pasto a un serpente. Sì, lo so», sospirò Tas, raddrizzandosi. «Riguardo ai polli…».

    Raistlin sapeva che il kender non lo avrebbe mai lasciato in pace, neppure di fronte alla minaccia di essere trasformato in un rospo, cosa che comunque lui attualmente non aveva la forza di fare.

    «I polli non sono aquile, non possono volare», disse quindi.

    «Grazie!» esclamò gioiosamente Tasslehoff. «Lo sapevo! I polli non sono aquile!».

    Poi scagliò di lato la schermatura, lasciandola spalancata e dimenticando la lanterna, la cui luce batteva dritta negli occhi di Raistlin. Questi stava appena cominciando ad assopirsi quando la voce acuta di Tasslehoff tornò a destarlo di colpo.

    «Caramon! Eccoti qui!» gridò il kender. «Sai una cosa? I polli non sono aquile! Non possono volare! Lo ha affermato Raistlin. C’è speranza, Caramon! Tuo fratello si sbaglia di grosso, non riguardo ai polli, ma riguardo alla speranza. Questa penna è un segno! Fizban ha lanciato un incantesimo che ha chiamato della caduta di piuma per salvarci quando stavamo precipitando dalla catena. L’incantesimo avrebbe dovuto farci cadere piano, come delle piume, ma la sola cosa che è caduta sono state le penne, penne di pollo. Quelle penne però hanno salvato me, anche se non Fizban».

    La voce di Tas si spense in un singhiozzo, mentre lui pensava tristemente all’amico morto.

    «Hai infastidito Raist?» domandò Caramon.

    «No, l’ho aiutato!» ribatté Tas, con fare orgoglioso. «Raistlin stava morendo soffocato, come gli succede, sai. Stava tossendo e sputando sangue! Io l’ho salvato, sono corso a prendere l’acqua che gli serviva per fare quella cosa orribile che beve. Adesso sta meglio, quindi non ti devi preoccupare. Ehi, Caramon, non vuoi sentire dei polli…».

    Caramon non voleva ascoltare. Raistlin udì il martellare affrettato dei grossi stivali del gemello che correvano verso la caverna.

    «Raist!» gridò Caramon, in tono ansioso. «Stai bene?».

    «Non grazie a te», borbottò Raistlin, raggomitolandosi maggiormente nella coperta, con gli occhi chiusi. Del resto, poteva vedere benissimo Caramon anche senza guardarlo.

    Grosso e muscoloso, ampio di spalle, sorridente, cordiale e di bell’aspetto, suo fratello era l’amico di tutti, ed era adorato da tutte le ragazze.

    «Sono stato lasciato alle tenere cure di un kender», aggiunse, «mentre tu te la spassavi con la prosperosa Tika».

    «Non parlare di lei in questo modo, Raist», ribatté Caramon, una nota aspra nella voce solitamente gioviale. «Tika è una brava ragazza. Abbiamo ballato, niente altro».

    Raistlin si limitò a grugnire.

    Per un momento Caramon rimase fermo dove si trovava, strisciando a terra i grossi piedi.

    «Mi dispiace di non essere stato qui a prepararti il tè», affermò poi, in tono contrito. «Non mi ero reso conto che fosse così tardi. Posso… posso portarti qualcosa? Fare qualcosa per te?».

    «Puoi smettere di parlare, chiudere quella che passa per una porta e spegnere quella dannata luce!».

    «Sì, Raist, certo».

    Caramon raccolse il paravento di rami intrecciati e lo rimise a posto, poi spense la candela posta nella lanterna e si spogliò al buio.

    Cercò di fare in silenzio, ma grande e grosso com’era, l’opposto sano e muscoloso del suo più debole gemello, inciampò nel tavolo, rovesciò una sedia e una volta, a giudicare dalle sue imprecazioni, sbatté con la testa contro il muro della caverna mentre annaspava al buio alla ricerca del suo materasso.

    Raistlin serrò i denti e attese in silenzio, ribollente di rabbia, finché Caramon si fu infine sistemato. Ben presto suo fratello cominciò a russare, e Raistlin, che era stato tanto stanco, si ritrovò invece ben desto, incapace di prendere sonno.

    Fissò l’oscurità, per nulla accecato da essa come lo erano il suo gemello e tutti gli altri, perché i suoi occhi vedevano ciò che viveva all’interno.

    «Penne di pollo!» borbottò con disprezzo, e ricominciò a tossire.

    2.

    L’alba di un nuovo giorno.

    Nostalgia di casa

    Tanis Mezzelfo si svegliò con la testa che gli scoppiava come per i postumi di una sbornia, e questo senza che avesse bevuto. Quel malessere non derivava infatti dall’aver trascorso la notte divertendosi, danzando e bevendo troppa birra, ma dall’essere rimasto sveglio a preoccuparsi per buona parte delle ore notturne.

    La notte precedente, Tanis aveva lasciato di buon’ora la festa nuziale, il cui spirito allegro aveva un effetto stridente sul suo animo. La musica troppo alta lo induceva a sussultare e a guardarsi alle spalle, timoroso che stessero rivelando la loro presenza ai nemici, e avrebbe voluto dire ai musicisti, che ci davano dentro con i loro rozzi strumenti, di non suonare così rumorosamente. C’erano occhi che li osservavano dall’oscurità, orecchi che li ascoltavano. Alla fine era andato a cercare Raistlin, constatando che la compagnia di quel cinico mago dall’anima oscura era più in tono con i suoi sentimenti altrettanto oscuri e decisamente pessimistici.

    Quella visita gli era però costata cara, perché quando si era infine addormentato aveva sognato cavalli e carote, di essere lui stesso un cavallo da tiro che continuava a camminare pazientemente in circolo, in un cerchio infinito, cercando invano quella carota che non avrebbe mai potuto raggiungere.

    «All’inizio, quella carota era un bastone con un cristallo azzurro», borbottò in tono risentito, massaggiandosi la fronte dolorante. «Abbiamo dovuto salvare il bastone e impedire che cadesse nelle mani sbagliate, e quando lo abbiamo fatto abbiamo scoperto che non era abbastanza. Poi abbiamo dovuto andare fino a Xak Tsaroth per ritrovare il dono più grande elargito dal dio, i sacri Dischi di Mishakal, solo per scoprire che non eravamo in grado di leggerli. A quel punto

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