Discover millions of ebooks, audiobooks, and so much more with a free trial

Only $11.99/month after trial. Cancel anytime.

Il Grand Tour: Voyage en Italie
Il Grand Tour: Voyage en Italie
Il Grand Tour: Voyage en Italie
Ebook357 pages5 hours

Il Grand Tour: Voyage en Italie

Rating: 0 out of 5 stars

()

Read preview

About this ebook

iSPIRATO AL FENOMENO DEL GRAND TOUR, IL ROMANZO NARRA UNA STORIA DI CRESCITA E D'AMICIZIA E, AL CONTEMPO, RICOSTRUISCE IN MODO ATTENTO E DOCUMENTATO LE CONDIZIONI DELL'ITALIA DEL XVIII SECOLO.
LanguageItaliano
Release dateDec 31, 2020
ISBN9791220243568
Il Grand Tour: Voyage en Italie

Related to Il Grand Tour

Related ebooks

Performing Arts For You

View More

Related articles

Reviews for Il Grand Tour

Rating: 0 out of 5 stars
0 ratings

0 ratings0 reviews

What did you think?

Tap to rate

Review must be at least 10 words

    Book preview

    Il Grand Tour - Adele Costanzo

    Bibliografia

    A scanso di equivoci

    Per una strana coincidenza, la stessa mattina in cui il giovane Trespetit lasciava la casa dei genitori, e pressappoco alla stessa ora, Richard Boyle, terzo conte di Burlington, partiva dalla sua villa di Londra con un seguito di quindici assistenti e servitori tra cui un barbiere, un sarto e un cuoco. Perché restasse adeguata testimonianza del viaggio in Italia, non trascurava di portare con sé Louis Goupy, quotato miniaturista e ritrattista francese, e l'occorrente per scrivere.

    Henri partiva invece a cavallo, con due o tre vestiti di ricambio stipati nella sacca e in compagnia di Bachume il quale, a onor del vero, aveva nella borsa fogli e matite per disegnare ed un quaderno. Il ragazzo e il precettore erano emozionati e contenti, per ragioni diverse ma in ugual misura.

    Anche lord Burlington era emozionato e contento.

    Aveva la mente ampia ed aperta, casse vuote e carrozze da riempire con ogni genere di souvenir. Era infatti un uomo colto e curioso, un raffinato collezionista. Henri aveva, al contrario, una borsa di cuoio, una mente acerba, e interessi all'epoca piuttosto elementari.

    Tuttavia, malgrado il senso e il valore che Burlington sapeva dare alle cose, quello di cui si narrerà non sarà il suo viaggio.

    Riflessioni del capitano Henri Trespetit riguardo ai Grand Tour e all’innumerevole quantità dei venti

    Di tanto in tanto, soprattutto di sera, quando gli umori malinconici si concentrano nel sangue e pesano sul cuore, accadeva che veleggiando sottocosta in qualche piccolo mare, alla vista della forma bruna delle montagne o di una città verticale schiacciata su un promontorio lo stomaco del capitano Henri Trespetit venisse morso da un improvviso dolore e gli occhi, in cui si mescolavano tutti gli azzurri e i grigi dei mari in cui avevano guardato, gli si velassero di lacrime.

    Esistono infatti rimpianti e dispiaceri che proprio non vogliono passare. Si acquattano da qualche parte dentro l’anima e riaffiorano così, a tradimento, perché non c’è acquisto che non comporti perdite né Grand Tour che non preveda dolore, benché le numerose e ben documentate guide per i viaggiatori su questo aspetto sorvolino.

    Lui e Bachume avevano architettato ogni cosa per benino e alla fine suo padre era più convinto di loro della necessità del viaggio.

    Suo padre era il giudice Maxime Trespetit, prima nobiltà di toga.

    Henri lo vide poco nei giorni che precedettero la partenza e la cosa, naturalmente, non gli dispiacque, né si pose il problema di quello che facesse chiuso fino all’ora di cena nello studio.

    Poi, il giudice era morto da un anno, trovò ripiegata tra le carte la grande mappa d’Italia con i percorsi segnati a matita. Croci sui nomi delle città, linee, cancellature, punti di domanda.

    Allora, in certe notti interminabili passate a fissare le costellazioni dall’amaca che beccheggiava sul ponte, perché specie d’estate nella cabina appestata dall’odore di sentina proprio non riusciva a stare, pensava a lui che non s’era mai allontanato troppo da Chartres, a quanto ne sapeva, né mai probabilmente aveva desiderato farlo, e che però si consumava gli occhi sulla mappa di un paese che non conosceva e non considerava, nella speranza che un semplice sguardo bastasse a proteggere il figlio e a stargli accanto.

    C’era dunque stato un Grand Tour parallelo . Quello di carta e matita del giudice suo padre, viaggiato alla scrivania, nell’aria che sapeva di fumo di pipa e di polvere di libri, troppo ferma per smuovere i radi capelli incollati alle tempie.

    Al contrario, il vento che soffiava forte sul giardino, specie in inverno, avrà spettinato la folta chioma grigiobionda di Alphonsine mentre aspettava le lettere al balcone.

    In questo modo probabilmente andò il terzo Grand Tour, quello di sua madre, impantanato nel rancore nei confronti del marito e nell’ansia per ciò che poteva succedere al figlio.

    Non doveva essere stato piacevole, perché era una donna d’azione, Alphonsine, robusta e solida. Nelle vene che scorgeva sotto il velo della pelle chiarissima Henri sentiva scorrere veloce la parte sana del sangue dei de Lamaire, e per quella ragione e non per altro a lungo le portò rancore. L’ultima volta che la vide, quelle delle tempie erano scure e nodose come vecchie radici e premevano sull’involucro trasparente e sottile. Tornava da Zanzibar con un carico di chiodi di garofano per conto della Compagnia Olandese e le aveva portato in dono un rametto di corallo che lei posò sul tavolo senza nemmeno guardare.

    La sua mente, che era stata implacabile, ormai confondeva i luoghi e le rotte. Ogni tanto gli chiedeva dell’Italia, del Papa o di Bachume. Ma forse non si sbagliava nemmeno allora, Alphonsine, perché a conti fatti non è che uno il viaggio e non a torto viene detto Grand Tour.

    E il vento che soffiava sul giardino avrebbe scompigliato ancor di più i capelli biondi di Mariette, lunghi e mossi sotto la cuffia che il ruolo le imponeva, se la stanza nel sottoscala in cui dormiva avesse avuto una finestra da cui guardare la luna che cresceva.

    Il Grand Tour di rabbia e di paura d’una serva, povero d’aria. L’aria che aveva, invece, santificato il suo.

    All’epoca non conosceva ancora il nome, la direzione e le qualità dei venti e credeva che ogni corrente fosse la stessa. Chiamava pertanto con quel nome generico la brezza tiepida che increspava il Mediterraneo la prima volta che lo vide e che gli asciugò in fretta l’acqua di dosso, la quale evaporando gli lasciò sottili strisce di sale sulla pelle; le raffiche che odoravano di temporale e arruffavano i capelli rossi di Bachume rendendoli simili al nido di un Uccello; il soffio che imbrogliava i capelli ondulati della ragazza che s’era sciolta le trecce e il pelo grigio del suo primo cane.

    Solo navigando imparò che i venti sono un’infinità, e soprattutto che i loro effetti dipendono da combinazioni variabili dovute alla loro velocità ed intensità ed alla pesantezza e forma dei corpi. E che pertanto, a ragionarci sopra senza farsi condizionare dai sentimenti e dalla no-

    stalgia, l’anomalia non è nel perdere i propri compagni di viaggio, ma nell’averne avuti.

    Sapete qual è la cosa che maggiormente

    ci distingue dalle altre

    creature? Il bisogno di inventare delle storie e la voglia di starle ad ascoltare"

    (Bachume)

    Certo è, che bisogna viaggiare.

    (Voltaire)

    E dite

    mi, Bachume, quanto mi costerà

    questo scherzetto del Grand Tour?

    (Maxime Trespetit)

    -

    "

    Prima parte

    Con gli occhi puntati sulle città non viste

    Ma la Sicilia non stava in mezzo al mare?

    (Henri Trespetit)

    Tra il sud senza tempo e la limpida evidenza della storia

    Sono giovani. Inoltre, considerate lo spirito d'avventura» rispose spazientito Maxime Trespetit. Poi controllò l'ora sul comodino, posò il Voyage d'Italie di Misson e sbadigliò in maniera esagerata. Era il suo modo di dichiarare chiusa la seduta, però la moglie Alphonsine era di diverso avviso.

    «Scusate voi» ribatté infatti «ma se pensate che starò zitta vi sbagliate.»

    Per tutta risposta il giudice soffiò sulla candela e tirò la coperta fino al mento. Lei, che non si dava mai per vinta, specie quando la cosa riguardava il figlio, continuò.

    «Se deve proprio farlo, questo benedetto Grand Tour» disse «che almeno sia in carrozza.»

    Il marito sospirò. Sapeva che non sarebbe stato facile farle accettare la cosa, però la questione era di quelle per le quali era disposto a sopportare lagne e malumori. Questione di soldi, principalmente.

    «Ragionate» giratasi sul fianco verso di lui, gomito sul cuscino e mano tra i capelli, lei continuava «lasciando perdere il discorso della pioggia e della neve che, come dite, si può risolvere con il servizio di posta, ma i bagagli, le provviste? Avete idea delle cose che servono? E il pericolo, dove lo mettete? Volete mandarlo in giro così, come un disperato, un avventuriero, uno qualunque? È vostro figlio. Non capisco davvero come farete a prender sonno.»

    Trespetit si rassegnò ad una discussione estenuante e si voltò verso di lei. La guardò. La luce della candela alle sue spalle le alterava il colore dei capelli e l'ombra, davanti, le oscurava il viso. Tanto meglio. Era comunque chiaro che non piangeva. Non avrebbe pianto nemmeno se, com'era certo, Henri e Bachume fossero partiti a cavallo e se, com'era probabile, le notizie in quei lunghi mesi fossero state scarse. Alphonsine de Lamaire, duchessa di nascita. Nobiltà di spada. Famiglia di spocchiosi, scioperati, ignoranti renditieri. Due fratelli più giovani che facevano duelli, mettevano incinte le cameriere e non aprivano un libro da vent'anni.

    Allora improvvisamente gli venne da pensare ad Henri, alla ridicola storiella della tabula rasa che Bachume e quei filosofi di mezza tacca raccontavano per giustificare la propria esistenza e lo stipendio, e alla stupida metafora delle valige vuote con cui approdiamo al mondo.

    Che abbia ricevuto l'eredità dalla parte sbagliata? Viaggerà, e a cavallo, si disse , sotto la pioggia e il vento. Porterà per settimane lo stesso vestito.

    S'irrigidì, non ci sarebbe stata nessuna discussione. Sul suo viso, alla luce della fiamma, la moglie vide stagliarsi il ghigno di una decisione già presa.

    «Statemi voi a sentire, Alphonsine de Lamaire» disse agitando l'indice della mano destra « nostro figlio Henri e quell'idiota di precettore partiranno a cavallo. E non solo perché viaggiare con la carrozza comporterebbe un postiglione e un corriere e tutto il resto che non sto a dire. No. Ma soprattutto perché io, che sono il padre, ritengo che è così che debba andare la faccenda.»

    Era il millesettecentoquattordici, inizi di maggio. Il diciannove aprile dell'anno precedente, la Prammatica sanzione smussava la vi-

    rile intransigenza della legge salica e apriva uno spiraglio ai diritti di successione in linea femminile nell'impero asburgico. Troppo poco, e troppo lontano da Chartres perché Alphonsine potesse opporsi alla scelta del marito, o comprare ed equipaggiare una carrozza coi soldi, non pochi, che gli aveva portato in dote.

    Ma ingoiare il rospo è un conto, un altro è digerirlo.

    Maxime Trespetit, pensò, sia fatta la vostra volontà, però sappiate che me la pagherete.

    Nei giorni che precedettero la partenza il nervosismo di Alphonsine inondava la casa.

    Andava avanti e indietro per le stanze, prendeva in mano il ricamo e lo riponeva, rimproverava Mariette. Era naturalmente preoccupata ma non trovava pace perché mal sopportava la condizione di passività che per antica consuetudine tocca alle madri.

    Aveva provato ad evitare in tutti i modi il viaggio, e non solo per la paura che potesse accadere qualcosa di terribile al suo unico figlio, ma anche perché l'idea di perdere ogni controllo su di lui le dava il tormento.

    Negli ultimi tempi, da che Henri era cambiato e aveva smesso di raccontare ciò che faceva nelle ore, interminabili, che passava fuori, entrava spesso a notte fonda nella sua stanza.

    Credendolo addormentato, tramortito dai bagordi, frugava liberamente tra i vestiti. Rovistava nelle tasche dei calzoni e della giacca, annusava la camicia, la ispezionava al lume della lampada se l'aveva lasciata accesa, oppure si avvicinava alla finestra e controllava alla luce della luna.

    Cosa cercasse, difficile da dirsi. Biglietti, denaro, tabacco, macchie di vino, capelli. Fuliggine di chi sa quali inferni che s'immaginava, scorie di un'altra vita.

    Henri qualche volta la sentiva però fingeva di dormire.

    Che cerchi a suo piacimento, si diceva, che pensi ciò che vuole, che si tormenti.

    Invece la sera prima della partenza, il ragazzo se ne stava col lume acceso a fissare il soffitto, vedendola arrivare si girò sul fianco verso di lei.

    «Siete voi, mamma» disse.

    Alphonsine gli si sedette accanto, gli passò le dita tra i capelli biondostoppa e lui, contrariamente al solito, la lasciò fare.

    «Henri, promettimi che starai attento e che mi scriverai.»

    Stettero per un po' in silenzio. Poi Alphonsine prese un sacchetto dalla tasca della veste da camera.

    «Tieni, potranno servirti. Non dire niente a tuo padre, però. È una cosa tra me e te.»

    Come per effetto di una molla, il figlio si tirò su e si mise a sedere. All'epoca esistevano argomenti ai quali non sapeva resistere ed uno di quelli erano le opportunità che il denaro può dare.

    «Soldi?»

    «Gioielli, puoi venderli in caso di bisogno. Con ciò che vi darà quello spilorcio sarà difficile affrontare le emergenze. Saranno la tua riserva personale. Non dire niente a Bachume.»

    Aprì il sacchetto e posò sul lenzuolo, uno accanto all'altro, la collana di perle, l'anello di rubino e quello con il fiore di smeraldo, il bracciale d'oro massiccio e la grossa spilla a forma di croce tempestata di diamanti e di turchesi.

    Anche al fiacco chiarore della candela l'oro e le gemme lampeggiavano come se fossero dotati di luce propria. Erano un miracolo di lucentezza, un'assoluta meraviglia.

    Mentre li teneva tra le mani grandi ed impacciate, Henri pensava alle porte di chi sa quali palazzi di delizie che quei gioielli potevano dischiudergli e non immaginava che dall'uso che ne avrebbe fatto sarebbe invece dipeso l'esito del Grand Tour.

    Maxime Trespetit invece si vedeva poco in giro perché passava i pomeriggi nel suo studio.

    Aveva speso un patrimonio per comprare una carta d'Italia uno a mille nuova di zecca, con i confini aggiornati al millimetro dopo le paci di Utrecht e di Radstadt e se ne stava ore ed ore a fissarla con la mano sul mento e le sopracciglia aggrottate perché, per quanto si sforzasse, quella regione dal profilo capriccioso non gli piaceva, lo innervosiva profondamente.

    Era così lontana dalla sua idea di come dovrebbe essere un paese. Esposta ai quattro venti, la penisola gli sembrava una terra di mare pronta a concedersi, dalle gambe aperte come quelle di certe donne.

    Avesse avuto il profilo massiccio, virile della Francia e della Spagna, avrebbe a suo avviso incontrato un diverso destino, sem­pre che siano l'imperscrutabile disegno della natura o la cieca casualità che, secondo alcuni, ispira l'opera delle acque, dei venti e dei terremoti, e non piuttosto la propria condotta la causa delle sventure che toccano in sorte.

    Come quando ci si ritrova un figlio che non ci assomiglia né ci ascolta. Un figlio bello e biondo, però.

    A pensarci bene gli appariva ridicolo, quasi patetico affidare le residue speranze riguardo a Henri alla regione più molle e dissoluta che la dignitosa Europa comprendesse.

    Coi gomiti sul grande foglio, dal cui fondo giallino rosato spiccavano i confini dei singoli stati tracciati con colori più scuri e decisi quali il rosso porpora, il verde e il blu, pensava alle guerre, agli intrighi, ai matrimoni contronatura e alle congiure di palazzo che c'erano dietro quei contorni smerlati e si chiedeva il senso dell'accanimento con cui i piccoli e grandi regnanti d'Europa si facevano guerra per spostare le linee di qualche centimetro.

    Il contrasto cromatico tra il fondo e i contorni, così evidente e ingenuo - sembrava quasi che le linee di demarcazione fossero state tracciate col pastello dalla mano pesante di un bambino - gli dava l'idea che qualunque volontà avrebbe avuto ragione, ogni volta, dell'innata mollezza e sostanziale indifferenza al proprio destino che venivano abitualmente contrabbandate per mitezza e per bontà. E pensava a Henri, che andava dove portava il vento e in cui non riusciva a scorgere l'abbozzo d'un progetto.

    Come i fratelli di sua madre, si diceva, come l'Italia.

    Fu un vero peccato che al ragazzo sia poi mancato il tempo per parlare con il padre di velieri e di carichi di tè e di cannella. Se ci fosse stato il tempo, alla fine forse il giudice Trespetit, che non sapeva trovare bellezza se non nella legge che squadra ogni angolo del mondo, avrebbe capito che può essercene se non di più, almeno altrettanta nel vento e nel mare, e che è possibile solcare gli oceani anche senza indossare una divisa da ufficiale.

    E ci fosse stato il tempo, chi sa, il giudice Trespetit avrebbe magari compreso che non tutte le terre che non sono ancora salve sono perdute, che ce ne sono alcune in cui tutto quanto è possibile. Sono le terre giovani, e avrebbe potuto pensare a suo figlio come si pensa all'Australia, o all'America.

    E invece doveva aver sentito le vertigini, lui che frequentava il lato misurabile del mondo, quando, fissando la carta, si ritrovava nell'intrico dei nervosi e brevi corsi dei fiumi, nelle costellazioni di paesi e città, nelle innumerevoli linee larghe e strette, lunghe e brevi, convergenti e divergenti delle strade. Non che mancassero, specie nelle parti più lontane dal mare, tra le profonde ferite delle valli alpine e in vaste zone del temibile sud, intere regioni consegnate al silenzio, territori in cui non un nome né una riga violavano la tinta slavata della carta. Da cosa mai fosse abitato quel vuoto, come dovesse apparire quell'assenza a trovarcisi dentro, quali ombre inondassero quelle terre di nessuno o quali luci accecanti riverberassero su quei deserti, Maxime Trespetit non osava nemmeno domandarselo.

    Allora aveva impugnato la matita per segnare sulla mappa le tappe del viaggio.

    «Non farete scarti né colpi di testa, vi atterrete al percorso stabilito» aveva intimato a Bachume.

    Torino, Milano, Venezia, Roma: città. Capitali: vi dimoravano governanti i cui eserciti controllavano le strade, nei limiti del possibile.

    «Eviterete di girare di notte» aveva aggiunto.

    Poi Napoli, ribollente confine in bilico tra l'indefinibile sud senza tempo e la limpida evidenza della storia.

    «Ci rimarrete non più di qualche giorno.»

    Quindi una veloce virata e via in risalita verso Siena, Lucca, Fi­renze, Genova: le oneste, laboriose città che da secoli si sforzavano di imporre al territorio le regole della cittadinanza.

    Con segni decisi Maxime Trespetit aveva quindi delineato il percorso sulla mappa, ma giunto circa a metà della via Francigena s'arrestò. Per quanto potesse predisporre ogni cosa e cercare di limitare i pericoli del viaggio, questo gli appariva comunque pieno d'insidie, perché ogni Grand Tour comporta l'attraversamento della discontinuità.

    Forse sarebbe venuto un tempo, tra due, tre, dieci secoli o chissà, in cui la mano ordinatrice dell'uomo avrebbe bonificato, disboscato, dominato l'incolto perfino in quella terra senza progetti e senza pace. Ma intanto l'erbaccia cresceva tra le pietre antiche, e boschi, paludi e rovi intervallavano le città ricche di codici e di storia. Le quali stesse, poi, come se non bastasse, a quanto ne sapeva ospitavano proprio dietro ai palazzi inestricabili labirinti di vicoli la cui vita era del tutto simile a quella che si svolgeva nelle zone marginali, nelle imbarazzanti e rimosse periferie.

    Un tempo, forse.

    O meglio, sicuramente, perché il giudice non smise mai di credere nella forza ordinatrice della luce né nell'esito felice della lotta.

    E tuttavia dovette rassegnarsi all'incertezza, perché il viaggio andava fatto allora, in quella loro stagione sospesa in cui le luci e le ombre si contendevano la bella Italia e il futuro del figlio.

    Il giudice tenne per sé dubbi e paure e non un'ombra ne offuscava il viso severo quando il momento della partenza arrivò. Per prima cosa, si appartò con Bachume.

    «Mi sembra superfluo ricordarvi che se dovesse capitare qualcosa di spiacevole al mio ragazzo, per voi sarebbe la fine. Che non vi ringalluzzisca la distanza: sapete bene che vi scoverei anche in capo al mondo, caro il mio professore

    «Andrà tutto come deve andare, signore» fece questi puntando senza imbarazzo né timore i piccoli occhi grigi in quelli scuri e grandi, quasi bovini, di Trespetit.

    Dopo avere messo le cose in chiaro col precettore, s'allontanò di qualche passo con il figlio e, quando fu alla giusta distanza da Alphonsine e dal maestro, lo guardò negli occhi.

    «Fa' quello che ti dice Bachume e non allontanarti mai da lui. È una grande opportunità che ti viene concessa, ragazzo, vedi di non sprecarla com'è tua abitudine.»

    Fu un gran peccato che Henri non ne sostenne lo sguardo mentre ad occhi bassi farfugliava che avrebbe fatto del suo meglio, e che perciò non vide l'espressione del padre ammorbidirsi per effetto d'un imprevisto e tristissimo moto del cuore.

    Né Alphonsine, in attesa accanto ai cavalli e all'imperturbabile Bachume, vide il viso del figlio perdere l'aria dello stesso sereno dipinto, improbabile, di quel mattino, però le sembrò, così di spalle, leggermente incurvato sotto il peso delle raccomandazioni e minacce. Peccato che avesse riservato al giudice gli eventuali scampoli di vulnerabilità. Infatti quando tornò da lei ostentava di nuovo un'aria indifferente e scanzonata. Mani nelle tasche dei calzoni, sguardo sfuggente.

    «Arrivederci, mamma. E state tranquilla.»

    Alphonsine fece appena in tempo a posare le labbra sulla guancia ispida che il figlio era già in sella.

    Intanto da dietro la finestra dello studio, non vista da nessuno, anche Mariette osservava la scena. Aveva imprecato e pianto, ma poi, non appena Henri e Bachume furono inghiottiti dal vasto e vario mondo oltre il cancello che li aspettava, prima che la polvere tornasse a posarsi per terra, sui fiori e sulle cose, che i rami bassi della magnolia si fermassero ed un definitivo silenzio iniziasse a scendere su Alphonsine e il marito, s'era affrettata ad asciugarsi il naso e a pulire con la manica il vetro che aveva appannato col respiro.

    Orléans,

    sera del 3 giugno 1714

    L'aria sapeva di polvere e di menta mentre mi allontanavo da Chartres. E di libertà, potrei anche dire, se bastasse uscire da un cancello, lasciarsi alle spalle lo stucchevole odore del gelsomino e puntare a sud per sentirsi liberi.

    Il sud, il Mediterraneo. Vorrei avere una moneta da giocarmi o da spendere, o una strada da scegliere per ogni volta che l'ho sognato davanti ad una nave che scompariva in mare aperto, o ad un atlante.

    C'è un'ironia feroce nel sogno che si realizza quando hai smesso di sognare.

    Sono gli appuntamenti mancati, le asincronie, e si verificano quando la cosa che volevi, che sia una donna, la bella stagione, la ricchezza o la maggiore età, un giorno arriva ma tu non sai che fartene perché è successo che nulla più t'importi né ti smuova, a parte l'istinto primordiale a sopravvivere.

    Henri mi cavalca accanto.

    Parla poco il ragazzo, e non si ascolta.

    Fa lo spaccone, non si volta indietro nemmeno col pensiero, mente a sé stesso e agli altri e si farebbe uccidere piuttosto che confessare la paura.

    Noi non negammo la nostra invece, quando ci toccò, ma si trattava di un altro genere di viaggio.

    Il Grand Tour in sé e per sé è una faccenda banale, se non ridicola, benché comporti una discreta quantità di rischi. È una moda che imperversa tra la gente ricca del nord, avida di sole e di certe manifestazioni particolarmente evidenti della storia.

    Sono degli imbecilli, incapaci di guardare.

    Perché se è vero che ci sono terre, in Europa, la cui estate è poco più d'un tiepido sbadiglio tra l'inverno e l'autunno (non ha ovunque la medesima ampiezza l'angolo d'incidenza dei raggi quando cadono sulla sfera, pertanto è assai diversa la porzione di luce che a ciascuna regione tocca in sorte), è altrettanto vero che ogni paese reca impresse le tracce di chi ci ha preceduto, a saperle cercare. Però generalmente i viaggiatori non prestano attenzione al solco dell'aratro e all'opera del taglialegna, né ai muretti di pietra: non hanno occhi che per l'oro dei mosaici e i marmi delle chiese e dei palazzi.

    Anch'io ragionavo così prima che il mio viaggio avesse inizio.

    Il nostro viaggio, poiché anche quella volta, che era la prima, partimmo in due. Il mio continua ancora, ma si chiama fuga.

    Non c'è da stupirsi, allora, se sono così sensibile alle partenze.

    Questa che s'è appena consumata sinceramente non pensavo che mi colpisse tanto, dal momento che riguarda i Trespetit, dei cui problemi, a dirla tutta, assai poco m'importa.

    È strano il rapporto che si instaura tra un precettore e la famiglia per cui lavora. Più che altro si tratta di un rapporto che comporta una sorta di reciproca diffidenza, se non addirittura di disprezzo, in quanto accade che il sottoposto, il quale dispone di conoscenza, di tempo e di pazienza ma è a corto di denaro, si senta superiore al proprio datore di lavoro e non lo stimi. Questi, dal canto suo, poiché dispensa soldi e ospitalità, guarda con sufficienza al precettore e al suo sapere, di cui certe convenzioni sociali gli impongono il bisogno.

    Il giudice mi chiama quell'idiota di Bachume: me lo ha riferito Henri e gliel'ho sentito dire mentre sbraitava con la moglie, ma il più delle volte gliel'ho letto in faccia.

    Quel che pensavo e che penso di lui, e della sua consorte, il buon senso e il ruolo m'hanno indotto a tenerlo per me. Convincerlo a lasciarci partire è stato un gioco da ragazzi. E ditemi, Bachume, quanto mi costerà questo scherzetto del Grand Tour?, mi ha chiesto quando era cotto a puntino.

    Eppure ho avvertito una punta di dolore, una tenerezza, vedendo lo strappo che si sono imposti in nome del bene che provano per il proprio unico figlio (sia chiaro, però, che ognuno lo ama per suo conto e a modo suo: Maxime ed Alphonsine dividono ormai ben poco, a quanto mi risulta).

    Praticamente, l'andazzo che conduceva Henri ha fatto sì che non restasse altra speranza che il Grand Tour. Insomma, preso atto del più totale fallimento dell'educazione del ragazzo, quel che non hanno ottenuto con cure, prediche, punizioni e pianti, vale a dire con le molteplici manifestazioni della propria presenza, ora lo chiedono all'assenza.

    Affidano il figlio al mondo perché glielo renda diverso, e loro si tirano in disparte. Vogliono che il Grand Tour gli cambi quel destino da irresponsabile e da nullafacente verso cui sembra correre come l'ago alla calamita, come al suolo un corpo pesante.

    Mi viene da sorridere.

    Sarebbe ottimo materiale per una tragedia antica, se le circostanze fossero un po'

    Enjoying the preview?
    Page 1 of 1