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Tempo imperfetto
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Tempo imperfetto

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Angela non è più giovane ma ancora attraente e piena di vitalità. Una milanese indipendente con un divorzio alle spalle e un figlio amatissimo ormai adulto. La sua passione per il ballo liscio la porta ad accompagnare un’amica in un locale e qui avviene un incontro imprevedibile destinato a cambiare la sua vita. Viene invitata a danzare da un uomo molto fascinoso, ma non è solo l’immediata sintonia del ballo ad attrarli l’uno verso l’altra. Non ci vuole molto per Angela a capire che fra lei e quest’uomo, che ha anche un lato misterioso, quasi inafferrabile, sta accadendo qualcosa di importante. Liliana Paoloni scandaglia a fondo i meccanismi dell’innamoramento, del trovarsi a una certa età coinvolti in un inedito rapporto amoroso che può mettere in crisi la tranquilla solidità di una donna che ha trovato in se stessa la forza di costruire un’esistenza piena malgrado le difficoltà della vita. Ma il suo, e quello di questa figura maschile complessa tratteggiata con maestria dall’autrice, è solo desiderio o tra loro sta iniziano una storia decisiva? Rincorrendosi in luoghi e città diverse i due ripetono i riti di tutti gli amanti che si cercano, ma ogni storia degli amanti è uguale e diversa insieme. E la si scopre soltanto svelando con coraggio i propri sentimenti.

Liliana Paoloni si forma giovanissima come ballerina classica alla scuola di Ugo Dell’Ara, ballerino, coreografo e maitre scaligero. Balla come solista nei maggiori teatri italiani ed esteri e partecipa a spettacoli televisivi nei ruoli di ballerina e coreografa. Lavora per due anni come redattrice in una rivista mensile e in seguito in qualità di segretaria di edizione alla RAI di Torino nel reparto cinematografico. Entra in pubblicità con la qualifica di copywriter. Un lungo percorso iniziato a Torino e proseguito a Milano nelle due più importanti agenzie del settore. Come creativa lavora alla ideazione e realizzazione di campagne e commercial per clienti nazionali e internazionali, dedicandosi in particolare alla localizzazione e al doppiaggio di spot tv provenienti dall’estero. Grazie all’agenzia milanese frequenta un corso di cinema alla N.Y.U. Attualmente tiene un corso di “Danza Jazz” alla Fondazione Humaniter di Milano e partecipa, come attrice amatoriale, a spettacoli di teatro. Vive a Milano. Questa è la sua prima opera di narrativa.
LanguageItaliano
Release dateDec 1, 2020
ISBN9788830631977
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    Tempo imperfetto - Liliana Paoloni

    Prefazione di Barbara Alberti

    Il prof. Robin Ian Dunbar, antropologo inglese, si è scomodato a fare una ricerca su quanti amici possa davvero contare un essere umano. Il numero è risultato molto molto limitato. Ma il professore ha dimenticato i libri, limitati solo dalla durata della vita umana.

    È lui l’unico amante, il libro. L’unico confidente che non tradisce, né abbandona. Mi disse un amico, lettore instancabile: Avrò tutte le vite che riuscirò a leggere. Sarò tutti i personaggi che vorrò essere.

    Il libro offre due beni contrastanti, che in esso si fondono: ci trovi te stesso e insieme una tregua dall’identità. Meglio di tutti l’ha detto Emily Dickinson nei suoi versi più famosi

    Non esiste un vascello come un libro

    per portarci in terre lontane

    né corsieri come una pagina

    di poesia che s’impenna.

    Questa traversata la può fare anche un povero,

    tanto è frugale il carro dell’anima

    (Trad. Ginevra Bompiani).

    A volte, in preda a sentimenti non condivisi ti chiedi se sei pazzo, trovi futili e colpevoli le tue visioni che non assurgono alla dignità di fatto, e non osi confessarle a nessuno, tanto ti sembrano assurde.

    Ma un giorno puoi ritrovarle in un romanzo. Qualcun altro si è confessato per te, magari in un tempo lontano. Solo, a tu per tu con la pagina, hai il diritto di essere totale. Il libro è il più soave grimaldello per entrare nella realtà. È la traduzione di un sogno.

    Ai miei tempi, da adolescenti eravamo costretti a leggere di nascosto, per la maggior parte i libri di casa erano severamente vietati ai ragazzi. Shakespeare per primo, perfino Fogazzaro era sospetto, Ovidio poi da punizione corporale. Erano permessi solo Collodi, Lo Struwwelpeter, il London canino e le vite dei santi.

    Una vigilia di Natale mio cugino fu beccato in soffitta, rintanato a leggere in segreto il più proibito fra i proibiti, L’amante di lady Chatterley. Con ignominia fu escluso dai regali e dal cenone. Lo incontrai in corridoio per nulla mortificato, anzi tutto spavaldo, e un po’ più grosso del solito. Aprì la giacca, dentro aveva nascosto i 4 volumi di Guerra e pace, e mi disse: "Che me ne frega, a me del cenone. Io, quest’anno, faccio il Natale dai Rostov».

    Sono amici pazienti, i libri, ci aspettano in piedi, di schiena negli scaffali tutta la vita, sono capaci di aspettare all’infinito che tu li prenda in mano. Ognuno di noi ama i suoi scrittori come parenti, ma anche alcuni traduttori, o autori di prefazioni che ci iniziano al mistero di un’altra lingua, di un altro mondo.

    Certe voci ci definiscono quanto quelle con cui parliamo ogni giorno, se non di più. E non ci bastano mai. Quando se ne aggiungono altre è un dono inatteso da non lasciarsi sfuggire.

    Questo è l’animo col quale Albatros ci offre la sua collana Nuove voci, una selezione di nuovi autori italiani, punto di riferimento per il lettore navigante, un braccio legato all’albero maestro per via delle sirene, l’altro sopra gli occhi a godersi la vastità dell’orizzonte. L’editore, che è l’artefice del viaggio, vi propone la collana di scrittori emergenti più premiata dell’editoria italiana. E se non credete ai premi potete credere ai lettori, grazie ai quali la collana è fra le più vendute. Nel mare delle parole scritte per esser lette, ci incontreremo di nuovo con altri ricordi, altre rotte. Altre voci, altre stanze.

    I

    Come al solito, non ho nessuna voglia di andare a dormire.

    Sono pronta, lavata e struccata. Indosso una camicia bianca, corta e leggera. Giro ancora per casa, a piedi scalzi, per un’ultima occhiata. La notte riempie di significati dettagli altrimenti trascurabili: l’agenda sul tavolo, il giornale buttato a terra vicino al divano e, là in fondo, la porta d’ingresso, immersa nell’ombra. La mia piccola quiete si nutre di indizi familiari.

    Raggiungo il grande letto matrimoniale. Da tre anni dormo sul lato destro. Da sola.

    Un libro, il bicchier d’acqua. Due cuscini. La tirannia degli oggetti, penso freddamente mentre mi sdraio con un sospiro.

    Le due. Butto il libro nello spazio vuoto. Spengo la piccola abat-jour. Mi giro sul fianco.

    Ed ecco che, come se mi trovassi sul bordo di un trampolino e qualcuno mi spingesse da dietro, mi sento precipitare in un mare di pensieri agitati, fluidi, ricorrenti, che vanno e vengono a ondate dietro le palpebre chiuse, senza ordine d’importanza.

    Tra tanti, ce n’è uno che torna invadente, si intrufola tra me e un vago preludio di sonno: domani dovrò dare una risposta a Sara, che vuole trascinarmi in una balera, il Club 25.

    «Al pomeriggio del mercoledì le dame non pagano», aveva insistito al telefono.

    Come se questa fosse un’esca irrinunciabile.

    L’ultima volta che mi ero lasciata convincere ad accompagnarla avevo dovuto sforzarmi tutto il tempo di essere gentile con gli uomini con cui avevo ballato.

    Tornando a casa con Sara li avevo analizzati e catalogati, con un distacco e una precisione quasi scientifica.

    «O sono pensionati, o sono vedovi. O tutt’e due le cose», avevo detto in tono saccente. «Tutti a caccia di compagnia», avevo proseguito con la sicurezza di un entomologo.

    «E che c’è di male… magari si sentono soli. E ci sono anche i veri appassionati di liscio…», aveva osservato Sara conciliante.

    «Allora… ti elenco le tipologie: i timidi, che ballano in modo noioso e ripetitivo. I rozzi, che non vanno a tempo e, chissà perché, spesso emanano un odore di… di aglio. I giovanili, che adorano le polke interminabili e grondano di sudore…». Non riuscivo più a fermarmi, come se avessi studiato a memoria la lista degli uomini disgustosi incontrati nel corso della mia vita. «…Per non parlare dei seduttori... Quelli che, dopo averti alitato nell’orecchio qualche complimento volgare, passano come razzi alla richiesta di un appuntamento…», avevo proseguito imperterrita.

    Qualcuno per la strada si era girato.

    «Insomma, non ti sei divertita...», mi aveva interrotto Sara esasperata.

    «E poi sono tutti vecchi, con le mani secche e l’alito pesante », avevo concluso io, in tono melodrammatico.

    «Giornata no… eh! Comunque, io ho ballato il valzer da dio… non mi hai vista? Con un tipo abbastanza distinto, un certo Gilberto… anche se gira sempre a sinistra, il che non è normale. Però mi tiene… e non sgarra! Il valzer… o vai a tempo al millimetro o è una vaccata!», aveva detto Sara semplificando il concetto.

    Adesso, mentre le mie gambe scivolano su e giù lungo il lenzuolo cercando pace in nuove angolazioni e la notte sprofonda nel silenzio, c’è ancora un ricordo che preme, avanza, letteralmente prende corpo. Quel pomeriggio al Club 25 c’era stato un uomo che, approfittando di un lento e del semi-buio, aveva tentato un approccio più spinto, stringendomi, avvicinando la testa, accarezzandomi la schiena.

    «Ma no, dài… fai il bravo…», avevo reagito scostandomi di scatto, colta da una vera e propria nausea. Avevo avvertito un odore dolciastro, che mi ricordava quello di un’anziana baby-sitter che il mio bambino, molti anni prima, aveva malamente rifiutato.

    E finalmente, il sonno si sostituisce piano piano a quella fastidiosa reminiscenza olfattiva.

    «Allora, Angela, ci vediamo là? Ti fa bene muoverti. Una ballerina come te che non balla mai!», mi dice Sara il mattino dopo al telefono, puntuale e insistente, com’è nella sua natura.

    Lei programma la sua vita ora per ora, spremendo dalle circostanze e dalle persone tutto ciò che ha un po’ di succo.

    «Dobbiamo vivere finché siamo vive…», è la sua grande verità.

    Ma io ho appena aperto gli occhi. Metà del mio corpo è ancora intorpidito dalle posizioni involontarie, il collo rigido e dolorante. L’altra metà sembra molto più arrendevole.

    Mi stiro. Mi sgranchisco. Faccio roteare i fianchi. Riconosco che gli anni accumulati finora sono stati gentili con me. Ho fatto bene a considerarli con leggerezza, non facendoci troppo caso. Se ripenso al passato, credo di averli addirittura ignorati. Sento che il mio corpo è ancora forte, elastico. Forse per questo c’è un ricordo che arriva inaspettato, vivido e ardente, ma non nostalgico: io che ballo con Francesco, il mio ultimo compagno… Noi due allacciati, i corpi liberi e leggeri… quello sì era ballare! Ma lui non è più nella mia vita, da qualche anno.

    Una storia breve, di amore e disamore, finita in modo stremante…

    «Okay ci vediamo dentro. Prendi tu il tavolo...», dico a Sara quando la richiamo al telefono, un’ora dopo. Mi sono arresa. Ma, mi dico, posso sempre arrivare tardi, o mancare all’appuntamento. Una scappatoia vigliacca, che la mia amica non meriterebbe.

    C’è di buono che il mercoledì pomeriggio la balera è zona franca per le cosiddette single. Mai come ora apprezzo la libertà di non essere per forza accompagnata.

    E poi c’è il sole. Il sole di Milano, che è uguale a tutti gli altri, checché se ne dica. Irrompe dalle finestre facendosi strada tra palazzi e condominii, tra i pochi alberi della mia zona e i fili elettrici del tram. Il tendone giallo del soggiorno oggi scolorirà ancora un po’… che stupido pensiero. Ma l’ulivo sul terrazzino sembra palpitare sotto il tepore in modo quasi percepibile.

    Questa luce trasmette anche a me un’energia voluttuosa. Ho voglia di musica, di movimento, di facce nuove. So che questo schema non contiene chissà quali promesse di felicità.

    Penso fuggevolmente alle mie risorse intellettuali, ai libri, alle poche amicizie affette da snobismo culturale. Mi dico anche che non ha senso tuffarsi nel buio di una sala chiusa in una giornata così sfolgorante.

    Eppure, subito dopo pranzo, mi preparo.

    «Ci pitturiamo la faccia e ci vestiamo di pensieri celesti…», cantava David Bowie. Mi domando quanti frequentatori del Club 25 conoscano questa immortale canzone.

    Poco trucco. Sono troppo orgogliosa per cercare di mascherare i miei difetti.

    Poi guardo nell’armadio come se non sapessi cosa c’è dentro: mi succede quando la scelta dell’abito esprime un’intenzione che non mi convince. Qualche vaga regola ce l’ho: no wonder woman, ma neanche casalinga alla riscossa… E, soprattutto, niente che urli: sono a caccia! Devo sentirmi libera nei movimenti, ma abbastanza attraente da essere intercettata da ogni sguardo maschile da ogni angolo della sala. Sono gli uomini che decidono se e quanto ballerò.

    È così che funziona.

    Alla fine, eccomi pronta. Domina il verde. Sta bene col biondo, con i miei occhi chiari e con le calze nere trasparenti.

    Ma poi, chissene fregaaa…!, ripeto a me stessa in un empito di falso disinteresse.

    Infilo nella borsa le scarpe da ballo, leggere, tacco medio, suola di cuoio. Come l’abito, le scarpe sono elementi imprescindibili di ogni passo di danza. Non devono essere le stesse che si usano per strada. Cambiarsele è un rito.

    Quando arrivo davanti al Club 25, pochi uomini sostano davanti all’ingresso, fumando, chiacchierando.

    Qualcuno mi saluta. Alla luce del giorno, non riconosco nessuno. Mi prende una lieve morsa di timidezza.

    Mi domando perché sia ancora così imbarazzante entrare da sola in un locale da ballo. Faccio ricorso alla mia latente memoria storica, rievocando lontane lotte femministe, ormai superate… quella voglia disperata di sentirsi libere, di cambiare il mondo…

    Sara è già in pista. Mi vede e mi indica con un cenno il tavolino dove riconosco la sua borsa.Volteggia convinta tra le braccia di un tipo più basso di lei, il cranio rasato, che, una piroetta dopo l’altra, riesce a mantenere un discreto aplomb.

    Dev’essere il famoso Gilberto, quello che, per l’appunto, ambedue chiamiamo, con un po’ di cattiveria, il distinto.

    L’orchestra, issata su un ampio palco sul fondo della grande sala, ci dà dentro con impetuoso vigore. Mentre la cantante, una brevilinea in carne, tirata a lucido, abito fucsia, capigliatura corvina, agita i lunghissimi orecchini di strass davanti al microfono, incitando le poche coppie rimaste in pista a non mollare la roteante performance.

    Finalmente il valzer finisce.

    Sara arriva verso di me ondeggiando sui tacchi e sventolando, con le gambe magrissime, un’ariosa gonna a ruota, seguita dal distinto che si asciuga il sudore con un fazzoletto bianco, perfettamente piegato.

    «Ah ci sei…», dice stramazzando sul divanetto. «Noi siamo già mezzi morti. »

    «Parla per te...», interviene il distinto, poco garbato, ansimando come un cocker e crollando a sua volta sulla poltroncina accanto al divano, «...per il valzer ci vogliono muscoli! Ciao bellezza, ti prenoto per la lambada...», dice rivolto a me.

    Non ho ancora finito di allacciarmi il cinturino delle scarpe, che un tipo lungo, un’aureola di capelli scuri striati di grigio intorno alla fronte altissima, camicia grigia, cravatta grigia, s’inchina quasi ad angolo retto verso il divanetto bisbigliando: «Balli?».

    «Sì...», acconsento, senza troppo slancio.

    Alzandomi in piedi, mi stiro la gonna, poi faccio roteare le caviglie, per controllare il cinturino delle scarpe. Lui mi lancia un’occhiata sommaria. Ma non ho dubbi che sia stata sufficiente a valutare, nonostante la scarsa luce, se corrispondo alle aspettative.

    Mi avvio verso la pista. Lui mi segue.

    Sono piacevolmente consapevole che la gonna appena svasata, molto corta, taglia a metà i miei polpacci sodi e muscolosi, velati di nero, palesemente allenati.

    In quel momento le luci saettano azzurre e la musica riprende, zuccherosa. «Che m’importa del mondo…», sospira la brevilinea aggrappata al microfono.

    Mi fermo al limite della pista, scansando le altre coppie che difendono con distratta protervia lo spazio intorno a loro. Mi volto.

    «Beguine.» sentenzia il mio cavaliere, con voce bassa, gutturale, piazzandosi davanti a me. Subito dopo, con due movimenti lenti e studiati, come quelli di un prete davanti all’altare, mi circonda la vita con il braccio destro, poi alza il sinistro in attesa della mia mano. È il momento dell’esitazione, della timidezza.

    E finalmente lo guardo in faccia.

    Ci guardiamo in faccia.

    Io devo piegare un po’ la testa all’indietro, lui deve

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