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Volevamo cambiare il mondo
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Volevamo cambiare il mondo

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Narrativa - romanzo (209 pagine) - Franco è in un letto di ospedale e sua figlia Maria scopre un romanzo che lui stava scrivendo, ambientato nella Milano negli anni ’70. Parla di un gruppo di ragazzi del quartiere Lorenteggio che passano dall’amare i Beatles a lambire ambienti vicino al terrorismo. Piano piano scoprirà che quei ragazzi che volevano cambiare il mondo sono attorno a lei, invecchiati, disillusi, con segreti che non hanno potuto rivelare a nessuno.

I segreti che ognuno si porta dentro: di questo parla il romanzo “I ragazzi di Lorenteggio” che Franco stava scrivendo prima di sentirsi male. Parla della Milano degli anni ’70, delle manifestazioni, delle lotte studentesche, della droga, del terrorismo che stavano contaminando la mente di alcuni giovani. Era finito il tempo in cui bastava fare una partita di calcio ascoltando i Beatles, è un mondo improvvisamente cambiato quello che Franco descrive. La storia che racconta parla di un giovane ucciso, di un attentato, di un grande amore del protagonista, di una giovane bellissima. Maria, la figlia di Franco, comincia a pensare che tutti i personaggi descritti siano reali, e siano attorno a lei. E quindi può essere la storia di suo padre, e anche di sua madre e di sua zia, della sua famiglia. Eppure non li riconosce con quelli che sono oggi. Queste persone vengono avvertite da lei che c’è un romanzo di suo padre che parla di giovani inquieti, che hanno conosciuto violenze, sbandamenti, droghe, nella Milano degli anni di piombo. Descrive alcune particolarità di loro. E questi improvvisamente si riconoscono, si sentono minacciati. Che cosa è venuto in mente a Franco? Perché deve tornare a quegli anni, ai loro segreti? Per ognuno di loro è un viaggio nei ricordi, in quello che erano, nei sogni di allora, in ciò che avevano fatto. Alcuni si vergognano del proprio passato, certamente non si riconoscono più. Volevano cambiare il mondo: questo per tutti era il tema ricorrente. La loro vita di oggi, disillusa, con il senso di avere perduto molto, a volte in modo irreparabile, non è la vita che avevano sognato. Il mondo è comunque cambiato, ma non in meglio.

Marina Zinzani è nata a Ravenna nel 1964, città dove lavora come contabile. Coltiva da anni la passione per la scrittura. Ha ottenuto diversi riconoscimenti, tra i quali la vittoria di alcuni premi letterari. Collabora da anni con la rivista Pagine letterarie. Con Delos Digital ha già pubblicato nella collana Narrazioni il romanzo Linda.
LanguageItaliano
PublisherDelos Digital
Release dateJan 12, 2021
ISBN9788825414318
Volevamo cambiare il mondo

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    Volevamo cambiare il mondo - Marina Zinzani

    9788825408331

    Disclaimer

    Personaggi e situazioni citati nel libro sono frutto della fantasia dell'autore e non hanno alcuna corrispondenza con persone e fatti reali.

    1

    Milano, dicembre 1973

    – C’è uno alla finestra che ci guarda. Se n’è andato. Adesso è tornato, c’è anche la moglie. Fa un freddo cane stasera…

    Se fosse calato un angelo in quel momento, a sussurrargli parole divine che potessero illuminarlo, aprire la mente e mostrargli dove si trovava veramente, cosa stava facendo, se quell’angelo gli avesse mostrato gli anni a venire, Tommy avrebbe preso Lorenzo per un braccio, fino a fargli male.

    – Svegliati! – gli avrebbe urlato.

    Ma l’angelo non era sceso in quel momento. Forse era andato da altre parti, non si era accorto di loro due. E di ciò che sarebbe stata la loro vita, dopo quella sera.

    Molti anni dopo

    Una stretta di mano decisa, il tono incerto.

    – Potrebbe… può essere… bisogna vedere…

    Maria lasciò la stanza del dottore. Il primario era bravo, l’aveva sentita dire questa cosa che era bravo, infatti aveva fatto un piccolo miracolo. Aveva salvato papà.

    Camminò lungo il corridoio e le sembrava di essere in apnea, mezzo respiro, il cuore che batteva, era tesa Maria, era sempre tesa quando c’era un colloquio con un medico, e ora che aveva saputo, ora che il medico aveva parlato, lei non riusciva a placarsi. La sua mente aveva messo insieme più dati possibili, quelli del presente attraverso le parole del dottore e quelli del futuro, e tutto appariva tremendamente incerto.

    La sua mente era un divagare di pensieri. Arrivò a una sedia, si accasciò quasi. Doveva aspettare, probabilmente a lungo. Chiuse gli occhi, lo smartphone in mano. Impaziente, si alzò poco dopo, fece qualche passo, tornò a sedersi. Un lieve rumore dello stomaco le ricordò che non aveva mangiato nulla dalla mattina, non che avesse fame, ma qualcosa era meglio mangiare, le ore di attesa sarebbero state lunghe, fino a sera, fino a notte, forse.

    C’era un distributore automatico alla fine del corridoio. Scelse una barretta ai cereali e miele. Scartò la carta con le mani nervose, e quel croccante ai cereali si spezzò fra i denti. Guardò il cellulare, ancora niente. Meglio così. Non riusciva a parlare adesso, a spiegare cosa aveva detto il dottore. Non ce la faceva. Dei granelli di cereali erano scivolati lungo la sua maglia blu, nel toglierli lasciarono l’impronta del miele, cercò di pulirla alla meglio.

    Andò alla finestra, e pensò che novembre era veramente un mese triste. Aveva perduto una cara amica anni prima, proprio in novembre. Un mese maledetto. Il grigiore di una nebbiolina triste avvolgeva ogni cosa fuori dall’ospedale. Da un vetro si vedeva il parcheggio.

    – Potrebbe essere anche fra pochi giorni… – le parole del primario le martellavano in testa.

    Una mano sulla spalla la fece sussultare.

    – Ah, ti ho trovata, finalmente!

    Si girò. Sua sorella Carla era arrivata. Aveva il fiatone.

    – Allora? Hai parlato con i dottori?

    Maria sospirò, e iniziò a dire qualcosa, scuotendo la testa.

    Andarono nella saletta di attesa. Maria aveva gli occhi lucidi e la voce incerta, Carla l’aveva ascoltata e si mordeva il labbro.

    Erano due sorelle così diverse. Non solo nell’aspetto. Maria era gracile, piccola, magra, i jeans le stavano larghi. Il taglio corto di capelli, un caschetto mosso, le dava un’aria giovanile, ma la pelle appariva secca, opaca, e aveva occhiaie profonde.

    Sua sorella Carla era più alta, decisamente più in carne, una pelle nutrita, i capelli lisci neri fino alle spalle con un accenno di frangia.

    Erano diverse anche ora, ora che il loro padre era nella stanza a fianco, in rianimazione, per le conseguenze di un ictus. Ognuna raccoglieva i suoi pensieri, vi era qualcosa di sospeso, di incompiuto in quel rapporto col padre, vi era un vuoto, una nota sfuggente che aveva dominato la vita con lui. Solo che Maria quel vuoto aveva cercato di riempirlo, complice un rapporto privilegiato che aveva avuto da sempre, da quando da bambina usciva con lui mano nella mano, e andava a trovare gli amici di papà. La portava spesso anche da Antonio. Era nel suo bar che suo padre si era sentito male, era lì che era caduto a terra.

    Carla non c’era riuscita a riempire quel vuoto, non era riuscita a perdonarlo.

    Elena arrivò subito dopo che si erano sedute.

    – Salve, ragazze – disse mestamente a bassa voce, gli occhi lucidi, sedendosi accanto a Maria.

    Non erano ragazze, Carla aveva 40 anni e sua sorella 38 e ognuna si sentiva improvvisamente vecchia, in quella fase che permea la vita di tutti, un genitore anziano che sta male, che forse ci lascerà per sempre.

    – Com’è successo? – chiese Maria.

    Elena esitò un attimo a parlare, guardava la sua borsa aperta, stringeva fra le mani il manico di cuoio marrone, deglutì.

    – Ero andata dal dentista, che è poco lontano dal bar di Antonio, l’avevo lasciato lì, Franco, era sereno… Ci va spesso da Antonio… Sta scrivendo un romanzo e lì avrebbe scritto un po’, aveva detto. Quando sono tornata c’era l’ambulanza, lo stavano per portare via. Antonio mi ha detto che si è alzato dalla sedia e poi si è afflosciato, così, come se le gambe non lo avessero più retto, aveva gli occhi aperti, è stato terribile…

    – Però può farcela, adesso faranno tutti gli esami, vedrai che ce la farà, il primario non si è sbilanciato, certo, i dottori si tengono dalla parte del sicuro, ma ha una fibra forte, io penso che supererà tutto, riprenderà tutte le funzioni – disse Maria.

    – Non muove un braccio e una gamba… – accennò Elena, con un filo di voce.

    – Ma si riprenderà, vedrai.

    Due donne, la compagna del padre, Elena, così indifesa ed esile di fronte a una tragedia inaspettata, una voce di bambina, un caschetto di capelli rossi e delle lentiggini, un naso un po’ all’insù, e Maria, la figlia prediletta che le parlava, due donne in ansia per lo stesso uomo.

    Carla si alzò, andò alla finestra, aveva salutato appena Elena, e non aveva nessuna intenzione di parlarle, di condividere con lei le ansie per il padre. Odiava Elena, da una vita. Non avrebbe dovuto, avrebbe dovuto andare oltre il risentimento, il dolore che lei aveva provocato, ma non ci riusciva.

    Era davanti a lei quella donna che era sempre stata in confidenza con Maria, che parlava, ricevendo parole affettuose dalla sorella, e provava solo voglia di andarsene, di vedere suo padre, sì, doveva vederlo, però non si poteva chiederle di sorvolare su ciò che c’era stato, su ciò che quella donna aveva provocato. La fine del matrimonio dei suoi. Suo padre se n’era andato trent’anni prima a causa di quella donna apparsa dal nulla. Così aveva detto sua madre. Questa era la verità imperdonabile.

    – Ciao – sussurrò Carla al cellulare – sono qui all’ospedale. Non so a che ora torno. Ci pensi tu ad Andrea e Mattia? Ginevra l’ho portata da tua madre, vai a prenderla dopo…

    La voce di suo marito Fulvio la rincuorò. Era sempre stato il suo punto di riferimento, con lui ogni cosa era più facile, aveva sempre le parole giuste.

    E anche in quel momento la voce di lui riusciva a rincuorarla.

    – C’è anche Elena, non sapevo cosa dire – accennò Carla.

    Poco dopo lei tornò a sedersi accanto alla sorella, che era caduta in un silenzio totale, si guardava attorno con l’aria sperduta. Come quando era piccola. Come quando suo padre le aveva lasciate.

    Ad un certo punto Maria cambiò espressione.

    – Elena, hai detto che papà stava scrivendo un romanzo… – chiese.

    Elena abbassò la testa.

    – Non so se è un romanzo, un racconto, non me ne ha parlato, forse me lo avrebbe fatto leggere alla fine… Lui scrive da tempo…

    – Non lo sapevo – disse Maria sorridendo. Quante cose non sapeva di suo padre. Andava ogni tanto a casa sua, nel piccolo appartamento che divideva con Elena, una casa semplice, un computer sempre acceso, dei libri, una scacchiera, gli piacevano gli scacchi da giovane. Gli portava qualche libro che gli sarebbe piaciuto, qualche dolce che lei aveva cucinato. Si prendevano un caffè in cucina, e parlavano di fatti dei giornali, di qualche notizia. Elena era sempre stata gentile con lei.

    Carla c’era andata poco da suo padre, e sempre con lei, quasi avesse timore ad avvicinarsi ad Elena, oppure perché piena di disprezzo, in nome di un rancore mai sopito. Non era riuscita ad andare oltre, ad accettare la dolorosa separazione dei suoi.

    – Cosa pensi di fare? Si può stare qui per ore a non far niente – chiese Carla alla sorella.

    – Io resto un po’ e comunque c’è Elena. Probabilmente non ce lo faranno vedere oggi. Se tu vuoi andare… ti avviso io se ci sono novità – rispose Maria.

    Carla se n’era andata e Maria si alzò, quasi a sgranchirsi le gambe. Camminò lungo il corridoio, guardò qualche locandina. Corsi, ECM, annunci nella piccola bacheca lungo il corridoio. Una donna in carrozzella, spinta da quello che era probabilmente il marito. Due infermiere che parlavano. Un uomo che si guardava attorno, cercando qualcosa.

    L’attesa le sembrava interminabile. Come l’avrebbe ritrovato? Come sarebbe stato il decorso? Il pensiero verso suo padre diventò angoscioso, doveva fare qualcosa. Tornò da Elena.

    – Se non fanno entrare, pensavo di andare via anch’io. Telefonami appena sai qualcosa, corro subito.

    – Sì – rispose Elena a bassa voce.

    Maria provava una grande pena per quella donna. Era la compagna di suo padre da anni, e quello sguardo, quel volto che appariva una tenera, tragica maschera di dolore, esprimeva l’affetto che provava per lui, tutte le attenzioni che gli aveva dato.

    A differenza di sua madre, Giulia. L’aveva avvisata per telefono, appena saputa la notizia dell’ictus del padre. C’era stato un silenzio che era sembrato a Maria interminabile. Dall’altra parte c’era una donna che era stata lasciata da quell’uomo, dal padre delle sue figlie. Era questa la verità detta e ripetuta fin da quando erano bambine. Erano andate così le cose. E anche lei, donna tradita, non aveva perdonato, come Carla. Neanche la curiosità di sapere come stava ora il suo ex marito, neanche la richiesta di tenerla aggiornata sulle sue condizioni. Silenzio. Assenza. Maria aveva riattaccato. Tanto lo sapeva come era finita la sua famiglia.

    Mentre se ne stava andando, sentì Elena chiamarla.

    – Maria!

    Lei si girò, e tornò indietro.

    – Dimmi, Elena…

    – Pensavo… sono rimaste le sue cose da Antonio, penso che siano rimaste da lui, Franco aveva una borsa con le cose che scriveva, c’era anche il cellulare, vuoi andarle a prenderle tu? Io preferisco stare qui, non voglio lasciarlo, passerò da casa per prendere due cose e poi resto qui.

    Maria accennò di sì.

    – Non preoccuparti. Ci vado io. Domattina subito passo da Antonio – disse Maria, accarezzandole la mano.

    Le figlie di Franco se ne erano andate. Elena aveva notato lo sguardo diffidente, freddo di Carla, e aveva notato il calore e il tono affettuoso di Maria.

    Si sentiva così fragile, ora che il suo compagno di una vita era in bilico fra la vita e la morte, si sentiva un uccellino spaurito che non aveva dove andare, di fronte a una ventata gelida, a una tempesta. Era sola, per quanto Maria fosse una donna buona, disponibile verso di lei, la solitudine l’avvertiva come un vuoto doloroso. Sapeva che Franco era grave, che tutto poteva cambiare in un attimo. Sapeva che le sue condizioni potevano precipitare da un momento all’altro.

    Non erano sempre stati anni felici con lui, si era creato un equilibrio, si erano condivisi interessi, fatto viaggi, trascorso ogni ora libera insieme.

    Ma lei era venuta dopo, dopo la moglie, e sapeva quanto aveva pesato il suo ruolo nel giudizio delle figlie, l’avevano colpevolizzata. E anche lui probabilmente era pieno di sensi di colpa.

    C’erano delle zone d’ombra in Franco, lo sapeva, lo sapeva da sempre. Si chiudeva in mutismi di ore, da un momento all’altro. Sembrava diventare apatico, senza più entusiasmo per nulla. Il lavoro gli pesava tanto, questa era la motivazione di quello stress poco manifestato, ma esistente, semplicemente si esprimeva in tante forme sotterranee.

    Lei aveva imparato ad accettare i suoi silenzi, la sua chiusura improvvisa al mondo. Non era mai entrata nelle sue stanze segrete, anche se qualche volta ci aveva provato. Lui si era chiuso a riccio, minimizzando.

    Così erano vissuti per tanti anni. In una nota bassa, di cose non dette, tenute forse nascoste.

    2

    Ritorno a casa. Le luci dei lampioni, il parcheggio. La città che si ritrae la sera dando un senso di vuoto. I pendolari, la metro, i negozi, le chiavi del portone. La testa che faceva un po’ male, un cerchio che rendeva la realtà quasi distante.

    Quando Maria aprì la porta dell’appartamento, fu invasa da un deciso odore di sugo al pomodoro. Guido era ai fornelli, aveva già apparecchiato la tavola. Il suo sguardo era quello di chi vuole sapere.

    Maria appoggiò il viso al petto del marito, lasciandosi andare a un pianto dirotto.

    – Non fare così, ce la farà, tuo padre è forte – le disse lui accarezzandole i capelli.

    Non riusciva a parlare Maria, si sentiva piccola, una bambina che sta per perdere il suo papà, e non riesce a parlare perché le escono solo singhiozzi. Guido, il compagno che ne conosceva le fragilità, le crepature, come nei vasi che sono caduti e sono stati incollati, riuscì piano piano a tranquillizzarla.

    Maria riuscì a parlare, ed esprimere quello che provava.

    La mano del marito sulla testa, quella carezza delicata, stava riuscendo a lenire tutta la terribile tensione.

    – Allora, sei riuscita a vederlo?

    – No. Ci andrò domani. Elena resta là, poverina, mi fa una gran pena.

    – Sono assieme da tanto…

    Poi Maria sentì il bisogno di soffiarsi il naso, si scostò da Guido e cercò un fazzoletto di carta nella borsa. Andò anche in bagno, si guardò allo specchio. Aveva una faccia sciupata, la sofferenza le si vedeva tutta. Si passò dell’acqua sul viso, si insaponò le mani con il sapone di Marsiglia, si asciugò il viso.

    Tornò in cucina.

    – Sai cosa fa papà? Me l’ha detto Elena. Scrive. Dice che scrive da anni e non mi ha mai detto nulla. Poi lo sgrido, quando sta meglio. Perché non dirmi nulla?

    Guido fu sorpreso.

    – Chi l’avrebbe detto, Franco…

    – Sì, e quando era al bar di Antonio penso che scrivesse il suo romanzo, o racconto, non si sa bene di cosa si tratti, Elena non lo sa, l’avrebbe letto alla fine, credo. Devo andare a prendere la sua borsa da Antonio, al bar, deve essere rimasta lì. Ci vado domattina. Per fortuna che domani è sabato, neanche a farlo apposta. Non sarei riuscita ad andare a lavorare.

    3

    – Come sta?

    Antonio era dietro il banco del suo bar, e accolse Maria con quella domanda a bruciapelo.

    – Meglio, l’hanno operato, un ictus – rispose Maria stringendo la borsa fra le mani, abbassando un po’ la testa.

    – Ma ce la fa, vero? E come sta… si muove?

    Maria accennò a qualche laconica notizia, dicendo che comunque i giorni successivi sarebbero stati decisivi.

    – Elena mi ha detto che dovrebbe essere rimasto qui il suo borsello e siamo rimaste d’accordo che fossi io a prenderlo.

    Antonio accennò di sì con la testa e poi andò in una stanzetta dietro il bancone. Tornò poco dopo con una piccola borsa nera.

    – Ecco, tieni. Certo, che spavento, davvero un bello spavento, ed Elena, poverina, che paura che si è presa. Era appena rientrata, non so dove fosse andata, e stavano preparandosi ad andare via, quando lui è crollato a terra. Mi sono voltato, ho visto i suoi occhi fissi su di me, sembrava mi implorasse e capisse che stava succedendo qualcosa di irreparabile.

    – Lui era tranquillo fino a poco prima?

    – Certo, scriveva. Scriveva su un quaderno. Tuo padre è un romanziere nato, sai? Aveva già scritto un piccolo romanzo che mi fece leggere anni fa, e lo vedevo ultimamente che veniva qui la mattina, si sistemava in quel tavolino all’angolo e scriveva un altro romanzo. Ma non mi ha detto di cosa parlava.

    Maria si lasciò andare a un tiepido sorriso, tiepido come il sole di novembre di quella mattina.

    – Papà ha sempre amato i libri, ma non sapevo scrivesse romanzi.

    – Le persone ci riservano sempre delle sorprese. Vuoi qualcosa da bere, un caffè, un tè?

    – Prendo un caffè, Antonio, grazie.

    Maria si girò, c’era solo un anziano in quel bar che stava leggendo il giornale, ma i suoi occhi si soffermarono sul tavolino indicato da Antonio che dava su una vetrata da cui si vedeva la strada. Era così che passava le giornate suo padre? Veniva al bar, si sedeva al suo tavolino, e scriveva, scriveva, chissà cosa ne sarebbe stato di quel romanzo, chi l’avrebbe letto.

    Le mani di Antonio erano massicce, robuste come il suo corpo, le braccia presentavano dei tatuaggi, uno era il volto di una donna, e un giorno Maria aveva chiesto a suo padre il perché di quel tatuaggio, chi fosse quella donna, e suo padre aveva risposto – È una che amava, che poi gli ha spezzato il cuore. Il tatuaggio se l’è fatto prima che lei lo lasciasse, purtroppo.

    Le rughe, il volto ruvido, gli occhi scuri che guardavano sempre dritto negli occhi il suo interlocutore senza un accenno di timidezza: era un tipo tosto Antonio, da giovane aveva praticato anche la boxe, e se c’era qualche seccatore al bar sapeva come farsi rispettare. Aveva avuto diverse storie finite male e non aveva avuto figli.

    – La cosa più importante è che papà si riprenda – disse Maria, mescolando il caffè lentamente – è stato un giorno terribile ieri, abbiamo temuto il peggio.

    Antonio alzò la testa con un sospiro.

    – Anch’io mi sono molto spaventato, sembrava morto. Elena ha cominciato a urlare, poveretta.

    Maria finì di bere il caffè, poi prese il borsello di suo padre. Uscendo ringraziò Antonio, non sapeva bene per cosa, e si incamminò alla macchina.

    – Papà che scrive romanzi, e chi lo sapeva…

    Questo pensiero le strappò un sorriso. Cosa fare adesso del borsello? L’avrebbe portato ad Elena, ma c’era tempo. Una volta in macchina, curiosa, lo aprì: estrasse il cellulare, una penna, un libro di racconti di Murakami e un quaderno scritto per molte pagine, quasi certamente il romanzo di cui parlava Antonio. Era bella, la calligrafia di suo padre. Lineare, rotonda.

    Stava rimettendo tutto dentro il borsello quando vide il lembo di qualcosa che usciva fuori dal libro di Murakami. Lo aprì, c’era un foglio piegato, un articolo di giornale. Non recente, la data riportava quella di dicembre 1973. Nostalgico, suo padre. Aveva ancora dei giornali vecchi in cantina, una volta lei li aveva visti, ma usare una pagina di uno di quelli come segnalibro era eccessivo. La mente andò subito a quell’ipotesi, ma un dubbio le si insinuò nella testa mentre leggeva il titolo. Giovane ucciso, e il sottotitolo: Stava compiendo un attentato in una scuola.

    Curiosità, voglia di sapere.

    Le mancava suo padre. Forse non sarebbe sopravvissuto. Forse il tempo che era rimasto era poco. E avevano buttato via tanti anni, troppi anni, in un rapporto inquinato da fantasmi sempre presenti. Se n’era andato

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