Japonisme: Ikigai, bagno nella foresta, wabi-sabi e molto altro
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Qual è il vostro ikigai (lo scopo)? Come potete coltivare la consapevolezza nel caos e nell'imprevedibilità della vita di tutti i giorni? Dallo shinrin-yoku (il bagno nella foresta) alla calligrafia, dall’ikebana (la disposizione dei fiori) alla cerimonia del tè e al rapporto con il cibo, i giapponesi hanno saputo raggiungere un senso di completezza attraverso tradizioni, filosofie e pratiche artistiche.
Migliorate il vostro modo di vivere e arricchite lo spirito guardando la vita attraverso la lente del wabi-sabi (la natura impermanente di ogni cosa), il kintsugi (riparare le ceramiche con l’oro) o il kaizen (le tecniche per formare l’abitudine).
Grazie a questo libro scoprirete come portare un po’ di “japonisme” nella vostra quotidianità.
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Japonisme - Erin Niimi Longhurst
appagante."
Sono nata a Londra, da padre inglese e madre giapponese. Prima ho vissuto a Seul, poi a Londra e, per alcuni anni, nel melting pot newyorkese. Sono stata contaminata da varie culture, ma il mio legame con il Giappone è rimasto sempre molto forte.
Sul mio blog Island Bell ho condiviso ricette, consigli di viaggio e ho raccontato lo stile di vita orientale. Anche se ho vissuto in varie parti del mondo, ho sempre la sensazione di ricorrere agli schemi, ai rituali, alle abitudini e alle tradizioni della mia educazione giapponese.
Il termine japonisme
fu coniato alla fine del XIX secolo per descrivere la passione occidentale per l’arte, la cultura e il design giapponesi: un interesse che negli ultimi anni si è esteso alla musica, ai film, alla cucina e all’arte.
Credo che la lunga storia di isolamento di questo Paese abbia reso così uniche la sua cultura e le sue tradizioni. È un Paese che ha acquisito un’identità forte, inconfondibile e sfaccettata proprio perché per tanto tempo non ha subito influenze esterne. Per oltre duecentoventi anni conobbe una politica estera isolazionista, nota con il termine sakoku, finalizzata a preservarne il carattere di nazione chiusa
. A partire dall’inizio del XVII secolo, sotto lo shogunato Tokugawa, le relazioni e i commerci tra il Giappone e il resto del mondo furono rigidamente limitati, nel tentativo di contrastare ogni influenza straniera, religiosa e coloniale, percepita come una minaccia.
Certo, quei duecento anni di isolamento ormai sono molto lontani, ed ebbero fine a partire dalla seconda metà del XIX secolo, ma sono convinta che quella lunga parentesi di solitudine abbia giocato un ruolo essenziale nell’intrecciare il tessuto stesso della società giapponese. La tradizione e la cultura del Giappone sono sbocciate e fiorite in quella bolla remota e, a mio parere, lo hanno reso diverso da ogni altro luogo al mondo. Senza dubbio è una realtà che può risultare strana, perfino sconcertante, ma sempre e comunque splendida e di grande ispirazione. Per ventisei anni ci sono tornata regolarmente, e mi sono ritrovata sempre ad apprendere qualcosa di inaspettato e diverso, vedendo tutto come se fosse la prima volta, da una nuova prospettiva.
Dunque, che cosa si può imparare dalla cultura giapponese (senza salire su un aereo)? Come potreste metterla in pratica nella vita di tutti i giorni pur essendo fisicamente così lontani da questo arcipelago di piccole isole? Una lezione fondamentale per me è stata quella sull’equilibrio, che ho imparato da mio nonno paterno, Haruyuki. Nato in una famiglia rurale con tredici figli, fece carriera fino a diventare un importante uomo d’affari con il ruolo di presidente e amministratore delegato della Shell in Giappone.
Il suo percorso ebbe inizio quando, per caso, nel periodo di depressione che seguì la Seconda guerra mondiale, fece amicizia con due soldati americani di stanza in Giappone. Dietro loro consiglio, puntò gli occhi sugli Stati Uniti e, con un viaggio di due settimane, attraversò il Pacifico a bordo del transatlantico Hikawa Maru (un nome che rendeva omaggio al grande santuario shintoista di Saitama). Si laureò in Economia all’Università di Washington e per mantenersi lavorò come giardiniere, cameriere e inserviente. Questa esperienza negli Stati Uniti lo portò ad avere verso il mondo degli affari un approccio e un atteggiamento che, una volta tornato in Giappone, sarebbero stati giudicati non ortodossi e decisamente occidentali.
Per tutta la vita, però, mio nonno fu molto orgoglioso del suo retaggio, nonché della cultura, della storia e soprattutto delle tradizioni giapponesi.
È da lui che ho imparato l’importanza della mindfulness, la consapevolezza, per avere un approccio gioioso e appagante nei confronti della vita. Oggi viviamo in un mondo sempre più connesso, ma è difficile staccare
quando si è continuamente bombardati da informazioni, quando lo stress della vita professionale e/o personale incombe su di noi (martellante come le notifiche di computer e cellulari).
Ho seguito l’esempio di mio jiji (nonno), che trovava sempre il tempo per prendersi cura di se stesso, cosa che gli ha permesso di essere sempre felice, produttivo sul lavoro e di vivere in modo sostenibile. Infatti nei giorni feriali stava nel pulsante e frenetico centro di Tokyo, si svegliava presto e lavorava fino a tardi, ma per la maggior parte della sua vita professionale, ogni fine settimana lui tornava con mia nonna a Kamakura, un’incantevole città sul mare, e lì faceva il pieno di energia. Passava ore e ore a prendersi cura dei piccoli alberi d’arancio, a fare escursioni sulle colline dei dintorni, a dipingere o scrivere poesie, e a sfilettare e preparare meticolosamente il pesce fresco per cena. Nel corso della mia carriera, nei periodi più stressanti, mi sono accorta che anch’io tendo a ricorrere a questo stesso tipo di approccio: per raggiungere uno stato mentale più centrato e produttivo mi dedico all’arte (la fotografia o la scrittura); cucino (farcisco grandi quantità di gyoza, i nostri ravioli: un gesto ripetitivo, ma efficace); oppure organizzo la casa in modo diverso (faccio un bel repulisti del guardaroba o metto in ordine le scartoffie).
Con l’avanzare degli anni, mio nonno si avvicinò sempre di più al suo lato spirituale, e assunse un ruolo nella vita del tempio in veste di anziano. Entrò a far parte di un consiglio di fedeli presso lo Tsurugaoka Hachimangu, il cuore culturale di Kamakura, il più importante santuario shintoista, un luogo che gli era molto caro, e che si rivelava impagabile ogni volta che sentiva il bisogno di trovare chiarezza o pace, un luogo che lo riavvicinava alle sue tradizioni, alle sue stesse radici. Aveva il massimo rispetto per quell’incarico: ogni parola era scelta con cura e viveva ogni evento o rituale con gratitudine, dedizione e consapevolezza.
Il nonno era mattiniero, e prima che lo passassero a prendere per accompagnarlo in ufficio amava dedicarsi alla cura delle sue piante. Era anche il mio complice quando, magari alle tre del mattino, sgattaiolavo fuori casa per soddisfare un’irrefrenabile voglia – indotta dal jet lag – di gelato di fagioli rossi che andavamo a comprare al konbini (minimarket) più vicino. E, rientrando a casa, non mancava mai di farmi notare il sorgere del sole o il silenzio delle strade, e mi insegnava ad assaporare quei brevi e fuggevoli istanti che altrimenti mi sarei persa.
Il mio jiji morì quand’ero all’ultimo anno dell’università, ma solo quando iniziai a lavorare mi resi conto di quanto avessi assimilato la sua etica nel corso degli anni. In tutti quei brevi e silenziosi istanti, nei gesti più lievi, nelle sfumature quasi impercettibili che avevo imparato a cogliere grazie a lui, scoprii aspetti delle mie radici che avrebbero plasmato e guidato la mia vita.
Quando incontro qualcuno per la prima volta e gli parlo delle mie origini e del fatto che sono cresciuta in Giappone, la conversazione si anima quasi subito, e immancabilmente l’interlocutore mi dice di essere un appassionato di Anime, per esempio, o di amare la cucina giapponese… ogni tanto c’è perfino qualcuno che cita il karaoke!
Essendo di natura ansiosa e cauta, quando sento il bisogno di schiarirmi la mente, di fare il punto della situazione, di tenere duro nelle difficoltà, ho scoperto di ricorrere a tecniche saldamente radicate in Giappone e nella sua ricca eredità. Ed è proprio questo che voglio condividere con voi: non soltanto alcuni aspetti del Giappone e della sua cultura in astratto, ma filosofie e strategie che mi hanno aiutato a superare difficoltà e ostacoli che la vita ci impone. E il fatto stesso di articolare e distillare l’essenza di queste filosofie e tradizioni mi ha reso ancora più consapevole di quanto io ne sia davvero dipendente e mi affidi a esse nel quotidiano, senza neppure rendermene conto. Spero che sapranno offrire anche a voi altrettanto conforto, felicità e nutrimento spirituale, quello che ci arriva soltanto se impariamo ad apprezzare i momenti più silenziosi, ma così fecondi, quelli apparentemente banali, ma così gioiosi che si susseguono nel corso del nostro più lungo viaggio.
La prima parte del libro, Kokoro, è dedicata al cuore e alla mente. Parlerà di quello che ci spinge a fare ciò che facciamo (ikigai) e che ci dà gioia; della bellezza del cambiamento (wabi-sabi) e del trascorrere del tempo; del saper trovare la bellezza nell’imperfezione e del celebrare le difficoltà e i momenti che ci plasmano (kintsugi). La seconda parte, Karada, è tutta dedicata al corpo: come interagiamo con l’ambiente che ci circonda (attraverso i bagni nella foresta, la sistemazione dei fiori e dell’abitazione); come lo nutriamo e ce ne prendiamo cura (attraverso il cibo, il tè e la pratica del bagno); e come stimoliamo la nostra mente (attraverso la calligrafia). Infine, la terza parte, Shukanka (sviluppare l’abitudine), spiega come incorporare tutto questo nella nostra vita quotidiana, fino a trasformarlo in una seconda natura, una routine.
Sono convinta che molti aspetti della vita culturale giapponese possano – e dovrebbero – essere conosciuti e adottati anche altrove. Che si tratti di modificare il proprio atteggiamento mentale, di trovare il tempo per apprezzare una buona tazza di tè o concedersi una corroborante passeggiata nella natura, queste e altre tecniche hanno il potere di rivelarsi preziose per tutti quelli che, come noi, a volte si sentono oppressi dal lavoro, ansiosi, spossati o in affanno.
Siamo sempre sotto pressione per raggiungere la perfezione in tutto ciò che facciamo, per essere felici (mai tristi, arrabbiati o turbati), per apparire assolutamente infallibili. Ci dicono che dovremmo fare tutto, avere tutto: portare avanti una carriera di successo, ma senza rinunciare al tempo con la famiglia; mangiare, ma senza rinunciare a un corpo perfetto, e così via. Questo approccio, però, non tiene conto della natura caotica della vita vera, dove le scadenze cambiano, dove altre persone possono scaricare su di noi le loro frustrazioni, dove esistono problemi o malattie. Un approccio di questo tipo provoca forti pressioni. Nel migliore dei casi, si rivela irraggiungibile, irrealistico; nel peggiore, estremamente pericoloso.
Le filosofie che condividerò con voi in queste pagine, e che sono parte integrante della cultura giapponese, vi aiuteranno a riconoscere e affrontare la transitorietà della vita, a trovare la bellezza nel caos, a imparare ad amare e a custodire le vostre cicatrici: tutto ciò avrà un meraviglioso effetto liberatorio. È importante saper riconoscere che le cose finiranno, e che a volte i nostri piani andranno all’aria, ma senza per questo diventare nichilisti. E invece di rincorrere l’irraggiungibile traguardo della perfezione, cerchiamo di trovare appagamento