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Io sono il cattivo
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Io sono il cattivo

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About this ebook

Questo è un viaggio nelle menti e nelle imprese di alcuni dei più feroci, astuti e talentuosi criminali del nostro tempo.
Sono tutti cattivi, da al-Baghdadi a Laurent Nkunda, da Sandra Avila Beltran a Moktar Belmoktar: trafficanti, terroristi, ladri, ribelli che hanno ucciso, rubato, torturato, trafficato, fatto soldi.
Il tutto per scopi diversissimi tra loro. Il filo rosso che li lega è il territorio del Male.
L'autore lo ha esplorato per anni, viaggiando tra Africa e Medio Oriente, poi lo ha raccontato nella serie di successo firmata dalla coproduzione Audible e Radio 24 "Io sono il cattivo", e ora ha deciso di mettere nero su bianco alcune di quelle storie. Se quel territorio vi intriga e incuriosisce... buona lettura, anzi cattivissima lettura!
LanguageItaliano
PublisherIlSole24Ore
Release dateAug 6, 2020
ISBN9788863457407
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    Io sono il cattivo - Giampaolo Musumeci

    Nella mente dei cattivi

    Esiste una zona d’ombra nella quale si muovono alcuni esseri umani. Una ampia zona d’ombra che, se adeguatamente illuminata, ci svelerà tante cose. È una zona che alcuni sfiorano, magari inconsapevolmente, altri attraversano coscienti, altri ancora decidono di abitare stabilmente. È un territorio in cui, se ci vivi, ti cambia. Cambia le tue abitudini, il tuo modo di pensare e agire. Cambia il modo di vedere le cose, cambia le relazioni, cambia l’innamoramento e le passioni, il senso del giusto e dello sbagliato, persino la morte e il senso della morte.

    È il territorio del male (e della criminalità).

    Chi compie il male?

    Chi abbraccia venefici obiettivi e perché?

    Le risposte sono tante: c’è chi lo fa per soldi, chi lo fa per religione, chi lo fa per fama, chi per follia, chi per un bene assoluto, chi per un paradiso.

    C’è chi lo fa uccidendo, chi rubando, chi trafficando, chi raccontando, chi tacendo.

    Tra le storie e le biografie che troverete in questo libro, ci sono le vite, e spesso le morti, di terroristi, signori della guerra, ladri internazionali, trafficanti di droga o di uomini.

    Storie diverse, in luoghi diversi. Eppure c’è un filo sottile che lega queste vite così solo apparentemente distanti.

    Quel filo rosso è il confine: un confine morale e giuridico, a volte fisico.

    Chi abbraccia il male decide di varcare quel confine, di vivere in una nuova e sperduta prateria in cui le regole che conosciamo non vigono più.

    Osservando con più attenzione al loro comportamento, si tratta di lungimiranza amorale: i cattivi vedono lontano e sacrificano il presente e le sue regole comunemente accettate, in vista di un obiettivo futuro, ritenuto più alto e profittevole.

    La rettitudine, il senso di colpa, l’amore per gli altri, la solidarietà… tutto evapora, sacrificato sull’altare di valori considerati più importanti: sesso, potere, denaro, vita eterna, consenso sociale, vita nuova, riscatto personale, morte.

    Dall’Europa all’Africa, dall’estremo oriente agli Stati Uniti, i cattivi hanno compiuto violenze, hanno celebrato liturgie per noi inspiegabili. Guidati da obiettivi ai nostri occhi imperscrutabili, si sono mossi in un territorio, quello del male, che attraversa il globo, come fosse un mondo parallelo e transcontinentale.

    I cattivi attraversano confini, violano leggi scritte e non dette, scritte e codificate, regole morali, regole sociali. I cattivi non si curano delle conseguenze di ciò che fanno perché il loro obiettivo è sempre e comunque qualcosa di più alto. O altro.

    Poco conta uccidere decine di persone, stuprare, macchiarsi di crimini di guerra, violare le più elementari regole della convivenza civile. Il tutto è fatto per uno scopo che tutto giustifica. Che cosa ci dicono le storie dei cattivi così diverse tra loro?

    Beh, innanzitutto, che esiste un modo per divenire cattivo: esiste una educazione al crimine e al male. Io amo chiamarla educazione sentimentale criminale. Ma gli uomini e le donne di questo libro non sono semplici cattivi. Questi sono arci criminali: super trafficanti, grandi signori della guerra, serial killer.

    Ecco, come si diventa così?

    Innanzitutto, si nasce nel posto giusto e nel momento giusto (o sbagliato a seconda delle visioni): se nasci in Libia o Tunisia e sei un pescatore, potresti a un certo punto trovare le condizioni più favorevoli per trafficare migranti. Se nasci in Colombia o in Messico, potresti abbracciare la vita dei narcos.

    Poi, si ha una educazione e una formazione adeguata: criminali non ci si improvvisa, né si nasce. Criminali (o cattivi, se preferite), si diventa. Guardando altri compiere crimini, osservandoli, imparando da loro, intuendo le gigantesche opportunità che passare quel confine può dare. E calcolandone i rischi, ovviamente.

    Opportunità, appunto: se si sanno cogliere le opportunità, si diventa grandi cattivi, altrimenti non si entra in questa black parade che vi apprestate a leggere.

    E ancora: si trasformano le debolezze in punti di forza. Le debolezze che leggerete tra poco non vanno intese come debolezze fisiche. O almeno non solo. Ci sono anche debolezze rarefatte e invisibili: quelle normative, per esempio. Una legge più morbida in uno stato piuttosto che in un altro, consente al cattivo di muoversi più agevolmente. La legge americana sulle armi, estremamente permissiva, ha consentito e consente tragici episodi di mass shooting: sparatorie di massa. In Italia sono quasi impossibili. Un paradiso fiscale (norme e controlli meno stringenti) consente di riciclare denaro illecito facilmente. E poi, naturalmente, i cattivi, che si confrontano con i buoni, approfittano delle fragilità delle forze dell’ordine: una polizia o un esercito non adeguatamente addestrati e riforniti, per esempio, funzionari corrotti, e così via. Il cattivo ha a disposizione un incredibile arsenale di armi: psicologiche, normative, fisiche, geografiche, sociali. In una delle storie che leggerete, formidabile paradigma del trionfo del grigio, del chiaroscuro, di come la linea tra bene e male si dissolva facilmente, un ladro talentuoso era così ben voluto dalla sua gente, da ricevere assistenza e rifugio. Tante armi quindi, e il talento del cattivo è saperle usare tutte.

    Questo libro è un viaggio attraverso continenti e nazioni, culture e società, tempi e civiltà. Sono tutti cattivi moderni, moderni nel senso più ampio del termine. Contemporanei dal punto di vista strettamente temporale, moderni in senso più lato, perché incarnano perfettamente la figura degli eroi, dei protagonisti. Non necessariamente l’eroe è positivo. Nel mondo contemporaneo, abbandonati i concetti classici dell’eroismo virtuoso e bello, il nostro gusto ha imparato ad accettare anche eroi che abbracciano il male. La filmografia, le serie tv, le fiction hanno sdoganato il chiaroscuro, l’ombra. Hanno permesso al grande pubblico di vedere il male e apprezzarne la genialità, l’efficacia, la seduzione.

    I greci celebravano la kalokagathìa: essere belli e buoni era un tutt’uno. Perfezione formale ed estetica e virtù.

    Invece, recentemente abbiamo scoperto che possiamo appassionarci e imparare a seguire, persino in fondo amare, un eroe non del tutto buono. Addirittura un eroe malvagio. Come? E perché?

    Perché riconosciamo il male che potremmo fare noi e ne usciamo purificati. Il cattivo non è più un diverso, una cosa lontana che non ci appartiene. Potremmo essere anche noi, sotto diverse circostanze. Banale, ma vero.

    Molti di questi personaggi hanno vissuto vite come quelle di un film. Con titoli di testa scarni e all’inizio vaghi, in cui l’incipit poco lasciava presagire di ciò che sarebbe avvenuto. Vite scritte da sceneggiatori audaci e geniali, con colpi di scena, con intrecci apparentemente improbabili. Con epiloghi che non arrivavano mai, tranne all’ultimo, quando lo spettatore era oramai convinto che null’altro sarebbe accaduto. Con colpi di scena risolutori, con misteri che si scioglievano solo nei titoli di coda, proprio poco prima della scritta fine.

    Alcuni di loro hanno scritto capitoli così intensi e icastici da rimanere eterni, scolpiti nelle menti di tanti di noi.

    Ecco, siccome nessuno li aveva mai raccontati tutti insieme, ho deciso di farlo.

    Ma sapete quale è la vera ultima motivazione?

    Lo confesso: io sono sedotto dai cattivi. Sono sedotto dal male. Non voglio tirare in ballo teorie criminologiche, su tutte quelle dello psichiatra forense Robert Simon, autore di I buoni lo sognano, i cattivi lo fanno. Però, forse, se è vero che i buoni lo sognano, i cattivi lo fanno, allora io li racconto.

    Come ho fatto? Ho letto e studiato. Ho parlato e intervistato. Ho viaggiato. Tanto. Tra Medio Oriente e Africa. Ho consumo scarponi e voce. Poi, ho compreso che queste storie andavano semplicemente narrate, tutte insieme. Quindi, adesso, non mi resta che augurarvi una buona lettura e un buon viaggio. Anzi no, perdonatemi: quello che vi auguro è un cattivo, davvero cattivissimo viaggio.

    —ANDERS BREIVIK

    Il profondo Nord e l’inespressività del male

    Quando pensiamo al male, pensiamo spesso al terrorismo. E in questi anni drammatici il terrorismo è islamico. Almeno per la maggior parte di noi.

    Così quando il terrore è bianco ed europeo, lo si dimentica prima. Ecco, io voglio ricordarvelo.

    Andiamo in Norvegia, torniamo indietro nel tempo. E facciamo un esercizio. È un esercizio di stile e intellettuale. Persino amorale. Voglio incontrare il cattivo. Voglio guardarlo negli occhi. Algido, alto, imponente, sguardo fermo. Biondo e impostato. E lo incontro in un limbo, un limbo che non esiste, ma che è reale. Se potesse rispondermi, Anders Behring Breivik parlerebbe così: «Ho progettato ed eseguito un attentato contro l’ufficio del Primo Ministro norvegese e contro il raduno della sezione giovanile del Partito Laburista Norvegese. Ho ucciso 77 persone».

    Perché lo hai fatto? gli chiederei: «Per liberare la Norvegia e l’Europa dai mali che la stanno distruggendo: il multiculturalismo, il marxismo, il femminismo e l’Islam». Mi parlerebbe in una cella di isolamento del carcere della contea di Telemark, in Norvegia.

    Ma prima di esplorare le sue motivazioni, dovremo fare un doloroso ma necessario passo indietro nel tempo.

    Sono le 15 e 16 minuti del 22 luglio 2011, Oslo, capitale della Norvegia. È una giornata di sole, ma – come spesso avviene in Norvegia, in questo periodo dell’anno – cumuli di nuvole attraversano veloci il cielo. Luci e ombre che si susseguono innocenti. Ombre. Le stesse che proietta pallide un furgone Volkswagen bianco sull’asfalto, mentre si avvicina al blocco H di Regjeringskvartalet: è una zona governativa e questo palazzo, un anonimo parallelepipedo in vetro e cemento, ospita gli uffici del Primo Ministro, mentre intorno sorgono altri ministeri importanti, come quello delle Finanze, della Giustizia e dell’Energia.

    Il furgone però parcheggia esattamente davanti al blocco H, quello del Primo Ministro, il laburista Jens Stoltenberg: inserisce le quattro frecce, sembra uno dei tanti furgoni che si occupano di carico e scarico, anche se più tardi si scoprirà che non aveva alcun permesso per trovarsi lì. Dal posto del guidatore scende un uomo alto un metro e ottanta, di corporatura atletica, che indossa un’uniforme da poliziotto, incluso un berretto che gli copre parzialmente il viso, anche se sotto la falda larga si intuiscono occhi chiari e lineamenti nordici. L’uomo rimane per qualche secondo vicino al furgone, poi si avvia a passo veloce verso Hammersborg Torg, dove ha parcheggiato un altro veicolo.

    Trascorrono nove minuti, durante i quali, mentre nel retro del furgone bianco è scattato un timer, il lavoro negli uffici governativi procede come sempre: è venerdì pomeriggio, forse gli impiegati stanno già pensando a come trascorreranno il fine settimana. Sono gli ultimi nove minuti di tranquillità, in Norvegia, perché quello che sta per succedere segnerà per sempre il Paese scandinavo.

    Alle 15.25 minuti e 22 secondi, il furgone esplode.

    La deflagrazione è potentissima, rompe in mille frammenti i vetri delle finestre del blocco H, scava un profondo solco nel terreno e si ode fino a sette chilometri di distanza. Subito dopo, mentre sullo spiazzo aleggiano polvere e detriti, c’è solo il suono delle sirene di allarme e le urla e i gemiti dei feriti. Le prime ambulanze arrivano due minuti dopo: a terra si conteranno otto vittime.

    Scattano tutti i protocolli di sicurezza previsti in caso di attentato terroristico anche in una nazione pacifica e lontana da drammi come questa. Diverse stazioni della metropolitana di Oslo vengono chiuse, le strade si riempiono di volanti della polizia e agenti delle forze speciali, radio, tv e siti web raccomandano di tenersi lontani dal centro della città, perché i terroristi non sono stati ancora catturati, e mentre alle 15:58 l’ufficio della Presidenza del consiglio conferma che il Primo Ministro è incolume, tutti ignorano che in quello stesso momento la minaccia ha già lasciato Oslo e si trova sulla strada E18 a bordo di un altro furgone, diretto a media velocità prima a est e poi a nord.

    La minaccia si chiama Anders Breivik. Ha 31 anni. Oltre alla falsa divisa da poliziotto, ha con sé un fucile semiautomatico Ruger Mini-14, una pistola semiautomatica Glock 34, un altissimo numero di munizioni e un giubbetto antiproiettile.

    «Anders Breivik è una figura unica. È stato uno dei terroristi più estremi e violenti della storia mondiale, è riuscito a uccidere da solo moltissime vittime. Si può dire con sicurezza che non c’è nessuno come lui in nessun tipo di ambiente estremista dei Paesi scandinavi, che sia di destra, di sinistra, o di qualsiasi altra tendenza – racconta Anders Widfeldt, esperto di movimenti di estrema destra in Scandinavia, all’Università di Aberdeen, in Scozia –. Poi, ovviamente, la domanda è se in futuro questi ambienti potrebbero produrre qualcuno come lui, e purtroppo mi sento di dire che non è impossibile. Ma al momento, fortunatamente per tutti noi, non è ancora successo».

    In questa vicenda, il tempo, è importante. Così come i numeri.

    Mentre Breivik guida verso nord, in quei 113 minuti che trascorrono tra l’esplosione di Oslo e il momento in cui l’uomo arriva nel secondo teatro dei suoi attacchi, ci sono molte persone che potrebbero smascherarlo. In realtà, queste persone sono oltre mille: poco prima di far detonare il furgone all’esterno degli uffici del Primo Ministro, Anders Breivik ha inoltrato a 1.003 indirizzi email in tutto il mondo un manifesto redatto in inglese, lungo 1.518 pagine, dal titolo «2083: Una Dichiarazione di Indipendenza Europea».

    Il manifesto è firmato Andrew Berwick, l’intestazione è «Caro patriota Occidentale Europeo», i destinatari aderiscono a vario titolo a gruppi, forum online, movimenti o partiti politici nazionalisti e di estrema destra. «Questo è un regalo per te... Ti chiedo di inoltrarlo a chiunque conosci», scrive Breivik. Tuttavia, sul momento, nessuno collega il manifesto a quanto sta accadendo in Norvegia, o forse nessuno si prende la briga di aprire un documento di mille e cinquecento pagine che sembra in tutto e per tutto una di quelle inutili Catene di Sant’Antonio che ogni giorno circolano online e sui social network.

    La Rete che avrebbe dovuto amplificare il messaggio di Breivik, la Rete cui era affidato il suo messaggio politico, avrebbe potuto smascherarlo e fermarlo. Ma non è accaduto. Forse quegli utenti hanno letto e riletto il manifesto, sorridendo dietro al monitor, pensando agli scritti di un folle, o forse compiaciuti si sono riconosciuti in quei testi deliranti. Fatto sta che mentre loro leggevano, Breivik agiva.

    Alle 16:55, il furgone guidato da Anders Breivik, arriva sulle rive del lago Tyrifjorden e viene imbarcato sul traghetto Ms Thorbjorn.

    È una di quelle lunghissime giornate estive scandinave, il sole è ancora alto e tramonterà solo tra molte ore.

    Alle 17:18, Breivik sbarca a Utoya, un’isola di dieci ettari di proprietà della Auf, il movimento giovanile del Partito Laburista Norvegese, in cui ogni estate si svolge un campo estivo. In questo momento sono presenti sull’isola circa 600 ragazzini, l’età media si aggira intorno ai 15 anni.

    All’arrivo Anders Breivik si qualifica a Monica Bosei, la responsabile del campo, come l’agente Martin Nilsen, inviato sull’isola per un controllo di sicurezza dopo l’esplosione di Oslo. Monica Bosei si insospettisce, contatta via radio Trod Berntsen, il responsabile della sicurezza del campo. Al suo arrivo, Anders Breivik estrae la pistola Glock 34 e li uccide entrambi.

    Monica Bosei e Trod Berntsen sono le prime due vittime di una vera e propria mattanza. Lucido, freddo, calcolatore e spietato, Anders Breivik convoca i ragazzini presenti sull’isola diramando un falso allarme attraverso il sistema di microfoni del campo estivo, e appena un numero consistente di ragazzi si presenta sul punto di raccolta, inizia a sparare.

    Nei 72 minuti successivi si aggira per l’isola con fucile semiautomatico e pistola. Spara. Ricarica e spara. Ricarica e spara. A tratti vomita slogan come «Morite oggi, Marxisti!». Poi ricarica, e spara ancora.

    Alcuni sopravvissuti raccontano che molte vittime provano a fingersi morte rimanendo a terra, ma Breivik passa a finirli con un ultimo proiettile alla testa. I ragazzi urlano, fuggono, alcuni cercano di lasciare l’isola a nuoto, ma Breivik spara anche a loro con il fucile semiautomatico, che ha una gittata abbastanza lunga. Alcuni si nascondono in una grotta, e riescono a salvarsi.

    Alle 18:01 Anders Breivik telefona al 112, il numero di emergenza norvegese, e si arrende, ma poi continua a sparare. L’Unità di Risposta di Emergenza, composta da medici, infermieri e poliziotti delle forze speciali, riesce a sbarcare sull’isola di Utoya solamente alle 18:25, oltre un’ora dopo l’inizio del massacro. Alle 18:26 Breivik chiama di nuovo il 112 e dichiara di arrendersi, poi riattacca.

    Viene arrestato alle 18:34,

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