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Il regalo più bello
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Il regalo più bello

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About this ebook

E’ il 1986. Pochi mesi prima del Natale. Lorenzo Verace ha dieci anni e vive in una modesta famiglia della periferia napoletana. La quotidianità che il protagonista affronta, e con la quale più spesso si confronta, è fatta di vita familiare, scuola e strada ed offre in ogni momento occasioni per guardarsi dentro, per osservare e riflettere, per crescere e provare a cavarsela: perché la vita non è mai lineare e di punto in bianco ci mette dinanzi a fatti imprevedibili...
LanguageItaliano
PublisherYoucanprint
Release dateDec 17, 2020
ISBN9791220311243
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    Il regalo più bello - Antonio de Gennaro

    fretta.

    Uno

    Spensi le dieci candeline tutte d’un fiato. Mia madre mi aveva detto che se ci fossi riuscito il mio desiderio si sarebbe avverato. Papà mi porse il pacchetto che conteneva il regalo. Scartocciai lentamente pensando qualcosa tra me e me. Mio fratello Alfonso si avvicinò curioso.

    «Che bello…grazie», poi diedi un bacio a papà e uno a mamma.

    «Uà, è bellissimo!», esclamò Alfonso decisamente più entusiasta di me.

    Ruppi la confezione di plastica.

    Eppure le candeline le ho spente tutte d’un fiato! Perché il mio desiderio non s’è avverato neppure stavolta? Avevo chiesto capitan Harlock o Peter Pan, non Daltanious!

    Da sempre era così: volevo un giocattolo e lui se ne tornava con un altro. Sono cresciuto in fretta, per forza di cose. Imparai a fingere molto bene. Facevo una faccia contenta che neppure l’ispettore Derrick sarebbe stato in grado di scoprirmi. Poi però i miei giocattoli indesiderati ammuffivano sulle mensole e io mi ritrovavo a giocare con i vecchi e cari soldatini.

    «I pugni si sganciano. Se pigi quel tasto sui polsi partono come due proiettili», disse papà, orgoglioso del suo regalo manco avesse dovuto giocarci lui.

    Feci partire un pugno verso Alfonso. Si scansò poi mi chiese di provare. Gli diedi il robot e lo lasciai fare. Raccolsi le carte e andai a buttarle nella spazzatura.

    Vaffanculo tu e Daltanious! Azzeccassi mai un regalo!

    Mio padre non era cattivo. Semplicemente se ne fregava. Per lui i bambini erano solo una rottura di palle, esseri inutili con cui non poter fare nessun discorso sensato. Il suo mondo era composto di poche cose: la politica, i sigari, il telegiornale, il calcio, le guerre e le macchine. E’ dura per un bambino riuscire a dire qualcosa su argomenti del genere; ma io leggevo, leggevo, leggevo. Soprattutto quando lui si faceva la pennichella pomeridiana, di là in salotto, o in quello che i miei troppo generosamente chiamavano salotto: una stanzetta umida tre metri per quattro riempita di cose misere e di cattivo gusto tra cui un divanetto nocciola inguardabile, un vecchio televisore Autovox che mio nonno anziché regalare a noi avrebbe fatto meglio a buttare, e un tavolino di legno che mio padre usava da poggiapiedi quando guardava le partite.

    Quel pomeriggio lasciai Daltanious nelle mani di mio fratello. Quando mio padre si fece la solita dormitina gli rubai l’intoccabile Corriere della Sera e mi sdraiai a terra con il giornale che era più grande di me. Leggevo, quanto leggevo!

    Pian piano sparpagliai le pagine lungo il corridoio perché mi piaceva vedere mia madre, nel suo grembiule a fiorellini, fare lo slalom, attenta a non calpestarle per non rovinare il giornale di papà. La porta della cucina era chiusa. Era un segnale inequivocabile: si era messa a stirare. Chiudeva sempre la porta perché non voleva che lo sbuffo del ferro da stiro disturbasse il sonno di papà. Tappezzai praticamente tutto il corridoio e lasciai spazi minimi tra una pagina e l’altra. Poi mi distesi e aspettai. D’un tratto la maniglia della porta della cucina si abbassò lentamente e la porta cominciò a muoversi al rallentatore. Poi con uno scatto violento della maniglia la porta si bloccò. In quella apertura di sette-otto centimetri mia madre ci infilò il piede e spalancò la porta. Non vedevo la sua testa perché uscì dalla cucina con un grattacielo di panni che la superava di almeno venti centimetri, e il primo passo la tradì. Dopo aver sentito il rumore croccante del giornale sotto il piede si fermò e con una torsione del busto liberò la testa dalla pila di panni. Con aria afflitta mi sussurrò la solita frase:

    «Lorenzo! Un’altra volta! Guarda qua che hai combinato. Lo sai che papà non vuole che prendi il suo giornale. E ora dove passo? Raccogli ‘ste pagine e rimetti tutto in ordine».

    Io la fissai e feci fatica a trattenermi dal ridere per quella sua incomprensibile disperazione. Rimasi sdraiato a terra pancia sotto, con le mani a reggermi il mento. Dopo qualche secondo riabbassai lo sguardo verso il giornale, fingendo di ricominciare a leggere. In realtà lo feci per non farle scoprire che stavo ridendo.

    «Ora sistemo. Finisco questo articolo. Passa tra le pagine».

    «Questa è l’ultima volta! Mi sembra di stare a Giochi senza frontiere! Se vuoi leggere il giornale di nascosto fallo pure, ma come i cristiani, seduto a tavola».

    Quel modo di dire, come i cristiani, mi piaceva un sacco. Era il risultato di uno strano miscuglio di religiosità, costume, educazione, cultura. E quante volte al giorno lo sentivo uscire dalla bocca di mia madre. Se avevo i gomiti sul tavolo accanto al piatto, se rompevo il pane con le mani e lo sbriciolavo tutto, se facevo rumore mentre bevevo, lei ripeteva:

    «Come i cristiani, Lorenzo. A tavola si sta come i cristiani. Togli quei gomiti».

    «Lorenzo, il pane non lo devi rompere con le mani. Guarda qua, sembra un porcile. Non puoi mangiare come i cristiani? Quando vuoi il pane dimmelo che te ne taglio una fetta».

    Oppure di là in salotto, se mi sedevo tutto storto sul divano, allungato sul bracciolo, mamma mi richiamava:

    «Non puoi sederti come i cristiani?! Stai composto».

    Se non ero veloce a raddrizzarmi davanti ai parenti mi arrivava pure qualche scappellotto.

    O in camera da letto, se m’addormentavo ancora vestito e magari con le scarpe, lei veniva a spogliarmi per mettermi il pigiama e tra la veglia e il sonno ancora percepivo quella frase, come i cristiani. Lo infilava dappertutto, quel modo di dire, anche per colpa mia che quanto a buone maniere non ero propriamente un lord.

    «Se vuoi leggere il giornale fallo pure, ma come i cristiani!»

    Di solito quella era l’ultima frase che diceva. Come tutte le altre volte non risposi, perché di andare a leggere il giornale in cucina non ci pensavo proprio. Lei guardò a terra, scelse il percorso e partì. Era quello il momento più divertente. La vedevo danzare sulle punte, con quei suoi polpacci forti, con l’eleganza pesante di una donna semplice che aveva passato la vita tra le mura di casa. Una donna che a vent’anni aveva già due figli da tirare su. Quando arrivò accanto a me si fermò.

    «Dai Lorenzo fammi passare un attimo».

    Io sbuffai, poi cercai di darmi un tono.

    «In questa casa non si può neppure leggere in santa pace».

    Mi girai pancia all’aria per aspirare l’odore di amido delle magliette appena stirate, quell’odore di pulito che mamma si portava sempre addosso. La feci passare. Sparì in camera da letto e dopo pochi secondi riapparve, pronta a tornare al ferro da stiro. Libera dai panni evitò senza alcun problema le pagine di giornale. Vederla camminare con tanta facilità fu una delusione così mi reimmersi nella lettura.

    Volevo il rispetto di mio padre, la sua considerazione. Volevo che capisse che nella mia testa, anche se piccola, qualcosa si muoveva. Mamma mia quanto leggevo!

    Lessi abbastanza per affrontare la sfida della sera e quando mi accorsi che l’ora del risveglio di papà era ormai vicina, ricomposi il giornale e andai a rimetterlo sul tavolino di legno davanti al divanetto. Papà dormiva, girato su un fianco, con il braccio destro sotto la testa e l’altro lungo il corpo, le gambe rannicchiate sotto il plaid a scacchi che mamma gli aveva adagiato addosso quando già dormiva.

    Poi tornai di là qualche minuto prima che lui si svegliasse, presi i quaderni e andai a mettermi sul tavolo in cucina, per godermi il calore del ferro da stiro che si era impregnato nella stanza, ma soprattutto per farmi vedere da lui mentre facevo i compiti o, come più spesso succedeva, mentre fingevo di farli.

    Aspettai seduto al tavolo e ripercorsi con la mente tutte le sue mosse, memorizzate nelle milioni di volte in cui l’avevo osservato. Papà si alzava, si stiracchiava e andava in bagno sbadigliando. Tutto come un automa, ancora mezzo addormentato. Si guardava allo specchio, si rassettava i capelli con la mano destra mentre con la sinistra si teneva al lavabo. Poi sentii il rubinetto e quel rumore assurdo e fastidioso che faceva con la bocca quando si buttava l’acqua in faccia per svegliarsi. Si lavò i denti, sputò nel lavandino, tre volte.

    Quando entrò in cucina fece la solita cosa: un bacio sulle labbra alla mamma che come sempre gli chiese:

    «A che ora vieni stasera?»

    La odiavo. Quella domanda mi faceva salire il nervoso perché la risposta di mio padre era sempre la stessa, tutti i santi giorni:

    «Alla solita ora».

    Che voleva dire alle otto.

    E allora, se ‘sta risposta è sempre uguale, che diavolo chiedi a fare? Non c’era verso. Del resto, quella era mia madre e la premura era forse l’unico modo che conosceva per dimostrare amore. Era cresciuta così, in un mondo dove gli uomini lavoravano duramente e le donne dovevano essere premurose. Dovevano alzarsi prima di tutti al mattino, preparare il caffè al marito e la colazione ai bimbi, poi quando tutti erano fuori dovevano rassettare casa dentro e fuori, fare la spesa, preparare da mangiare perché il marito tornava stanco da lavoro e aveva diritto a un cibo caldo, a trovare tutto al posto giusto, al riposo sul divano. Stesso discorso valeva per la sera, e se una minima cosa non era stata fatta come si deve, non si era una buona moglie. La mia bisnonna era stata una moglie premurosa, anche mia nonna lo era stata, le mie quattro zie, le sorelle di mamma, erano tutte così. Non ho mai saputo se amassero veramente i miei zii, ma erano tutte tremendamente, ossessivamente e fastidiosamente premurose.

    Dopo averle risposto con tono secco, papà si voltò verso di me e disse con quella sua voce bassa: «Studia, che stasera quando torno controllo e se non hai fatto tutto facciamo i conti».

    Se per un qualsiasi motivo lo avevo fatto arrabbiare non rispondevo e rimanevo con la testa bassa sui quaderni. Se invece avevo la coscienza a posto, mi ero comportato bene e non avevo alcuna pendenza con la legge, che in casa mia era lui, riuscivo persino a essere ironico. Quel giorno mi ero comportato bene e poi era o no il mio compleanno?

    «Guarda, perché invece di aspettare stasera i conti non li facciamo adesso e mi dai una mano visto che sto facendo matematica?», dissi.

    Quando era di buon umore si voltava verso la mamma e sorrideva insieme a lei.

    «Vabbè, io vado», fu invece il suo commiato dopo avermi fulminato con gli occhi.

    Appena gli sentii chiudere la porta, mi alleggerii del peso che lui mi trasmetteva, dell’esigenza di fare il perfettino. Non ero più costretto a quello sforzo interiore, costante e silenzioso, cui ero chiamato per rispondere a tutte le sue mute domande, a tutti gli interrogativi e a quelle prove d’esame imposte anche dalla sua sola presenza.

    «Lorenzooo, Lorenzoooooooo, Lorenzooooooooooo…»

    La voce di donna rimbalzò fuori dalla cucina, m’inseguì lungo il corridoio, rotolò giù per le scale, ma indifferente continuai a scendere, a correre come un matto tenendomi al corrimano, poi, arrivato al terzultimo gradino di ogni rampa di scale spiccavo un salto spingendomi più in alto che potevo, rischiando ogni volta di andare a sbattere con la faccia nella porta o nella finestra che mi capitava di fronte.

    Arrivato al secondo piano mi fermai. Mi avvicinai alla porta del dottor Roberto Crudele e cominciai ad abbaiare. Pochi secondi e sentii Eros, il suo doberman, correre come un pazzo per tutto il corridoio poi, appena dietro la porta, ringhiare e abbaiare. Io continuai fino a quando il cane non cominciò a grattare con le zampe dietro la porta. Sentii, come sempre, la sua aggressività addosso ma ero al sicuro. Poi un attimo di silenzio, accostai l’orecchio: il naso di Eros fiutava l’aria. Sorrisi, diedi un buffetto al legno della porta dove percepii la presenza del doberman e in quello stesso istante venni travolto nuovamente dai suoi latrati. Mi voltai mentre il cane continuava a ringhiare e infilai la testa nello spazio tra le due scalinate. Guardai in su e incrociai gli occhi azzurri di mia madre che intanto continuava a ripetere il mio nome.

    Ogni volta, sono sicuro, sperava nella mia redenzione, in un attimo di bontà o illuminazione. Ogni volta ci sperava. Io la guardai senza dire nulla. Come sempre. Una frazione di secondo, quanto bastò per leggerle negli occhi quella speranza, per sentire l’abbassamento della voce verso un tono più affettuoso e quella solita, immancabile, richiesta disperata:

    «Lorenzo, ti prego. Sali un attimo, devo dirti una cosa».

    Non risposi. Come sempre. Riabbassai la testa e ripartii come un razzo. In realtà sapevo che voleva qualche favore. O aveva dimenticato di comperare il latte, oppure il pane, oppure pretendeva che andassi dalla zia, a due isolati da casa mia, a portarle qualcosa. E sapevo, soprattutto, che se avessi ceduto, anche solo per un attimo, anche solo di un millimetro, a quel richiamo, mi sarei perso il primo gioco.

    Il primo gioco era quello de le sette pietre. Noi lo chiamavamo il primo gioco perché nel gruppetto avevamo stabilito un ordine cronologico dei giochi da fare il pomeriggio.

    Si formavano due squadre e c’erano sette pietre una sull’altra. Una squadra era la guardiana delle pietre, gli altri erano i ladri. La squadra dei ladri doveva far cadere le pietre col pallone, se ci riusciva cominciava il gioco altrimenti si invertivano i ruoli. L’obiettivo del gioco era che i ladri avrebbero dovuto rimettere le pietre una sull’altra mentre i guardiani glielo avrebbero dovuto impedire eliminando i ladri colpendoli uno ad uno col pallone.

    Questo gioco e l’ultimo, nascondino, che cominciava rigorosamente al calar della sera, erano i miei preferiti e per questo non accoglievo mai le richieste di mia madre. In realtà c’era anche un altro motivo. Se gli altri mi vedevano fare una commissione per lei, mi prendevano in giro, facevano gruppo e mi escludevano.

    Era da sempre così. Mai cedere alle richieste delle mamme o, peggio ancora, subire i loro ordini, mai farsi vedere con buste della spesa o cose del genere. Ti chiamavano femminuccia e diventavi il bersaglio preferito degli sfottò. Era una legge della strada. E a questa se ne accompagnava un’altra. Mai giocare con le bambine. A scuola o per strada, i maschi da una parte e le poche bambine, giusto due o tre, dall’altra. Loro con la corda o le bamboline, noi con il pallone e le pietre, qualcuno con la bicicletta. A dieci anni non avevo la forza di oppormi, così anche quando avrei preferito starmene con le ragazzine e giocare a famiglia per ricoprire il ruolo del padre severo e del marito della mia adorabile Maria, mi lasciavo trascinare dal branco in giochi decisamente maschili, a volte pericolosi.

    Ci dividevamo in due squadre di nove-dieci bambini l’una, e si trattava spesso di conquistare un tesoro posto in un luogo difficile da raggiungere, che richiedeva lo scavalcamento di muri alti e il superamento di ostacoli come paletti, transenne, cancelli e auto.

    Ancora più pericoloso era giocare alla guerra perché le due squadre erano fornite di munizioni che facevano male: le pietre. Ciascun membro di ogni squadra aveva in dote dieci pietre da usare come proiettili. Vinceva la squadra che riusciva a mantenere almeno un componente vivo.

    Questo era il gioco in cui sfogavamo i nostri istinti più bassi. Non esistevano regole. Tre soli elementi entravano in campo: la furbizia, la forza e l’abilità.

    I giochi ci tennero impegnati l’intero pomeriggio e per me finirono, come sempre, alle otto di sera. Appena vedevo spuntare il Centotrentuno Mirafiori blu scuro di papà, che si riconosceva da lontano perché aveva eternamente un solo faro funzionante, gli correvo incontro, dimenticavo tutto e tutti e cominciavo la mia recita di adulto. Papà rallentava, mi guardava torvo perché non voleva che stessi a giocare per strada fino alle otto di sera, poi mi faceva due domande.

    La prima era:

    «Hai fatto i compiti?»

    Facevo di sì con la testa anche quando non li avevo fatti.

    La seconda:

    «Sai che si mangia?»

    Quella sera mi ero dimenticato di chiederlo alla mamma e non seppi rispondere. Mi sentii di nuovo piccolo e inadeguato, un ragazzetto da quattro soldi. Papà parcheggiò, mi guardò con aria distaccata, di superiorità, poi però con un lieve sorriso mi concesse la sua clemenza:

    «Forza, vieni su. Sali con me, basta giocare».

    Io non salutai neppure gli amici: i rari sorrisi di papà andavano colti al volo. Mi infilai sotto il suo braccio grosso e muscoloso e cercai di resistere perché i suoi vestiti puzzavano così tanto di sigaro che non riuscivo a spiegarmi come mia madre riuscisse senza problemi ad abbracciarlo e baciarlo tutte le sere al suo rientro.

    A tavola la cena fu come tutte le altre. Mamma e papà erano seduti uno di fronte all’altro. Mia sorella mi sedeva di fronte, mentre Alfonso, di due anni più grande, era alla mia destra. Mia madre si preoccupò di dare da mangiare a mia sorella, di sei anni più piccola di me; controllò che io non mi sporcassi e cercò di destare l’attenzione di mio padre con storie di quartiere. Una faticaccia inutile perché lui era totalmente assorbito dalle notizie del telegiornale e non ascoltò ciò che lei gli diceva. Una scena pietosa cui ero costretto ad assistere tutte le sere e che quella volta continuò per qualche minuto, fino a quando lei non si accorse della completa assenza mentale di lui. A quel punto smise di parlare e si concentrò su noi tre, soprattutto su mia sorella che non voleva mangiare. Tra un boccone e l’altro mi gustai la lotta tra le due donne di casa: mia madre che le provava tutte per imboccarla e mia sorella che con quella sua faccetta dispettosa sputacchiava tutto a destra e sinistra. Quando mia madre non riusciva a spuntarla, mio padre riemergeva dalle fauci del televisore. A volte era sufficiente un «Carolina, basta! Mangia o le prendi», detto in tono minaccioso per spingere la piccolina a ubbidire. Altre volte, quando mia

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