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E-book137 pagine1 ora

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Info su questo ebook

La Casa del Flowerstick è il tipico appartamento di studenti fuori sede: arredamento variopinto e di epoche diverse, buio ma carino, nel centro di Bologna e con un affitto abbastanza abbordabile. I suoi inquilini sono cinque ragazzi appena ventenni arrivati in città con la voglia di credere ancora in un ideale e coltivarlo, a volte con sfrontatezza e boriosità; l’importante è esserci, partecipare, lottare. Amelia e i suoi amici vivono in una bolla che li porta a confrontarsi solo con loro simili e se da un lato tendono all’autoesclusione dall’altro sono coraggiosi, volitivi, entusiasmanti e capaci di credere in un futuro migliore e più giusto. Cosa accadrà quando si scontreranno con i loro omologhi di area politica avversa? L’incontro fra opposti è uno scontro di simili e i ragazzi scopriranno sulla loro pelle il prezzo degli estremismi.
A dieci anni dalla sua prima pubblicazione A metà torna in tutta la sua attualità a tormentarci e a farci sognare. Ambientato in una Bologna irriconoscibile e allo stesso tempo identica - dove i cortei contro la riforma della Scuola e dell’Università sono stati sostituiti da quelli per i diritti dei migranti - questo romanzo continua a farci riflettere sulla necessità di imparare a convivere con le differenze e di fare i conti con l’ipocrisia che si nasconde in ognuno di noi, con dolcezza e senza pietà. Possibilmente innamorandosi degli altri e della vita, imparando dagli errori e non smettendo mai di credere nella possibilità di una mediazione.

Lorena Fonti è nata a Rimini l’11 aprile del 1989 sotto il segno delle rivoluzioni. Le varie crisi economiche, politiche e culturali l’hanno portata, come quasi tutti i suoi coetanei, a maturare un certo senso dell’umorismo. Studia Antropologia Culturale ed Etnolinguistica a Venezia, ha una laurea in Storia e una in Scienze per l’Ambiente e la Cultura. Adora viaggiare, andare a teatro e studiare. Per Albatros ha pubblicato anche Gennaio nel 2020.
 
LinguaItaliano
Data di uscita31 ott 2020
ISBN9788830629271
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    Anteprima del libro

    A metà - Lorena Fonti

    © 2020 Gruppo Albatros Il Filo S.r.l., Roma

    www.gruppoalbatros.com - info@gruppoalbatros.com

    ISBN 978-88-306-2449-8

    I edizione ottobre 2020

    Nuove Voci

    Prefazione di Barbara Alberti

    Il prof. Robin Ian Dunbar, antropologo inglese, si è scomodato a fare una ricerca su quanti amici possa davvero contare un essere umano. Il numero è risultato molto molto limitato. Ma il professore ha dimenticato i libri, limitati solo dalla durata della vita umana.

    È lui l’unico amante, il libro. L’unico confidente che non tradisce, né abbandona. Mi disse un amico, lettore instancabile: Avrò tutte le vite che riuscirò a leggere. Sarò tutti i personaggi che vorrò essere.

    Il libro offre due beni contrastanti, che in esso si fondono: ci trovi te stesso e insieme una tregua dall’identità. Meglio di tutti l’ha detto Emily Dickinson nei suoi versi più famosi

    Non esiste un vascello come un libro

    per portarci in terre lontane

    né corsieri come una pagina

    di poesia che s’impenna.

    Questa traversata la può fare anche un povero,

    tanto è frugale il carro dell’anima

    (Trad. Ginevra Bompiani).

    A volte, in preda a sentimenti non condivisi ti chiedi se sei pazzo, trovi futili e colpevoli le tue visioni che non assurgono alla dignità di fatto, e non osi confessarle a nessuno, tanto ti sembrano assurde.

    Ma un giorno puoi ritrovarle in un romanzo. Qualcun altro si è confessato per te, magari in un tempo lontano. Solo, a tu per tu con la pagina, hai il diritto di essere totale. Il libro è il più soave grimaldello per entrare nella realtà. È la traduzione di un sogno.

    Ai miei tempi, da adolescenti eravamo costretti a leggere di nascosto, per la maggior parte i libri di casa erano severamente vietati ai ragazzi. Shakespeare per primo, perfino Fogazzaro era sospetto, Ovidio poi da punizione corporale. Erano permessi solo Collodi, Lo Struwwelpeter, il London canino e le vite dei santi.

    Una vigilia di Natale mio cugino fu beccato in soffitta, rintanato a leggere in segreto il più proibito fra i proibiti, L’amante di Lady Chatterley. Con ignominia fu escluso dai regali e dal cenone. Lo incontrai in corridoio per nulla mortificato, anzi tutto spavaldo, e un po’ più grosso del solito. Aprì la giacca, dentro aveva nascosto i 4 volumi di Guerra e pace, e mi disse: Che me ne frega, a me del cenone. Io, quest’anno, faccio il Natale dai Rostov.

    Sono amici pazienti, i libri, ci aspettano in piedi, di schiena negli scaffali tutta la vita, sono capaci di aspettare all’infinito che tu li prenda in mano. Ognuno di noi ama i suoi scrittori come parenti, ma anche alcuni traduttori, o autori di prefazioni che ci iniziano al mistero di un’altra lingua, di un altro mondo.

    Certe voci ci definiscono quanto quelle con cui parliamo ogni giorno, se non di più. E non ci bastano mai. Quando se ne aggiungono altre è un dono inatteso da non lasciarsi sfuggire.

    Questo è l’animo col quale Albatros ci offre la sua collana Nuove voci, una selezione di nuovi autori italiani, punto di riferimento per il lettore navigante, un braccio legato all’albero maestro per via delle sirene, l’altro sopra gli occhi a godersi la vastità dell’orizzonte. L’editore, che è l’artefice del viaggio, vi propone la collana di scrittori emergenti più premiata dell’editoria italiana. E se non credete ai premi potete credere ai lettori, grazie ai quali la collana è fra le più vendute. Nel mare delle parole scritte per esser lette, ci incontreremo di nuovo con altri ricordi, altre rotte. Altre voci, altre stanze.

    nota dell'autrice

    Ho ragionato a lungo sul fatto di rimettere tastiera su A Metà. Insomma, fra le righe fanno capolino infantilismi imbarazzanti. Ma ogni volta mi fermo. Non ce la faccio. Quella che emerge dalle pagine è la narrazione di una persona di diciannove anni e le correzioni di una più morigerata trentenne non possono che snaturarne il senso. Se non fossi stata alla soglia della decade dei venti quando ho scritto questo libro, forse non lo avrei neanche mai pubblicato, perché ci vuole molto coraggio a credere in se stessi. Così non ho corretto quasi niente. Neanche le bambinate. Perché sono le bambinate a ricordarmi ogni volta che rileggo questo libro che all’epoca non potevo avvalermi del senno di poi. Col senno di poi sono tutti capaci a sentirsi completi o saggi. A metà è un brivido sulla schiena in motorino di notte sulla statale. Questo è sempre stato e questo deve restare. Col suo assurdo linguaggio scapestrato di scrittrice, di adulta, a metà.

    Ogni riferimento a persone o fatti realmente accaduti è puramente casuale. La vicenda qui descritta è completamente frutto della mia fantasia. Ci tengo a specificare che il movimento skin-head è qualcosa di differente e indipendente dal movimento naziskin. Non vanno confusi.

    Dato che il nero non passa mai di moda specifico anche che il libro non ha intenti celebrativi: gli eccessi sanno rendere simili persino gli opposti e come tali vanno rifuggiti. La violenza e la prevaricazione non hanno giustificazione, neppure nei passati traumatici e il libro non difende chi le trasforma illusoriamente in bandiere di pensiero, semplicemente li racconta.

    Che Pasa è volutamente scritto così, non è un errore di battitura, ma un omaggio dei protagonisti a Che Guevara.

    4 Aprile 2020

    (durante la quarantena)

    Capitolo primo

    Deboli raggi di sole penetravano dagli interstizi della vecchia serranda di legno del modesto appartamento. Aprii gli occhi ancora impiastricciati e semichiusi per il sonno. Osservai la polvere danzare davanti a me, illuminata dal tiepido sole di fine novembre. Presto sarebbe suonata la sveglia, la Casa del Flowerstick si sarebbe svegliata e mi sarei trovata immersa in corse per il bagno, bomboloni e caffè.

    Mi godevo la quiete prima della tempesta e pensavo.

    Mi chiamo Amelia all’epoca avevo diciannove anni, una vita apparentemente perfetta e nessun problema all’orizzonte. Forse era proprio per questo che non mi sentivo per niente felice. Sarà stata una questione ormonale. In tivù dicono sempre che è una questione ormonale o, al massimo di stress. La realtà è che non si capisce bene perché ma la gente vuole sempre ciò che non ha. Fatto sta che mentre mi crogiolavo nei miei rimasugli post-adolescenziali scattò la sveglia. Rossana si agitò fra le lenzuola ma non disse una parola. Per tacito accordo la lasciammo suonare, ci piaceva la canzone che avevamo impostato: Manifesto della Bandabardò. Ti faceva sentire ribelle e nullafacente allo stesso tempo. Ti svegliavi con una nota di anarchia prima di reinserirti per l’ennesima volta nelle carreggiate della quotidianità.

    Qualcuno già armeggiava in cucina. Mi alzai svogliata, mi stropicciai gli occhi e mi diressi anch’io verso l’agognata colazione. Una sgangherata caffettiera gorgogliava e ci preparava la nostra giornaliera tanica di droga della Coop. Angela preparò per sé e per Alberto i salutarissimi cereali, Rossana per poco non ribaltò il suo succo A.C.E.

    State assistendo a un risveglio tipo in un vecchio appartamento nel centro di Bologna, un po’ buio ma carino e con un affitto abbastanza abbordabile. Questa tana, nota ai più come la Casa del Flowerstick per via del bellissimo attrezzo di giocoleria appeso all’ingresso, era abitata da soggetti pericolosi quali la sottoscritta Mel (nome di battesimo Amelia Zanardi), la Gella (Angela Esposti), il Grad (Alberto Gradara), Ros (Rossana Marescotti) e Raoul (Raoul Geber, figlio di ucraino e italiana con faccia da Gipsy stile Gogol Bordello).

    Mi scolai il mio sano mezzo litro di oro nero e mi ersi in tutta l’imponenza del mio metro e sessanta. Mi avviai con passo militare davanti alla porta del bagno e tuonai come i cannoni di Waterloo.

    «Io non dico per tutti i cinque anni ma almeno al primo esame avrò lo stramaledetto diritto di arrivare puntuale?».

    Ogni giorno era la stessa storia ma per l’ennesima volta Raoul non ne volle sapere di uscire dalla Corte dei Miracoli e così dovetti rassegnarmi a pettinare al volo i miei capelli arancioni (frutto di una fallita tinta casalinga di Ros) e a truccare appena i miei occhi ultra miopi. Indossai calzoni a zampa, camicetta, golfino e via col mio aspetto un po’ incazzato da sessantottina anche se al tempo di Woodstock io non ero prevista neanche negli archivi più remoti del Grande Capo. Aprii il portone mentre gli altri ancora chiacchieravano.

    «A dopo».

    «Oh fa sapere com’è andata».

    «Bien, a pranzo sono fuori».

    «Col Ghe?».

    «Sì» biascicai in tono sommesso.

    Uscii in strada, il freddo mi avvolse, avanzai stringendomi forte nel cappotto. Inforcai la bici e permisi al vento di stuzzicarmi il naso fino a farmi starnutire, nella mia mente turbinavano pensieri.

    Non ero tesa per l’esame, anche se avrei dovuto esserlo, il punto è che stavo per compiere un atto che mi avrebbe sicuramente rivoluzionato, nel senso più letterale del termine, la vita. Per raccontarvi di questo devo prima spiegarvi chi è il Ghe.

    Elia Gennari, altri non era che la mia enorme, giga storia d’amore.

    Le origini risalivano ai tempi remoti in cui, ancor giovane pischella, frequentavo la prima liceo a Rimini. Ci eravamo conosciuti quell’Estate: da Reggio Emilia Elia era venuto sulla Riviera Romagnola per lavorare e aveva fatto amicizia con alcuni ragazzi che frequentavo anch’io.

    Mi fermai a un semaforo, avevo le mani congelate, le guance arrossate facevano contrasto col colore vivo dei miei capelli, mi coprii la bocca con la sciarpa e passai col rosso. Elia era stato l’amore più importante della mia vita, la storia più intensa e duratura che avessi mai avuto; un brivido freddo mi attraversò la schiena rapido come un’ambulanza sulla tangenziale. Non era per l’aria gelida, era per un altro tipo di inverno, molto più devastante. Scesi agile dalla bici e corsi su per le scale della facoltà, esageratamente in ritardo. Gli altri ragazzi

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